Ieri sono andata a lavorare come commessa in un noto negozio di abbigliamento, il mio turno finiva alle 21 e questo significa che una volta che tutti i clienti se ne sono andati bisogna piegare tutte le magliette e pantaloni perfettamente in modo che siano pronti per la mattina successiva. A fine giornata i piedi erano tanto gonfi che non ero sicura che sarei riuscita a togliermi le scarpe, il mio stomaco brontolava e la vescica voleva esplodere; a tutto questo bisogna aggiungere l’amara scoperta di non essere assolutamente buona a piegare magliette a velocità sostenuta. Consapevolezza che avevo ben prima che l’altra ragazza che lavorava al mio piano mi chiedesse se ci sarei stata anche il giorno dopo, per poi aggiungere “Spero che tu domani stai a casa a studiare”. E non le avevo nemmeno mai detto che ero una studentessa.
Sconsolata sono tornata a casa e, dopo aver acceso il computer, ho aperto il file della mia relazione –non conclusa- sul taylorismo. L’argomento è solo apparentemente noioso: in pochi sanno esattamente cosa abbia fatto Frederick Taylor, di solito è ricordato insieme a Ford, associando il suo nome con i termini di consumismo, capitalismo e catena di montaggio. Il collegamento non è però del tutto corretto, infatti vi sono delle importanti differenze tra i due approcci al lavoro che si inseriscono in uno snodo epocale tra la fine del positivismo americano (Taylor) e la seconda rivoluzione industriale (Ford). Taylor aveva senz’altro come obiettivo quello della massima efficienza e produttività, ma fu anche il primo a mettere al centro dell’analisi del lavoro il “fattore umano”. Questo aspetto viene più trascurato da Henry Ford, il quale vive in un epoca di maggiore informatizzazione e in cui l’utilizzo della macchina diventa fondamentale a discapito del ruolo dell’operaio. Taylor è un intellettuale che cerca di dare per la prima volta un’organizzazione scientifica al lavoro, partendo da un nuovo sistema di selezione, addestramento e responsabilizzazione del lavoratore. Probabilmente secondo i rigidi criteri di selezione tayloristi ieri io non avrei mai dovuto mettere piede nel negozio.
I detrattori di Taylor furono molti, alcune critiche sono riduttive perché non tengono conto del contesto storico della teoria dell’ordinamento scientifico, mentre altre aprono ad una giusta riflessione sul ruolo del lavoratore. In quest’ultima categoria si può inserire il pensiero di Gramsci, come viene espresso nel suo quaderno 22 (Americanismo e Fordismo): l’organizzazione scientifica del lavoro e soprattutto una più equa distribuzione delle responsabilità tra datori di lavoro e operai può essere utile per un’educazione costruttiva della classe operaia, a patto però che sia gestita dalla classe operaia stessa. Gramsci condanna il controllo eccessivo da parte delle fabbriche sulla vita privata dei lavoratori (concetto che però rimanda più al fordismo che non al taylorismo), infatti questo non solo si fa strumento di interesse economico, ma anche politico, una vera e propria ideologia. La paura è quella che l’operaio diventi un “gorilla ammaestrato” e che perda la sua identità in questo processo lavorativo alienante.
Gorilla o scarafaggio, perché una delle critiche più profonde al taylorismo viene dalla letteratura: Franz Kafka. La vita dello scrittore boemo è di per sé interessante e dà valore alle sue considerazioni: La carriera letteraria non decollò ed è per questo che molti dei suoi scritti sono stati pubblicati postumi, ma egli lavorò tutta la vita; in particolare la sua esperienza all’ufficio legale dell’Istituto di assicurazione dove si occupava della ristrutturazione e razionalizzazione del personale gli permise di raccontare la solitudine dell’uomo in balia dei nuovi meccanismi lavorativi. Egli scrive ad un amico:
“I sogni di riorganizzazione si aggirano come spettri in tutto il mondo. Può succedere qualsiasi cosa. La maggior parte degli uomini non vive nemmeno[…] secernono soltanto una bile acida che li rende ancora più deboli e soli, poiché li separa dagli altri loro simili.[…] Non resta altro che esercitare l’arte della pazienza e ricacciare indietro senza una parola tutta la bile che sale dentro. Questo è tutto quello che possiamo fare per non doverci vergognare degli uomini e di noi stessi”.
Il suo realismo magico, nel celebre racconto La Metamorfosi, trasforma il commesso viaggiatore Gregorio Samsa in uno scarafaggio quasi come se fosse un evento ordinario. Anzi, la mutazione fisica non sembra turbare il protagonista quanto la possibilità di perdere il lavoro perché non riesce ad alzarsi dal letto. Kafka racconta come il lavoratore passi in secondo piano nella società- il capo di Gregorio corre a casa sua appena scopre il ritardo, ma scappa senza alcuna apprensione quando vede cosa gli è successo- e come esso rimanga alienato dall’ “ossessione di non essere chiuso fuori” dal mondo della fabbrica. L’esclusione dal lavoro significa esclusione sociale e anche dalla famiglia che finisce per non sopportare più la forma del figlio, il quale nonostante le sembianze di scarafaggio mantiene una coscienza, tanto che la sua morte viene vissuta come una liberazione. I concetti di razionalità tayoloristi sono la base per il raggiungimento dell’efficienza e della massima prosperità, ma secondo Kafka non possono e non devono diventare un’ideologia. Come nel suo altro romanzo di maggior successo, Il Processo, l’organizzazione che vuole essere razionale diventa irrazionale: il sistema di leggi che dovrebbe garantire la giustizia porta all’ingiustizia, rendendo l’intero processo assurdo (su questo tema dell’applicazione di regole e norme che portano all’assurdo consiglio la lettura del deserto dei Tartari di Dino Buzzati). I personaggi kafkiani che, come li definisce Montale, sono robot o manichini parlanti rappresentano la deformazione operata dai processi di razionalizzazione del lavoro sull’uomo moderno.
Il racconto La metamorfosi è stato pubblicato per la prima volta nel 1915, ma adesso, 2015, la situazione del lavoratore è davvero migliore? La mia esperienza lavorativa non può di certo darmi la risposta che cerco: per quanto mi riguarda la gestione dei negozi di abbigliamento è lungi dalla rigidità di stampo taylorista, ma di recente è venuta a galla la scomoda verità sulla condizione dei lavoratori di una delle aziende di commercio elettronico più famose dei nostri tempi: Amazon. Jeff Bezos fondatore di Amazon è il 19esimo miliardario al mondo, ma pare che la sua ricchezza sia costruita sullo sfruttamento dei suoi lavoratori. Sfruttamento non solo sul piano fisico ma anche su quello psicologico, facendo vivere ai suoi dipendenti sentimenti di paura e competizione. Si aggiunge a questo il controllo ossessivo e continuo dei dipendenti che non si azzardano a rilasciare nessuna dichiarazione pubblica per paura delle ritorsioni. L’inchiesta è raccontata nel libro En Amazonie: Un infiltrato nel migliore dei mondi di David Latour e lo potrete comodamente comprare sulla piattaforma Amazon in formato e-book. A rendere terribilmente ironica l’intera storia è lo slogan di Amazon “Work hard, have fun, make history”, dove la parola fun, indica, come dice lo stesso Latour il tentativo di Amazon “di organizzare la vita dei dipendenti dentro e fuori l’ambiente lavorativo. È un’autentica strategia di conquista del cuore e dello spirito”. Questa manipolazione psicologica non solo sembra confermare i timori di Gramsci, ma ricorda anche un’altra famosa realtà letteraria, quella di 1984. E’ questa la realtà economica che ci aspetta nell’era digitale?
Valentina Villa