Il difficile confronto coi classici: Le Nuvole di Teatro Due

Ci può essere un giorno con due lune, una vecchia e una nuova?

STREPSIADE: Non può essere?

FIDIPPIDE: E come? A meno che la stessa donna non possa essere a un tempo vecchia e giovane!

Non può in effetti, tranne che a teatro. Nello stesso edificio dove va in scena Teatro Due, Cristina Crippa invecchiava di quarant’anni nel giro di un’ora e mezza, la durata dello storico spettacolo dell’Elfo Lola che dilati la camicia. Non c’è nulla che a teatro non si possa.

Ci sono però espedienti che non funzionano; la compagnia parmense ce li presenta nello spettacolo le Nuvole, manchevole sotto molti aspetti. Si tratta di un classico del teatro antico, di una commedia per giunta. La risata è più difficile del pianto e mettere in scena Aristofane è un bell’impegno da assumersi con gli spettatori, che da tanto ardire sarebbero legittimati ad aspettarsi una riflessione seria sull’attuale crisi della cultura. L’aspettativa è di approdare tramite il divertimento ad interrogativi profondi perchè, come osservava Brecht, “per il pensiero non c’è lancio migliore del riso. E, in particolare, le vibrazioni del diaframma sogliono offrire al pensiero occasioni migliori di quelle dell’anima“. Ma il diaframma oggi riposa e il pensiero è rimandato. Come può essere altrimenti di fronte al repertorio di espedienti scolastici, talvolta banali, che l’ensemble di Teatro Due dispensa a piene mani – sette attori coinvolti, quattordici mani per queste Nuvole cariche di occasioni mancate.lenuvole_phmichelelamanna_9

Non che Teatro Due difetti di entusiasmo o di motivazione: Gigi Dall’Aglio dichiara gli intenti della compagnia.

“Le Nuvole parlano di un tema che ci è molto caro e che è molto vivo nella nostra contemporaneità: il senso e l’importanza del dibattito culturale all’interno di una società in crisi”. Sul foglio di sala campeggia la domanda “Con la cultura si mangia?” E’ sacrosanto che il teatro interroghi la società, assumendo il ruolo del tafano che già fu di Socrate. “La scena è lo specchio della platea; gli attori sono lo specchio del pubblico […] e ancora una volta la città è interpellata, invitata a riflettere su cosa sia questa strana cosa chiamata pensiero, chiamata desiderio”.

I motivi per cui è difficile cogliere questo “desiderio” sono tanti e attengono prevalentemente alla sfera tecnica; sarebbe malafede non riconoscere perlomeno la validità delle scelte drammaturgiche. Il tentativo di riattualizzazione del testo classico è accademico ma efficace, sebbene alcuni scherni riguardino più la storia contemporanea che la cronaca – il caso Scajola è del 2011 e ha generato schiere di umorismi, non negli ultimi due anni però. Nessun onomastí komodéin e questo è un grande sollievo: non siamo di fronte all’ennesima ripresa filologicamente inappuntabile e mortalmente noiosa fino all’ultima didascalia.

Di contro, a essere didascalica è la messa in scena. L’artificio sfacciatamente metateatrale d’interpretare una compagnia on the road di comici impegnati nella messa in scena di Aristofane non è né convincente né particolarmente innovativo. Emergere da una vecchia berlina come i pagliacci della famosa gag, vestiti all’euzone e col pallio in bella mostra, per poi scodellare una forzata battuta sulle “auto blu” non ha senso; se sulla locandina questa bizzarra immagine incuriosisce, dal vivo delude. E dopo aver invaso il palco con malagrazia, ecco che dalla macchina si propaga a macchia d’olio un’accozzaglia di scenografie e oggetti non necessari e fastidiosi: un triangolo di segnalazione, trombe, ottoni, pizzi e trine. L’unico modo per rappresentare le nuvole sembra infatti essere renderle il più vaporose possibile e per sicurezza aggiungere velette e brillantini a più non posso sulle interpreti, che nonostante tutto questo apparato da Principesse Disney non riescono a dare gran prova di sé né come divinità né come attrici. Ma forse sono i cori, trasformati per l’occasione in canzonette da cabaret, che le mettono in difficoltà.

L’obbiettivo non è il kitsch, un linguaggio teatrale ben definito e con una sua dignità che viene in parte raggiunta sul finale della pièce; l’intento della messa in scena è piuttosto l’abolizione di ogni astrazione e concettualismo. Il povero Dall’Aglio viene issato come una banderuola nella cesta che Aristofane riserva a Socrate, le Nuvole fanno piovere acqua vera; luci e mechanè si sprecano. L’ensemble sembra dimenticare che una pedante mimesi del reale non premia la finzione teatrale. Ma la cosa peggiore è il ritmo. In particolare, la sua assenza nella prima parte dello spettacolo. E’ inspiegabile visto che nel prosieguo delle vicende il padre Strepsiade e il figlio Fidippide trovano l’intesa che manca per oltre un’ora. Quello che emerge è la difficoltà degli degli attori nel reggere il peso di una partitura complessa e corale tipica del filone classico.

L’arte ha il dovere di interrogarsi sulla contemporaneità politica e sociale. Rivolgersi alle grandi opere del passato può essere un modo per assolvere questo difficile compito ma in nessun caso si può prescindere dalla componente formale ed estetica. Una rappresentazione non si giudica dai suoi presupposti ma dagli esiti, che in questo caso sono confusi e inconcludenti. D’altronde ogni istanza intellettuale si svapora senza il giusto apparato registico e al contrario si irrobustisce se viene ben diretta.

Queste Nuvole ne sono un esempio: dall’inconsistenza della messa in scena emergono alcuni momenti davvero apprezzabili, dalla disputa tra i discorsi Giusto e Ingiusto all’incendio del Pensatoio/automobile, che pur risultando barocca nell’utilizzo di effetti speciali e fumogeni dà finalmente un senso alle scelte scenografiche. E curioso che queste due azzeccate scene rappresentino la più sostanziale differenza tra la prima e la seconda stesura del testo della commedia, lasciata incompleta; le parti più compiute dello spettacolo di Teatro Due sono proprio quelle che Aristofane aggiunse per ultime e su cui lavorò meno. Involontari paradossi a parte, un’ultima raffinatezza fa calare il sipario: Socrate si trascina fuori dalla carcassa fumante della berlina blu per bere la cicuta e citando l’Apologia monda la sua filosofia dall’accusa di sofismo.

Bene, ma troppo tardi.

Giulio Bellotto

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