E’ vero, possono piacere o non piacere.
Non si può tuttavia negare che gli Stati Uniti d’America in quanto a grandezza dell’immaginario collettivo culturale e nello specifico musicale, siano tra i paesi più sorprendenti in assoluto – le numerose e affascinanti leggende metropolitane a riguardo hanno contribuito non poco.
Sarebbe impagabile, ad esempio, farsi un giro per South Michigan Avenue nella Chicago anni 50 e impalarsi davanti agli studi della Chess Records. Nell’arco di un decennio entrarono da quella leggendaria porta centinaia di contadini di colore del Mississippi, con nomi tipo McKinley Morganfield o Chester Arthur Burnett. Persone che ne uscirono un paio di ore dopo trasformate in Muddy Waters e Howlin’ Wolf, puliti, vestiti, lavati (ma non troppo) e a bordo di una Cadillac.
Così come, personalmente, non disdegnerei di assistere al momento in cui un certo Robert Leroy Johnson consegnò la sua anima a Satana in cambio di un po’ di blues. E poi abbiamo tutte le storie che circondano il country di Nashville, il blues di Detroit, il jazz di New Orleans; scene e città che compongono quella linea di congiunzione astratta tra la frenetica, grigia, snob New York della Factory di Wahrol col sound proto-punk dei Velvet Underground e la colorata, solare, lisergica California hippie del Whiskey a go-go – Jack Kerouac e la sua banda di amici fulminati hanno percorso questa strada giusto un paio di volte.
Proprio in California spiccò una band che, in particolare nella seconda metà degli anni ’60, si caratterizzò per descrivere l’immaginario della West Coast tramite chitarre Rickenbacker a 12 corde e melodie soffici, leggere, col dichiarato intento di trasportare l’ascoltatore in alto nel cielo, quasi come se fossi veramente un Byrd, ossia un Bird un po’ sconvolto dall’acido. A proposito, i The Byrds teneteveli bene in mente perché più avanti torneranno.
Tuttavia, di tutte le città americane che hanno profondamente contribuito allo sviluppo della musica contemporanea a stelle e strisce, ce n’è una in particolare che lo ha fatto cogliendo la vera peculiarità della nazione: Memphis, Tennessee. Cosa intendo per “vera peculiarità”? La multietnicità.
Gli Stati Uniti nella loro storia, infatti, avrebbero anticipato una tendenza, ora diffusa su tutto il pianeta: la formazione di società multietniche, miscelando e sintetizzando elementi eterogenei in un unico calderone culturale. Ora, senza stare ad approfondire i vari passaggi di questo processo, anche perché non sarebbe sufficiente un libro intero, è però abbastanza ovvio credere o almeno immaginare che tale melting pot sia stato uno degli elementi fondamentali per la nascita della musica contemporanea mondiale così come la conosciamo oggigiorno. Gli USA, con i suoi circa 60 milioni di cittadini con origini britanniche, 50 milioni con almeno uno zio o un nonno tedesco/polacco, 40 milioni di afroamericani, 30 milioni di messicani e 18 milioni di italoamericani, sono stati oggetto, nel corso degli anni, di una vera e propria invasione di culture differenti.
Detto questo, se è vero che l’arte si nutre da secoli di innovazione e sperimentalismi e, ancora, se è altrettanto vero che la musica è arte, non poteva esserci un nido più allettante per la nascita e lo sviluppo del suo ramo contemporaneo rispetto al contesto multietnico in cui gli Stati Uniti, volenti o nolenti, si sono ben presto ritrovati. Bene, Memphis è una città specchio di questo scenario: al 1960, nella città del Tennessee, abitavano afroamericani e bianchi in una percentuale più o meno del (quasi) 2 a 1. In armonia? Bè, dal punto di vista sociale, che poi è l’aspetto veramente importante, no (basti pensare all’assassinio di Martin Luther King avvenuto nel 1968 al Lorraine Motel di Mulberry Street) ma dal punto di vista musicale, decisamente sì.
Per quanto riguarda la componente “bianca” negli anni 50 la città sfornò grazie alla Sun Records il cosiddetto Milion Dollar Quartet, nome con il quale vennero definiti quattro musicisti solisti che, come si può facilmente desumere dal nome, oltre ad aver condotto la Sun Records a ribalta internazionale, contribuì a portare un certo quantitativo di ricchezza (diciamo nell’ordine dell’ “inimmaginabile”) a Sam Phillips che di tale etichetta ne era il fondatore. Stiamo parlando di Elvis Presley, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis e Carl Perkins.
Tralasciando non con poca difficoltà il capitolo infinito sul Rockabillye affini, e facendo un balzo sull’altra sponda di Memphis, quella “nera”, si giunge al cospetto di una serie di artisti immortali, tutti con un comun denominatore piuttosto preciso, il nome della Stax Records. E’ proprio da questa etichetta o, meglio, dal suo fallimento artistico di fine anni 60 che la nostra storia, quella dei Big Star, affonda le proprie radici. La morte di Otis Redding, avvenuta nel 1967, segnò la svolta storica della Stax. Questa non solo perse la star di spicco del proprio roster ma cominciò un rapido e inesorabile declino che la ridusse, dopo la separazione dall’Atlantic Records che venne inglobata dalla Warner, a una quasi totale assenza di roster nel 1969 e a toccare definitivamente il fondo all’alba del nuovo decennio.
E’ a questo punto che la situazione venne presa in mano da Al Bell, uno dei produttori della nuova cordata che acquisì l’etichetta in crisi. Bell rinfrescò l’immagine decaduta della Stax e cominciò a mettere sotto contratto volti completamente nuovi nel panorama musicale, come Frederick Knight e i The Soul Children. E’ questo anche il periodo dove gli artisti della Stax cominciarono a registrare in studi esterni, ad esempio gli Ardent Studios di Memphis, e con produttori esterni, come accade nelle case discografiche moderne, cancellando perciò definitivamente il controllo artistico e sonoro che caratterizzò tutte le pubblicazioni Stax dei vent’anni precedenti: da Don Covay a Wilson Pickett, da Aretha Franklin a Otis Redding, passando per William Bell, Albert King e Eddie Floyd. Oltre al tentativo di rinascita della Stax, a Memphis, verso la fine degli anni 60, spopolò la moda delle teen band locali, fenomeno strettamente collegato alla nascita oltreoceano della British Invasion. Così, da un giorno all’altro, tutti i garage di Memphis vennero improvvisati a sala prove e tutti i teenagers della zona, per essere veramente cool, dovevano avere la propria band di musica beat.
Tutto ciò ebbe come conseguenza che a Memphis il music business cominciò a muoversi anche in questa direzione e alcune etichette/produttori misero sotto contratto quelle teen band che spiccassero su tutte per potenziale commerciale. I produttori Chips Moman e Dan Penn nel 1966 ne individuarono una in particolare: i The Devilles, poi diventati The Box Tops, la migliore blue eyed soul band di tutto lo Shelby. Moman e Penn spremettero la band ai limiti dell’inverosimile per i quattro anni successivi contribuendo a far diventare i sedicenni The Box Tops un fenomeno quasi planetario: oltre 4 milioni di 45 giri venduti, tre singoli nella top tenamericana, due album e più di 300 concerti in giro per il mondo.
All’interno dei The Box Tops si mise in evidenza su tutti un membro in particolare (guarda a caso il lead vocalist) con un’innata propensione verso la musica nera – il padre Sidney era un maestro di musica jazz – e una voce come non si sentivano da tanti anni dal lato “bianco” di Memphis: il suo nome era William Alexander Chilton, da tutti chiamato semplicemente Alex.
Alex Chilton aveva appena sedici anni quando, da un giorno all’altro, dovette assentarsi dalle lezioni del proprio liceo a tempo indeterminato, lasciando i suoi compagni di classe, giorno dopo giorno, nell’apprensione più totale. Un pomeriggio dopo scuola poi molti degli stessi compagni trovarono risposta accendendo la televisione e sintonizzandosi sul programma The Big Five Show, noto anche come Upbeat, dove spesso facevano apparizione le band più in voga del periodo, americane e non. Passarono per quello studio i The Who, The Rolling Stones, The Monkees, gli Yardbirds e, una sera del 1967, anche i The Box Tops con il loro singolo più famoso, The Letter – andiamo! Chi non ha mai ballato sulle note di questa canzone ad un party? – che Chilton interpretò con una maturità inquietante per un diciassettenne semi-sbarbato.
Un bel giorno poi nel febbraio 1970, per un motivo o per l’altro, anche se l’eccessivo sfruttamento da parte dei produttori giocò un ruolo determinante nella decisione finale, la band si sciolse o, meglio, la formazione originale si sciolse, dal momento che invece il brand The Box Tops andò avanti per anni. Bill Cunningham, il bassista, apportò come versione ufficiale il fatto che dovesse tornare a scuola, mentre Chilton e Talley si sentirono pronti per intraprendere dei progetti artistici differenti. Così, all’alba del 1971 l’appena ventenne Alex Chilton era già un mostro della discografia americana e trascorreva le sue giornate un po’ a casa dei genitori a comporre nuove canzoni, un po’ in giro per i garage di Memphis a fare delle jam session con altre teen band locali.
Ben diversi (e meno entusiasmanti) sono i preamboli che servono ad annunciare l’altro protagonista della storia.
Christopher Branford Bell, meglio noto come ChrisBell, infatti, era un timido e introverso ragazzotto con una passione quasi maniacale per la musica bianca d’oltreoceano (Beatles, Led Zeppelin, Rolling Stones, Yardbirds, The Who e Kinks la sua religione) e per la musica in generale, comprendente anche gli aspetti più tecnici del suono, dalla registrazione alla tecnologia al suo servizio. Studente nella media, Bell aveva in realtà soltanto due hobby che gli interessassero veramente: bazzicare per gli Ardent Studios (con lo spirito di Pinocchio nel “paese dei balocchi”) e suonare in una band. Dal 1964 Bell suonò in decine di teen band diverse, in particolare nei The Jynx, una delle band liceali migliori per il Rhythm & Blues di stampo britannico. E’ grazie all’esperienza The Jynx che, per la prima volta nel 1966, prima ancora dei The Box Tops, Bell e Chilton suonarono insieme per un paio di settimane: il secondo accettò la richiesta del primo di entrare a far parte della band come lead vocalist. Due settimane dopo poi Chilton mollò tutto per dedicarsi a tempo pieno ai Box Tops ma intanto tra i due cominciava a nascere sempre più intesa e ammirazione reciproca.
Siccome nella vita in generale funziona quasi sempre che “dopo il danno la beffa”, Bell ed i suoi Jynx non solo persero il cantante appena reclutato, ma anche il bassista che guarda a caso suonava pure lui nei Box Tops, vale a dire quel Bill Cunningham che nel 70 lasciò tutto per tornare a scuola, ricordate?
Bell rimase così senza una band stabile ma con molti sogni (e canzoni) nel cassetto. Poco male, l’occasione per rifarsi si presentò quasi subito, nel 1969, quando Bell, insieme con il batterista Jody Stephens e il bassista Andy Hummel, formò gli Icewater.
Bene, all’alba del 1971, mentre un veterano Alex Chilton stava sondando il terreno per nuove avventure musicali, un giovane di belle speranze Chris Bell continuava a dilettarsi con la sua band locale.
Tuttavia, Alex Chiltonnon non si era dimenticato della sua controparte, affatto! Dopo aver rispedito al mittente una peraltro invidiabile offerta come lead vocalist da parte dei Blood, Sweat & Tears, Chilton bussò alla porta di casa Bell per chiedere se Chrisfosse interessato a formare con lui una sorta di duo sul modello Simon & Garfunkel. Al momento della proposta, sono sicuro che Chilton si aspettasse qualunque risposta meno che un secco “no”. Ad ogni modo Bell ci tenne a specificare che, nel caso Chilton volesse presenziare ed eventualmente suonare a qualche prova degli Icewater, sarebbe stato di certo il benvenuto. Ovviamente, Chilton ci andò e sarebbe scontato nonché noioso stare qui a raccontarvi di come questo incontro comportò la nascita, in breve periodo, di una band dal potenziale enorme: i Big Star (nome e logo presi entrambi in prestito dalla catena di supermercati che spopolava nel Tennessee negli anni 60, Big Star Markets).
In un lampo, i neonati Big Star si ritrovarono all’interno degli studi di registrazione Ardent (avevate dubbi?) a registrare un album sotto produzione della mitica Stax Records, al quale diedero il titolo – successivamente visto come una maledizione – di #1 Record.

La copertina di Number One Record, esordio dei Big Star
Questo album è senza dubbio una delle massime espressioni del Power Pop, genere nato appunto a cavallo tra i 60’s e i 70’s la cui caratteristica principale è quella di fondere gli elementi “power” del più genuino rock & roll britannico e le melodie più “pop” dei Beatles o dei Byrds (rieccoli spuntare). Ci troviamo di fronte a uno dei dieci, massimo quindici dischi pop/rock migliori degli anni ’70 ma #1 Record è anche uno dei lavori più incompresi, sottovalutati e decaduti di tutto il decennio. Rimasto sugli scaffali dei negozi di dischi di Memphis, invenduto, per oltre dieci anni e oscurato dall’avvento dell’hard rock, guadagnò la notorietà che avrebbe meritato (e comunque non abbastanza!) soltanto a partire da metà anni ’80.
Intanto i Big Star non stavano certo con le mani in mano: due anni dopo pubblicarono un secondo EP, Radio City, e nel ’78 arrivò Third. La band aveva sfiorato la fortuna, ma il successo non arrivò mai. Quello che resta ai fan, oltre a un album reunion del 2005 intitolato In Space e a qualche live degli anni ’90, è la loro incredibile musica; alla storia che vi ho raccontato però manca un lieto fine.
Chris Bell morì giovane e infelice, 15 giorni prima del suo ventottesimo compleanno, dopo aver regalato al mondo altri capolavori di assoluto valore, come l’album solista I Am The Cosmos.
Alex Chilton, invece, registrò altri due album con i Big Star (Radio City e Third) per poi dedicarsi alla produzione – i The Cramps tra le sue migliori scoperte, dici poco? – sempre e comunque non rinnegando mai i Big Star, anche se, talvolta, fu inevitabile che ne parlasse come una sorta di incidente di percordo.
Andy Hummel, invece, al termine del periodo promozionale, anch’esso fallimentare, di Third, decise di laurearsi e intraprese un’ inaspettata carriera accademica come professore di letteratura inglese.
Jody Stephens, infine, dopo la morte avvenuta nel 2010 di entrambi Chilton e Hummel, è l’unico Big Star rimasto a potersi godere la crescente fama postuma accumulata dalla sua ex-band, chissà con quali pensieri per la testa a riguardo.
In un aspetto però i Big Star possono considerarsi imbattibili, e cioè nel culto che ben presto ne nacque. E’ come se i Big Star rappresentassero un patrimonio personale di pochi, quasi come se #1 Record fosse il rifugio segreto di ciascuno di noi, il luogo dove andiamo a rifugiarci se ci sentiamo giù di morale o se dobbiamo riflettere o se dobbiamo esultare per una buona notizia. Non vorrei essere frainteso: #1 Record non è l’unico album a trasmettere determinate emozioni, ma sulla mia pelle, opinione personale, il fatto che gli altri album con simili qualità li stiano contemporaneamente ascoltando milioni di persone nel mondo ne diminuisce il fascino generale. Per Chilton, Bell, Stephens e Hummel questa mia considerazione sarebbe semplicemente una piccola e amara soddisfazione ma, considerando il mostro in cui si è trasformato il mercato musicale, fatto di artisti e canzoni creati a tavolino, il significato che una band come i Big Star ha assunto nel tempo vale più di qualunque disco venduto.
Edoardo Grimaldi
– la seconda parte del reportage, con la recensione di #1 Record, si trova qui