Month: marzo 2015

Medardo Rosso. Il monumento alla memoria dell’attimo

Madame X (1896)

La concentrata ed intensa mostra dedicata a Medardo Rosso (1858–1928) dalla Galleria di Arte Moderna di Milano è un’ottima occasione per riscoprire quello che fu un grande ispiratore delle avanguardie storiche, un faro per le correnti poveriste degli anni ’60 e un maestro tuttora apprezzatissimo da molti artisti contemporanei. Medardo, torinese di nascita, milanese d’educazione e parigino d’adozione, d’altronde, è la personificazione stessa della rivoluzione artistica novecentesca: lo scultore che, nato nell’ambiente del verismo sociale e scapigliato fine ottocentesco, apre il novecento della sperimentazione. La sua violenta svolta stilistica è peraltro già profetizzata dal suo carattere per certi versi bellicoso. La sua caparbietà lo condusse, infatti, il 29 marzo 1883 all’espulsione dall’Accademia di Brera per indisciplina, dopo essersi messo a capo di una protesta che richiedeva mutamenti negli orari della Scuola di Nudo e lamentava la mancanza di preparati anatomici da copiare. Ma forse anche l’aver picchiato un compagno, reo di non aver firmato l’appello di protesta, produsse una risonanza negativa sulla decisione dell’Accademia. Con lo stesso spirito, nel 1885, registrò all’anagrafe il figlio Francesco Luigi Domenico con il nome di Francesco Evviva Ribelle.

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L’uomo che legge (1900–1904)

Aldilà del temperamento di Rosso, la sua poetica si dichiara con fervore in seguito ad un episodio accaduto nello stesso 1883, in un’aula dell’Accademia di Brera, quando, osservando le ombre lasciate da alcuni studenti di passaggio sul pavimento, gli si rivela la materialità della luce e dell’ombra, ma soprattutto la fugacità dell’essere. L’interesse dell’artista diviene, dunque, quello di catturare un attimo, non fotografico, ma filtrato dalla memoria. La sua scultura si può, quindi, definire come un monumento alla memoria dell’attimo. È proprio il ricordo, in questa continua resistenza dialettica con il tempo che scolpisce la materia, estraendo la forma dall’indefinitezza che la circonda. I volti di Medardo, così, sono colti timidamente dalla corrente che trascina le cose del mondo, mai strappati imperativamente, tanto che la stessa corrente sembra ancora lievemente avvolgerli.

La vita di Medardo è, per certi versi, quella di un isolato, allontanato sia dalla critica ufficiale francese che propendeva per Rodin, alfiere della nazione, con il quale l’italiano ebbe diversi screzi, sia da quella italiana che solo tardi gli perdonerà il suo espatrio a Parigi. Ed è proprio a Parigi, nel 1896, che il silenzioso rivoluzionario creerà la sua opera più audace e più pura, la Madame X. Questa non è più nemmeno il ritratto di qualcuno, è risultato della più totale astrazione. La Madame X ha come parenti più stretti le teste di Modigliani e la Musa Addormentata di Brancusi, opere del 1910, concepite e realizzate quasi quindici anni in ritardo rispetto al volto di Rosso.

La fine lo raggiungerà nel 1928, per setticemia in seguito alle gravi ferite riportate a un piede per la frantumazione di lastre fotografiche in vetro. Sulla tomba l’epigrafe: “Fine di una vita e principio di un’arte”. La mostra alla GAM, nata dalla collaborazione della Galleria milanese con il Museo Rosso di Barzio, e da una serie di prestiti nazionali e internazionali (tra i quali il Musée d’Orsay di Parigi, lo Staatliche Kunstammlungen di Dresda e il Szepmuveszeti Muzeum di Budapest), durerà fino al 30 maggio 2015.

Bernardo Follini

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#1 Record. La stella che non riuscì a brillare

Sapete in quale aspetto i Big Star possono davvero considerarsi imbattibili?
Come vi ho raccontato nel mio reportage su di loro, l’unicità di questa band è il culto che ben presto ne nacque.
E’ come se i Big Star rappresentassero un patrimonio personale di pochi, quasi come se #1 Record fosse il rifugio segreto di ciascuno di noi, il luogo dove andiamo a rifugiarci se ci sentiamo giù di morale o se dobbiamo riflettere o se dobbiamo esultare per una buona notizia.

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Fronte e retro della copertina

Il merito di questo alone mitico che circonda questa band è in gran parte del loro album d’esordio, #1 Record che, oltre ad essere uno dei dieci, massimo quindici dischi pop/rock (lasciamo perdere la definizione di power pop per il momento) migliori degli anni ’70, è altresì uno dei lavori più incompresi, sottovalutati e decaduti di tutto il decennio. Rimasto sugli scaffali dei negozi di dischi di Memphis, invenduto, per oltre dieci anni e oscurato dall’avvento dell’hard rock, guadagnò la notorietà che avrebbe meritato (e comunque non abbastanza!) soltanto a partire da metà anni ’80 quando note band quali i REM, Teenage Fanclub e Weezer cominciarono a citare Chilton/Bell tra le loro massime influenze.

Com’è possibile che un album tanto meraviglioso quanto innovativo abbia girato per dieci anni soltanto su qualche misero centinaio di giradischi? Eppure la critica musicale lo accolse con entusiasmo! Billboard scrisse: “ogni canzone potrebbe essere un singolo”; Rolling Stone, invece, lo valutò “incredibilmente bello”; Record World annunciò: “ci troviamo in presenza di quello che, senza alcun dubbio, è l’album dell’anno”. Bud Scoppa, famoso critico musicale, fece un’ analisi interessante: “anche le melodie più dolci sono circondate da una particolare tensione e da una sottile energia, dovute al suono di chitarra tagliente, potente e pieno”. Anche Cashbox evidenziò difficoltà a esprimere ciò che sentiva: “Questo album segna una di quelle date memorabili dove assistiamo alla fusione di ogni elemento all’interno di un unico grande sound”.

Per me i Big Star sono una lettera spedita nel 1971 e arrivata nel 1983 – Robyn Hitchcock

#1 Record, dal punto di vista musicale, per quanto mi riguarda, è tra le massime espressioni d’ogni epoca di Power Pop, genere nato appunto a cavallo tra i 60’s e i 70’s la cui caratteristica principale è quella di fondere gli elementi “power” del più genuino rock & roll britannico e le melodie più “pop” dei Beatles o dei Byrds (rieccoli spuntare).
In particolar modo, all’interno di #1 Record, le influenze sono tanto precise quanto svariate: Led Zeppelin, The Byrds, The Who e The Beatles in primis. Il lato A di #1 Record è devastante!
Basta appoggiare la puntina sul disco per essere pervasi, dopo appena qualche secondo di “chitarristica tensione” introduttiva, da pura energia “Led Zeppeliana” che va dritta a colpire il petto di chiunque si trovi nel raggio d’azione delle onde sonore. Feel, la traccia d’apertura, è questo e altro: l’instabilità su cui poggia tale energia è resa evidente dal brusco passaggio al ritornello, fatto di armonie vocali soffici e leggere, che può essere paragonato, al primo ascolto, a un gancio destro in pieno volto.
Lo zampino di Bell nel brano si sente ovunque, sia dal punto di vista compositivo sia dal punto di vista dello scientifico arrangiamento avvenuto in studio di registrazione. Anche il testo è partorito dalla mente contorta di Bell e si incastra perfettamente con la struttura instabile del pezzo; si passa così dal primo cantato della strofa molto intenso, dove Bell sfoggia una prestazione canora degna dei migliori Steve Marriot e Robert Plant – “girlfriend what are you doing? You’re driving me to ruin” – al ritornello molto pop, dolce e struggente – “I feel like I’m dying, I’m never gonna live again, you just ain’t been trying, is getting very near the end”. Il pezzo termina con l’ultimo power chord sfumato e il respiro accelerato: non ci si può più stupire di niente.
Sbagliato: The Ballad Of El Godo non solo stupisce, sciocca! I dolci arpeggi di chitarra introduttivi riportano alla mente buona parte della discografia dei Byrds e il folk rock dell’immaginario americano di cui sopra. Entrambe composizione e cantato, questa volta, sono ad opera di Chilton, ma ciò non vieta a Bell di intervenire pesantemente in studio di registrazione, aggiungendo quelle armonie vocali che rendono il ritornello qualcosa di indescrivibile, commovente: “And there ain’t no one going to turn me ‘round”. Si passa a un’altra perla firmata Chilton (ma cantata da Bell stavolta), In The Street. Il brano si apre con un riff di chitarra potente al quale si aggiungono l’incalzante batteria di Stephens e la straordinaria linea di basso di Hummels. Il tipo di struttura è simile a quella di Feel ma tanto è meno complesso l’arrangiamento armonico, tanto sono più complessi gli intrecci di chitarra (sempre più in stile Byrds) a far da congiunzione tra ritornello e special.
Chiudono il lato A Thirteen, Don’t Lie To Me e The India Song. La prima, composta e cantata da Chilton, è forse la ballad principale di #1 Record eprende il titolo dall’età che il suo autore aveva nel giorno in cui egli vide dal vivo i Beatles per la prima volta, in un live a Memphis, appunto tredici; il testo, tuttavia, non fa cenno a questo evento e, anzi, decolla più verso cieli romantico-adolescenziali: “Would you let me walk you home from school?” oppure “maybe friday I can get tickets for the dance and take you”. La seconda invece è un puro ed energico rock & roll duettato da Chilton e Bell, dove la sezione ritmica fa da sovrana quasi tutto il tempo e la chitarra selvaggia di Bell riempie gli spazi vuoti con tanto grezzi quanto efficaci assoli.
La terza, The India Song, è la prima e unica traccia dell’album composta da Andy Hummel. Cantata da Chilton, è forse il brano meno omogeneo tra tutti, complici anche le tastiere di Terry Manning che conferiscono un’atmosfera a tratti quasi esoterica. Il lato B è sicuramente calante dal punto di vista musicale, ma non affatto da sottovalutare per ciò che concerne il campo emozionale: la malinconia della musica e dei testi creano un connubio ad alta emotività dove l’ascoltatore è libero di sentirci ciò che sente. La traccia d’apertura, When My Baby’s Beside Me, ad ogni modo, è comunque sulla linea dei pezzi precedenti, ossia un Power Pop ritmicamente incalzante ma melodicamente soave. In My Life Is Right e Give Me Another Chance, Chris Bell da il meglio di sé sugli arrangiamenti: chitarre acustiche arpeggiate che si intrecciano con la potenza della componente elettrica, armonie vocali complesse a condire i ritornelli e strutture sempre più instabili, con repentini passaggi da strofe più aggressive a ritornelli più morbidi e bridge strumentali (My Life Is Right).
Try Again è un gioiellino firmato sempre Bell che anticipa di qualche anno, a livello musicale, il suo album solista I Am The Cosmos, con un testo al sapore di rimpianto, composto da una frase in loop: “Lord I’ve been trying to be what I should, Lord I’ve been trying to do what I could, but each time it gets a little harder I feel the pain, but I’ll try again”.Watch The Sunrise è l’ultima vera canzone del disco, firmata Alex Chilton, con forti spunti folk e influenze americane – forse uno dei pezzi che scrisse pensando a un’eventuale carriera da duo Chilton & Bell? – con un arrangiamento semplice e azzeccato e le armonie vocali sempre impeccabili.
La traccia conclusiva del lavoro è, più che una canzone, un inno di speranza o di sogni infranti, lunga pochi secondi, ma comunque sufficienti a lasciare l’ascoltatore con l’amaro in bocca e con il tempo di deglutire l’ultimo sorso prima di alzarsi e sollevare la puntina dal disco. #1 Record è così, un album di appena 35 minuti durante i quali l’ascoltatore viene accompagnato da un’orgia di suoni, quasi religiosi, in un viaggio interiore lungo ore e ore. E’ come se al suo interno i Big Star avessero predetto il proprio fallimentare futuro commerciale, con annesse le sofferenze e le difficoltà che ciò comportò, e ne avessero descritto il percorso interiore per filo e per segno.
Un disco fantastico, eppure un fallimento clamoroso: questo fu #1 Record. Resta però da dire una cosa, un pensiero in grado di dare senso a questo bizzarro scherzo del mercato discografico.
Resta il significato che una band come i Big Star ha assunto nella storia della musica, un dato di fatto che vale più di qualunque disco venduto.

Love me again, be my friend, I need you now, I’ll show you somehow – da St 100/6

Edoardo Grimaldi

Miti dello Sport. Episodio 1: Alonzo Mourning

Da oggi inizia sul vostro web blog preferito una rubrica tutta nuova. Scriviamo di lettere, teatri, festival, cinema e quant’altro ma non ci sentiamo abbastanza soddisfatti del nostro repertorio. Da oggi dunque sul Bloggo inizia un appuntamento settimanale che abbiamo deciso intitolare Miti dello Sport. Sebastiano, Tommaso e collaboratori d’occasione si occuperanno di questa rubrica cercando di non proporvi mai nulla di banale ma sopratutto cercando di regalarvi un’emozione, ogni settimana.Miti dello Sport spazierà dalle Olimpiadi al calcio, al Basket NBA alla pallacanestro nostrana, dal tennis al Football americano. Olimpiadi del 1936, Cruijff, Schiacciate e Mazzola questi alcuni dei primi titoli che vi presenteremo. Oggi si incomincia, in collaborazione con i nostri amici di GM Impazziti ed in particolare Filippo, storicista della pallacanestro d’oltre oceano e esperto di basket europeo, con una storia dai tratti mitici quanto incredibili: Alonzo “Zo” Mourning.

Il migliore tra i fiori è il Sakura, il migliore tra gli uomini… il Guerriero.
Famoso detto dell’arte Samurai e emblematico per spiegarne la sua complessa filosofia, questa citazione riguardante il Sakura, fiore giapponese che sboccia dai ciliegi, ci può fornire un assist, migliore anche di quelli partenti dal Muto, sua maestà John Stockton. Assist per cosa, vi chiederete voi… Introdurre un recente All-of-Hamer, signori e signori: Alonzo Mourning. Il Guerriero.

Probabilmente Il centro uscente da Georgetown University non ha parenti o avi samurai ma, il suo atteggiamento, che definire guerriero è quanto di più minimo si può fare, lo rende subito dominante fin dall’esordio (1992) nel massimo campionato cestistico al mondo: la NBA.

Le stagioni da rookie a Charlotte sono veneranda arte per gli amanti dei veri centri “Killing guard’s lay-up”. Con il passaggio a Miami le statistiche decollano, ma non sono quelle a far rabbrividere… Quello che più “spaventa” del signor Mourning è la faccia ogni volta che scende sul parquet: ogni partita è una finale, una battaglia, per rimanere in tema Samurai. SEMPRE.
Nel 2000, quando ormai 30enne domina sotto i tabelloni in competizione nel suo ruolo solo con gente come l’ammiraglio Robinson, centro storico di San Antonio, e Shaq Diesel, gli viene diagnosticata la Glomerulosclerosi Segmentaria: malattia ai reni che porterà, dopo continui blocchi e successivi benestare dei medici, al definitivo trapianto.
Il ritiro sembra inevitabile. L’età avanzata, le ginocchia non più giovani ed atletiche, il trapianto dei reni, l’avvenire di nuovi campioni fanno davvero pensare che per Alonzo Mourning la carriera finirà senza il tanto desiderato “anello”, ovvero il titolo di campione. Nel 2005 dunque arriva la decisione : il ritiro. Ma se pensate che ho scritto un articolo su un giocatore che si è ritirato dopo una grave malattia, e di casi nella storia ne abbiamo tanti purtroppo, allora pensate male. Alonzo Mourning, che diventerà poi un idolo a Miami, non è un giocatore qualunque, lui è un guerriero. Dopo il trapianto torna in campo e lotta con le casacche dei Nets e degli Heat per continuare a dimostrare la sua vera forza, e che senza “anello” non se ne vuole andare.

Pat Riley, manager incredibile della storia NBA, vincitore di 8 anelli, 1 da giocatore (Lakers 1972) 5 da allenatore e 2 da General Manager, lo chiama a Miami, che si è appena assicurata Dwyane Wade e Shaq O’Neil. “Vieni Alonzo, torna a Miami”. Tale scelta, come molte del general di Rome, New York, risulterà azzeccata. Miami quell’anno, il 2006, disputa una stagione incredibile. E finalmente arrivano le Finals NBA, le prime della storia degli Heat. La storia è già scritta. Nelle Finals 2006 in finale contro Dallas, Miami vince il titolo, con uno strepitoso Wade che verrà eletto MVP delle Finale. Seppur come rincalzo di Shaq O’Neil, si l’uomo che abbatteva i canestri, Alonzo Mourning gioca e vince. Il titolo è anche suo ora.
Ok, anche Shawn Elliott degli Spurs vinse un anello senza un rene, ma la storia di AM33 non termina qui: quando si prova la droga della vittoria è difficile farne a meno, per questo decide di difendere il titolo la stagione successiva.
Ma il 19 Dicembre, a 4 anni dal trapianto, si spacca il tendine rotuleo del ginocchio contro gli Atlanta Hawks: entra in campo la barella, ma non serve a nulla….
“Andate via. Non mi serve questa cosa. Io esco sulle mie gambe”
Col sostegno per alzarsi dei compagni finisce l’eterna battaglia di Alonzo: un Samurai appunto abituato a pensare alla “morte” in battaglia non come un fatto negativo ma come l’unica maniera onorevole di andarsene. La sua maglia, la 33, è ancora oggi una delle più vendute a South Beach, Florida.
I Miami Heat, sotto ordine dell’ormai presidente Pat Riley, nel 2009 ritirano la sua maglia numero 33, primo giocatore nella storia della franchigia a ricevere tale onore. Un giocatore, un guerriero e un mito dello sport.

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Filippo Totta

Big Star. La stella che non riuscì a brillare

E’ vero, possono piacere o non piacere.
Non si può tuttavia negare che gli Stati Uniti d’America in quanto a grandezza dell’immaginario collettivo culturale e nello specifico musicale, siano tra i paesi più sorprendenti in assoluto – le numerose e affascinanti leggende metropolitane a riguardo hanno contribuito non poco.
Sarebbe impagabile, ad esempio, farsi un giro per South Michigan Avenue nella Chicago anni 50 e impalarsi davanti agli studi della Chess Records. Nell’arco di un decennio entrarono da quella leggendaria porta centinaia di contadini di colore del Mississippi, con nomi tipo McKinley Morganfield o Chester Arthur Burnett. Persone che ne uscirono un paio di ore dopo trasformate in Muddy Waters e Howlin’ Wolf, puliti, vestiti, lavati (ma non troppo) e a bordo di una Cadillac.
Così come, personalmente, non disdegnerei di assistere al momento in cui un certo Robert Leroy Johnson consegnò la sua anima a Satana in cambio di un po’ di blues. E poi abbiamo tutte le storie che circondano il country di Nashville, il blues di Detroit, il jazz di New Orleans; scene e città che compongono quella linea di congiunzione astratta tra la frenetica, grigia, snob New York della Factory di Wahrol col sound proto-punk dei Velvet Underground e la colorata, solare, lisergica California hippie del Whiskey a go-go – Jack Kerouac e la sua banda di amici fulminati hanno percorso questa strada giusto un paio di volte.
Proprio in California spiccò una band che, in particolare nella seconda metà degli anni ’60, si caratterizzò per descrivere l’immaginario della West Coast tramite chitarre Rickenbacker a 12 corde e melodie soffici, leggere, col dichiarato intento di trasportare l’ascoltatore in alto nel cielo, quasi come se fossi veramente un Byrd, ossia un Bird un po’ sconvolto dall’acido. A proposito, i The Byrds teneteveli bene in mente perché più avanti torneranno.

Tuttavia, di tutte le città americane che hanno profondamente contribuito allo sviluppo della musica contemporanea a stelle e strisce, ce n’è una in particolare che lo ha fatto cogliendo la vera peculiarità della nazione: Memphis, Tennessee. Cosa intendo per “vera peculiarità”? La multietnicità.
Gli Stati Uniti nella loro storia, infatti, avrebbero anticipato una tendenza, ora diffusa su tutto il pianeta: la formazione di società multietniche, miscelando e sintetizzando elementi eterogenei in un unico calderone culturale. Ora, senza stare ad approfondire i vari passaggi di questo processo, anche perché non sarebbe sufficiente un libro intero, è però abbastanza ovvio credere o almeno immaginare che tale melting pot sia stato uno degli elementi fondamentali per la nascita della musica contemporanea mondiale così come la conosciamo oggigiorno. Gli USA, con i suoi circa 60 milioni di cittadini con origini britanniche, 50 milioni con almeno uno zio o un nonno tedesco/polacco, 40 milioni di afroamericani, 30 milioni di messicani e 18 milioni di italoamericani, sono stati oggetto, nel corso degli anni, di una vera e propria invasione di culture differenti.
Detto questo, se è vero che l’arte si nutre da secoli di innovazione e sperimentalismi e, ancora, se è altrettanto vero che la musica è arte, non poteva esserci un nido più allettante per la nascita e lo sviluppo del suo ramo contemporaneo rispetto al contesto multietnico in cui gli Stati Uniti, volenti o nolenti, si sono ben presto ritrovati. Bene, Memphis è una città specchio di questo scenario: al 1960, nella città del Tennessee, abitavano afroamericani e bianchi in una percentuale più o meno del (quasi) 2 a 1. In armonia? Bè, dal punto di vista sociale, che poi è l’aspetto veramente importante, no (basti pensare all’assassinio di Martin Luther King avvenuto nel 1968 al Lorraine Motel di Mulberry Street) ma dal punto di vista musicale, decisamente sì.
Per quanto riguarda la componente “bianca” negli anni 50 la città sfornò grazie alla Sun Records il cosiddetto Milion Dollar Quartet, nome con il quale vennero definiti quattro musicisti solisti che, come si può facilmente desumere dal nome, oltre ad aver condotto la Sun Records a ribalta internazionale, contribuì a portare un certo quantitativo di ricchezza (diciamo nell’ordine dell’ “inimmaginabile”) a Sam Phillips che di tale etichetta ne era il fondatore. Stiamo parlando di Elvis Presley, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis e Carl Perkins.
Tralasciando non con poca difficoltà il capitolo infinito sul Rockabillye affini, e facendo un balzo sull’altra sponda di Memphis, quella “nera”, si giunge al cospetto di una serie di artisti immortali, tutti con un comun denominatore piuttosto preciso, il nome della Stax Records. E’ proprio da questa etichetta o, meglio, dal suo fallimento artistico di fine anni 60 che la nostra storia, quella dei Big Star, affonda le proprie radici. La morte di Otis Redding, avvenuta nel 1967, segnò la svolta storica della Stax. Questa non solo perse la star di spicco del proprio roster ma cominciò un rapido e inesorabile declino che la ridusse, dopo la separazione dall’Atlantic Records che venne inglobata dalla Warner, a una quasi totale assenza di roster nel 1969 e a toccare definitivamente il fondo all’alba del nuovo decennio.
E’ a questo punto che la situazione venne presa in mano da Al Bell, uno dei produttori della nuova cordata che acquisì l’etichetta in crisi. Bell rinfrescò l’immagine decaduta della Stax e cominciò a mettere sotto contratto volti completamente nuovi nel panorama musicale, come Frederick Knight e i The Soul Children. E’ questo anche il periodo dove gli artisti della Stax cominciarono a registrare in studi esterni, ad esempio gli Ardent Studios di Memphis, e con produttori esterni, come accade nelle case discografiche moderne, cancellando perciò definitivamente il controllo artistico e sonoro che caratterizzò tutte le pubblicazioni Stax dei vent’anni precedenti: da Don Covay a Wilson Pickett, da Aretha Franklin a Otis Redding, passando per William Bell, Albert King e Eddie Floyd. Oltre al tentativo di rinascita della Stax, a Memphis, verso la fine degli anni 60, spopolò la moda delle teen band locali, fenomeno strettamente collegato alla nascita oltreoceano della British Invasion. Così, da un giorno all’altro, tutti i garage di Memphis vennero improvvisati a sala prove e tutti i teenagers della zona, per essere veramente cool, dovevano avere la propria band di musica beat.
Tutto ciò ebbe come conseguenza che a Memphis il music business cominciò a muoversi anche in questa direzione e alcune etichette/produttori misero sotto contratto quelle teen band che spiccassero su tutte per potenziale commerciale. I produttori Chips Moman e Dan Penn nel 1966 ne individuarono una in particolare: i The Devilles, poi diventati The Box Tops, la migliore blue eyed soul band di tutto lo Shelby. Moman e Penn spremettero la band ai limiti dell’inverosimile per i quattro anni successivi contribuendo a far diventare i sedicenni The Box Tops un fenomeno quasi planetario: oltre 4 milioni di 45 giri venduti, tre singoli nella top tenamericana, due album e più di 300 concerti in giro per il mondo.
All’interno dei The Box Tops si mise in evidenza su tutti un membro in particolare (guarda a caso il lead vocalist) con un’innata propensione verso la musica nera – il padre Sidney era un maestro di musica jazz – e una voce come non si sentivano da tanti anni dal lato “bianco” di Memphis: il suo nome era William Alexander Chilton, da tutti chiamato semplicemente Alex.

Alex-Chilton Alex Chilton aveva appena sedici anni quando, da un giorno all’altro, dovette assentarsi dalle lezioni del proprio liceo a tempo indeterminato, lasciando i suoi compagni di classe, giorno dopo giorno, nell’apprensione più totale. Un pomeriggio dopo scuola poi molti degli stessi compagni trovarono risposta accendendo la televisione e sintonizzandosi sul programma The Big Five Show, noto anche come Upbeat, dove spesso facevano apparizione le band più in voga del periodo, americane e non. Passarono per quello studio i The Who, The Rolling Stones, The Monkees, gli Yardbirds e, una sera del 1967, anche i The Box Tops con il loro singolo più famoso, The Letter – andiamo! Chi non ha mai ballato sulle note di questa canzone ad un party? – che Chilton interpretò con una maturità inquietante per un diciassettenne semi-sbarbato.
Un bel giorno poi nel febbraio 1970, per un motivo o per l’altro, anche se l’eccessivo sfruttamento da parte dei produttori giocò un ruolo determinante nella decisione finale, la band si sciolse o, meglio, la formazione originale si sciolse, dal momento che invece il brand The Box Tops andò avanti per anni. Bill Cunningham, il bassista, apportò come versione ufficiale il fatto che dovesse tornare a scuola, mentre Chilton e Talley si sentirono pronti per intraprendere dei progetti artistici differenti. Così, all’alba del 1971 l’appena ventenne Alex Chilton era già un mostro della discografia americana e trascorreva le sue giornate un po’ a casa dei genitori a comporre nuove canzoni, un po’ in giro per i garage di Memphis a fare delle jam session con altre teen band locali.
Ben diversi (e meno entusiasmanti) sono i preamboli che servono ad annunciare l’altro protagonista della storia.

chris-bell Christopher Branford Bell, meglio noto come ChrisBell, infatti, era un timido e introverso ragazzotto con una passione quasi maniacale per la musica bianca d’oltreoceano (Beatles, Led Zeppelin, Rolling Stones, Yardbirds, The Who e Kinks la sua religione) e per la musica in generale, comprendente anche gli aspetti più tecnici del suono, dalla registrazione alla tecnologia al suo servizio. Studente nella media, Bell aveva in realtà soltanto due hobby che gli interessassero veramente: bazzicare per gli Ardent Studios (con lo spirito di Pinocchio nel “paese dei balocchi”) e suonare in una band. Dal 1964 Bell suonò in decine di teen band diverse, in particolare nei The Jynx, una delle band liceali migliori per il Rhythm & Blues di stampo britannico. E’ grazie all’esperienza The Jynx che, per la prima volta nel 1966, prima ancora dei The Box Tops, Bell e Chilton suonarono insieme per un paio di settimane: il secondo accettò la richiesta del primo di entrare a far parte della band come lead vocalist. Due settimane dopo poi Chilton mollò tutto per dedicarsi a tempo pieno ai Box Tops ma intanto tra i due cominciava a nascere sempre più intesa e ammirazione reciproca.
Siccome nella vita in generale funziona quasi sempre che “dopo il danno la beffa”, Bell ed i suoi Jynx non solo persero il cantante appena reclutato, ma anche il bassista che guarda a caso suonava pure lui nei Box Tops, vale a dire quel Bill Cunningham che nel 70 lasciò tutto per tornare a scuola, ricordate?
Bell rimase così senza una band stabile ma con molti sogni (e canzoni) nel cassetto. Poco male, l’occasione per rifarsi si presentò quasi subito, nel 1969, quando Bell, insieme con il batterista Jody Stephens e il bassista Andy Hummel, formò gli Icewater.

Bene, all’alba del 1971, mentre un veterano Alex Chilton stava sondando il terreno per nuove avventure musicali, un giovane di belle speranze Chris Bell continuava a dilettarsi con la sua band locale.
Tuttavia, Alex Chiltonnon non si era dimenticato della sua controparte, affatto! Dopo aver rispedito al mittente una peraltro invidiabile offerta come lead vocalist da parte dei Blood, Sweat & Tears, Chilton bussò alla porta di casa Bell per chiedere se Chrisfosse interessato a formare con lui una sorta di duo sul modello Simon & Garfunkel. Al momento della proposta, sono sicuro che Chilton si aspettasse qualunque risposta meno che un secco “no”. Ad ogni modo Bell ci tenne a specificare che, nel caso Chilton volesse presenziare ed eventualmente suonare a qualche prova degli Icewater, sarebbe stato di certo il benvenuto. Ovviamente, Chilton ci andò e sarebbe scontato nonché noioso stare qui a raccontarvi di come questo incontro comportò la nascita, in breve periodo, di una band dal potenziale enorme: i Big Star (nome e logo presi entrambi in prestito dalla catena di supermercati che spopolava nel Tennessee negli anni 60, Big Star Markets).
In un lampo, i neonati Big Star si ritrovarono all’interno degli studi di registrazione Ardent (avevate dubbi?) a registrare un album sotto produzione della mitica Stax Records, al quale diedero il titolo – successivamente visto come una maledizione – di #1 Record.

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La copertina di Number One Record, esordio dei Big Star

Questo album è senza dubbio una delle massime espressioni del Power Pop, genere nato appunto a cavallo tra i 60’s e i 70’s la cui caratteristica principale è quella di fondere gli elementi “power” del più genuino rock & roll britannico e le melodie più “pop” dei Beatles o dei Byrds (rieccoli spuntare). Ci troviamo di fronte a uno dei dieci, massimo quindici dischi pop/rock migliori degli anni ’70 ma #1 Record è anche uno dei lavori più incompresi, sottovalutati e decaduti di tutto il decennio. Rimasto sugli scaffali dei negozi di dischi di Memphis, invenduto, per oltre dieci anni e oscurato dall’avvento dell’hard rock, guadagnò la notorietà che avrebbe meritato (e comunque non abbastanza!) soltanto a partire da metà anni ’80.

Intanto i Big Star non stavano certo con le mani in mano: due anni dopo pubblicarono un secondo EP, Radio City, e nel ’78 arrivò Third. La band aveva sfiorato la fortuna, ma il successo non arrivò mai. Quello che resta ai fan, oltre a un album reunion del 2005 intitolato In Space e a qualche live degli anni ’90, è la loro incredibile musica; alla storia che vi ho raccontato però manca un lieto fine.

Chris Bell morì giovane e infelice, 15 giorni prima del suo ventottesimo compleanno, dopo aver regalato al mondo altri capolavori di assoluto valore, come l’album solista I Am The Cosmos.
Alex Chilton, invece, registrò altri due album con i Big Star (Radio City e Third) per poi dedicarsi alla produzione – i The Cramps tra le sue migliori scoperte, dici poco? – sempre e comunque non rinnegando mai i Big Star, anche se, talvolta, fu inevitabile che ne parlasse come una sorta di incidente di percordo.
Andy Hummel, invece, al termine del periodo promozionale, anch’esso fallimentare, di Third, decise di laurearsi e intraprese un’ inaspettata carriera accademica come professore di letteratura inglese.
Jody Stephens, infine, dopo la morte avvenuta nel 2010 di entrambi Chilton e Hummel, è l’unico Big Star rimasto a potersi godere la crescente fama postuma accumulata dalla sua ex-band, chissà con quali pensieri per la testa a riguardo.

In un aspetto però i Big Star possono considerarsi imbattibili, e cioè nel culto che ben presto ne nacque. E’ come se i Big Star rappresentassero un patrimonio personale di pochi, quasi come se #1 Record fosse il rifugio segreto di ciascuno di noi, il luogo dove andiamo a rifugiarci se ci sentiamo giù di morale o se dobbiamo riflettere o se dobbiamo esultare per una buona notizia. Non vorrei essere frainteso: #1 Record non è l’unico album a trasmettere determinate emozioni, ma sulla mia pelle, opinione personale, il fatto che gli altri album con simili qualità li stiano contemporaneamente ascoltando milioni di persone nel mondo ne diminuisce il fascino generale. Per Chilton, Bell, Stephens e Hummel questa mia considerazione sarebbe semplicemente una piccola e amara soddisfazione ma, considerando il mostro in cui si è trasformato il mercato musicale, fatto di artisti e canzoni creati a tavolino, il significato che una band come i Big Star ha assunto nel tempo vale più di qualunque disco venduto.

Edoardo Grimaldi

– la seconda parte del reportage, con la recensione di #1 Record, si trova qui

La Giornata internazionale del Teatro arriva anche in Italia

In una società che ha molte questioni complesse come la nostra, utilizzare gli spazi pubblici e comuni della città, non può vere come unico scopo l’intrattenimento del  pubblico. Vi è un imperativo morale per affrontare le questioni urgenti del nostro tempo, e di chiedere agli artisti di dedicarsi a questo.

Con queste parole Brett Bailey dichiarava, presentando il festival “Infecting the City Festival” di Città del Capo, l’intento spiccatamente sociale che il suo teatro aveva già nel 2008.

Oggi, 27 marzo 2015, si celebra la  Giornata Mondiale del Teatro, istituita a Vienna nel 1961 durante il IX Congresso mondiale dell’Istituto Internazionale del Teatro. La proposta veniva da Arvi Kivimaa del Centro Finlandese ma quest’edizione 2015 verrà patronato proprio dal sudafricano Bailey. Infatti si tratta di un’iniziativa internazionale che dal 27 marzo 1962 è celebrata dai Centri Nazionali dell’I.T.I. che esistono in un centinaio di paesi del mondo.

Ogni anno una personalità del mondo del teatro, ma non solo, è invitata a condividere le sue riflessioni nel “messaggio internazionale”. Jean Cocteau fu l’autore del primo messaggio internazionale nel 1962; per la Giornata Mondiale del Teatro 2014 – lo scorso 27 marzo – il messaggio è stato affidato a Brett Bailey, drammaturgo, designer, regista, curatore di festival e direttore artistico della compagnia Third World Bun Fight, riconfermato anche quest’anno nel compito.

Questo è il suo secondo messaggio internazionale:

Ovunque ci sia una società umana, lo spirito irrefrenabile del teatro si manifesta.

Sotto gli alberi nei piccoli villaggi, sui palchi tecnologicamente avanzati nelle  metropoli internazionali; nelle palestre scolastiche e nei campi e nei templi; nelle baraccopoli, nelle piazze, nei centri di quartiere e negli scantinati del centro città, le persone sono portate a condividere gli effimeri mondi del teatro che noi creiamo per esprimere la nostra complessità umana, la nostra diversità e la nostra vulnerabilità, con il corpo, il respiro e la voce .

Ci riuniamo per piangere e per ricordare, per ridere e per contemplare;  per imparare e affermare ed immaginare. Per meravigliarsi della destrezza tecnica, e per incarnare gli dèi . Per afferrare il nostro respiro collettivo e la nostra abilità nel produrre la bellezza e la compassione e la mostruosità. Veniamo per caricarci di energia ed essere più forti. Per celebrare la ricchezza delle nostre diverse culture  e per far dissolvere i confini che ci dividono.

Ovunque ci sia la società umana, lo Spirito irrefrenabile del teatro si manifesta. 

Nato dalla gente, indossa le maschere e i costumi delle nostre diverse tradizioni. Sfruttando le nostre lingue, i ritmi ed i gesti, il teatro libera uno spazio in mezzo a noi .

E noi, gli artisti che lavorano con questo antico spirito, ci sentiamo obbligati a canalizzarlo attraverso i nostri cuori, le nostre idee e i nostri corpi,  per rivelare le nostre realtà in tutta la loro mondanità e scintillante  mistero.

Ma, in questa epoca in cui tanti milioni di persone stanno lottando per sopravvivere, stanno soffrendo sotto regimi oppressivi ed un capitalismo predatorio, sono in fuga dai conflitti e dal disagio; un epoca in cui il nostro diritto alla riservatezza è invaso dai servizi segreti e le nostre parole sono censurate da governi invadenti, in cui le foreste vengono distrutte, le specie animali sterminate e gli oceani avvelenati: cosa ci sentiamo in dovere di rivelare?

In questo mondo dove il potere è distribuito in modo diseguale , in cui vari ordini egemonici cercano di convincerci che una nazione , una razza , un genere, un orientamento sessuale , una religione, una ideologia , una cornice culturale è superiore a tutte le altre, è davvero difendibile insistere sul fatto che le arti devono essere staccate dai programmi sociali?

Noi, gli artisti delle arene e dei palcoscenici, ci stiamo conformando alle sterilizzanti richieste del mercato  o stiamo prendendo il potere che abbiamo per aprire uno spazio nei cuori e nelle menti della società , per riunire le persone attorno a noi, per ispirare , incantare, informare, e  creare un mondo di speranza e di sincera collaborazione?

E in Italia? Quest’anno per la prima volta la Giornata mondiale del Teatro si festeggerà anche da noi con iniziative e spettacoli per tutto il Belpaese – i comuni più virutosi, come quello di Genova, propongono appuntamenti davvero interessanti, una sorta di mini-stagioni pensate per l’occasione.

Grazie al sostegno dell’Eti e di Agis, oggi molto palcoscenici saranno aperti, i biglietti gratuiti e scontatissimi e sono previste visite guidate, incontri con gli attori, il tutto per accendere i riflettori sul Teatro e porlo al centro dell’interesse della vita pubblica come sostiene Gianni Letta, Presidente del Comitato Scientifico Organizzatore. 

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D’altronde era assurdo che fin ora il Paese dove Eduardo De Filippo pronunciò la bella frase “Il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita”, ignorasse questo spunto di riflessione su una forma di espressione artistica fondamentale come il Teatro, sopratutto in un’epoca di spending review che non ha sminuito la voglia di cultura, spesso con il solo sostegno dello spettatore. 

Dunque a tutti voi, spettatori e attori, buona Giornata Mondiale!

Giulio Bellotto

La miglior collana di fumetti in circolazione: le Storie Bonelli

In questi giorni, nei canali social dedicati al mondo del fumetto si è parlato molto dell’affaire Tex. Colgo dunque l’occasione per calmare gli animi un po’ a tutti e parlarvi della collana Sergio Bonelli Editore che più mi piace da oramai due anni a questa parte.
Sto parlando della serie “Le Storie”.

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Alcuni albi della serie nella loro variopinta livrea cartonata

Iniziata a Ottobre del 2012, questa serie ha saputo non solo attirare la mia attenzione da lettore accanito di fumetti, ma in poco tempo si è saputa guadagnare il meritato ed esclusivo “corri all’edicola” award. Le Storie è infatti la serie Bonelli che più aspetto durante tutto il mese. Un tempo era Dylan Dog, serie che comunque continuo a seguire e a leggere volentieri nonostante le numerose critiche che periodicamente ogni mese leggo sulla pagina ufficiale facebook, critiche che non condivido proprio.
Arrivati dunque al numero 30 di questa serie, che vuole dire 2 anni e mezzo di pubblicazioni, voglio in primis fare i miei più sinceri complimenti ai creatori e ideatori della serie, in secundis stilare una TOP 5 degli episodi che più mi sono piaciuti.
Quinto classificato si posiziona No Smoking il numero 4 della collana, di Pasquale Ruju (testi) e Carlo Ambrosini (disegni). Avvincente, ben strutturato e bellissima storia. Mi ha ricordato molto il film I Soliti Sospetti, per il suo finale thriller.
Quarto classificato si posiziona Mercurio Loi il numero 28 della collana, di Alessandro Bilotta (testi) e Matteo Mosca (disegni). Spero vivamente che di questo personaggio possa iniziare una mini serie proprio all’interno della collana, come letto plurime volte sul web. In certi aspetti mi ha ricordato il buon vecchio Dylan, con tocco di romano però.
Ora incomincia il podio, terzo classificato si posiziona La Pattuglia il numero 7 della collana, di Fabrizio Accantino (testi) e Gianpiero Casertano (disegni). Vietnam, follia, avventura, guerra e giungla. 5 elementi che hanno fatto di questo episodio uno dei miei favoriti. Spero di rivedere presto su questa collana un episodio ambientato nel Sud Est Asiatico.
Al secondo posto si classifica il numero 11 della collana, Il Lungo Inverno, di Giovanni Di Gregorio (testi) e Francesco Ripoli (disegni). La versione fumetto di Shutter Island mi ha intrigato dalla prima all’ultima pagina, non lasciandomi neanche il tempo di accorgermi quante pagine stavo leggendo. L’ho apprezzato tantissimo, soprattutto per i disegni. Un numero difficilmente replicabile.
Al primo posto invece si colloca La Redenzione Del Samurai, disegni di Andrea Accardi e testi di Roberto Recchioni. Un capolavoro a parere mio. Bellisimo, commovente e dal lieto fine, cosa importante e che spesso manca in questa serie. Decisamente il migliore titolo della collana, che comunque vanta episodi di davvero alto livello, non ultimo ad esempio La Battaglia Di Marengo, che ho apprezzato molto ma che non ho messo nel podio perché l’ho letto poco fa e non sono ancora riuscito a carburarlo bene.
In generale comunque Le Storie è una serie si fatta da grandi autori e disegnatori, per cui rivolta ad un pubblico fumettisticamente colto, ma allo stesso tempo capace di esprimere un fumetto coinvolgente e interessante sia per le ambientazioni, mai banali e molto ricercate, sia per le vicende, davvero originali, che rendono questa serie ottimale anche per chi il fumetto lo apprezza e basta la sera prima di andare a dormire. Come me.

Sebastiano Totta

La Biblioteca di Babele: Le morti concentriche

L’Universo – che altri chiamano la Biblioteca – si compone di un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali.

E’ l’incipit del famoso racconto di Jorge Luis Borges La Biblioteca di Babele, dove si immagina un universo allucinatorio come una Biblioteca “illimitata e periodica” il cui segreto è nascosto dentro libri indecifrabili.

Tu, che mi leggi, sei sicuro d’intendere la mia lingua?

Lo scrittore argentino in questo breve scritto esprime la sua ossessione per le parole e la sua passione per la lettura: il lettore, l’uomo di Babele, è protagonista e viaggia tutta la vita in cerca di un libro in mezzo al nonsenso. La sua unica speranza è che qualcuno un giorno riesca a leggere il libro sull’Ordine del Tutto. Umberto Eco lo definisce “archivista delirante”, un ossimoro, per indicare il suo sperimentalismo e creatività, evidente anche in un’altra sua raccolta: L’Aleph.
(altro…)

String art – l’Arte dei fili

Luca Ponticello è un artigiano novarese. Ma è anche un’artista, un creativo che ha fatto della propria creatività una professione.

Lo conosco da tempo e so che fin da bambino è sempre stato molto curioso, con una spiccata propensione a smontare e rimontare tutto ciò che si trovava davanti. In effetti, non ha mai smesso di farlo. A posteriori si può dire che quest’abitudine potenzialmente irritante gli abbia permesso di vedere il mondo sotto la lente di un istinto creativo particolarmente vivo. Dalla copia di fumetti – una delle sue più grandi passioni – alla manipolazione artistica della materia, a Novara tutti conoscono l’entusiasmo con cui  ha approfondito il suo rapporto con il disegno, indagando le molte pieghe delle arti grafiche.
Tra queste esperienze una delle più importanti per la sua formazione artistica è la progettazione 3D, tramite la quale acquista una capacità plastica che gli tornerà molto utile in futuro.
Nascono così, un po’ per hobby un po’ per scherzo, i primi “quadretti” secondo i dettami della String Art, di cui ora è un’esponente di spicco. L’ho incontrato in un noto pub di Novara e gli ho posto una sola domanda.

Che cosa è dunque la String Art?

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La String Art è un’arte da urlo!

Ecco cosa mi ha risposto:

String Art, o arte con chiodi e fili, è caratterizzata da una disposizione di fili colorati tesi tra punti a formare motivi geometrici astratti o disegni rappresentativi a volte con altri materiali per completare il resto del lavoro. Il filo è avvolto intorno a una griglia di chiodi piantati su una tavola di legno pitturata o coperta di tessuto. Sebbene il filo formi linee diritte, le angolazioni e posizioni leggermente diverse nella nelle quali i fili intersecano può dare l’apparenza di curve (denominate Curve di Bézier). La String Art ha le sue origini nelle attività di Curve Stitch inventate da Mary Everest Boole alla fine del sec. XIX per creare idee matematiche più accessibile ai bambini.

Questa forma d’arte si è diffusa come un mestiere decorativo alla fine del 1960 attraverso kit e libri sulla String Art, soprattutto nella fase hippie psichedelica Nordamericana.
Versatilità, apertura mentale, adattamento a qualunque richiesta sono parole d’ordine nel mio lavoro: nel corso di questi due anni ho ampliato le tecniche base di quest’arte adattandomi alle richieste più disparate e riuscendo ad accontentare i committenti sempre più numerosi ed esigenti, per i quali realizzo anche loghi commerciali.

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Questo ad esempio è il logo dell’Old Tower Pub dove ci troviamo ora

“Sta parlando l’arte al posto mio “ lo sento dire al capannello di amici riuniti intorno al suo lavoro esposto dietro il bancone. Questa spacconeria gli costerà un giro di birre, ne sono sicura.

Eliana Cianci

Che cosa sta succedendo a Milano?

È difficile dire se la classica frase del classico turista: “C’è proprio poco da vedere a Milano, contribuisca di più a mettere in ridicolo chi la pronuncia o a rendere onore alla gloria dell’Italia. […] Milano può sembrare poco interessante in confronto ad altre città italiane solo un’osservazione affrettata.

Parola di Edith Wharton, scrittrice americana che nel 1905 visita Milano realizzando all’ombra della Madonnina che un viaggio alla scoperta di una città che non passa solo attraverso la visita dei tanti monumenti “ma è piuttosto negli intervalli tra questo sistematico studio del passato, nella parentesi del viaggio, che il viaggiatore cattura quegli sguardi più profondi che lo aiutano a comporre l’immagine di ogni città e a preservarne la personalità nella sua mente.

Quel che è certo è che il fascino discreto di questa città non è sfuggito solo ai viaggiatori che l’hanno visitata nel tempo. E’ un dato di fatto che sia sfuggito, e continui a sfuggire, a molti di coloro che la abitano. Le viuzze medievali, i trivi che sembrano intersecarsi con il precipuo scopo di smarrire ogni viandante, le chiese e i cortili dei palazzi signorili del centro, le coorti dei navigli, i giardini pensili incassati nei quartieri nuovi; tutto ciò Milano non lo concede facilmente.
Ammirare il Duomo, simbolo per eccellenza di Milano, può colpire l’occhio.
Mark Twain arrivò a dirne: “E’ la prima cosa che cerchi quando ti alzi al mattino e l’ultima su cui lo sguardo si posa la sera. E ancora dicono che il duomo di Milano venga solo dopo San Pietro a Roma. Non riesco a capire come possa essere secondo a qualsiasi altra opera eseguita dalla mano dell’uomo”.
Percy Bysshe Shelley la descrisse romanticamente come “fatta di marmo bianco tagliata a pinnacoli di immensa altezza lavorati con la massima delicatezza e carica di sculture. Il suo effetto, quando si staglia con le sue guglia abbaglianti sulla serena profondità del cielo italiano o alla luce lunare, quando le stelle sembrano raccogliersi tra quelle sagome è superiore a qualsiasi altra opera che io credevo possibile produrre in architettura”.

Eppure è ben più interessante osservare il lavorio, sommesso e quasi segreto, che si svolge quotidianamente sotto l’ombra della Madonnina scandito dalla canzone che Giovanni D’Anzi compose nel 1934. In pieno boom economico lo spirito d’iniziativa meneghino, così profondamente italiano eppure quasi rivolto al protestantesimo dei “pitocchi” olandesi, innalzava un’altra opera avveniristica: la Torre Velasca, che ancora oggi infiamma gli animi di esteti del calibro di Philippe Daverio e Vittorio Sgarbi – per il primo si tratta di un assoluto capolavoro, il secondo la giudica “il paradigma della civiltà dell’orrore”. Come la Torre, anche Milano può piacere o non piacere, ma come ci ricorda il giornalista Beppe Severgnini “non bisogna credere che il capoluogo lombardo voglia gareggiare con altre città d’Italia in bellezze rinascimentali. Invece è orgoglioso dei suoi angoli strambi, dei suoi portoni, dei suoi cortili irregolari, dei suoi palazzi dove qualche incosciente vorrebbe sostituire il portiere con un citofono.”

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In ogni caso è certo che sotto questa skyline così composita di storia e innovazione, di Duomo e Pirellone e Isozaki e Branca e Cesar Pelli e Bosco verticale,  qualcosa sta succedendo. Al di là dell’Expo e dei suoi ritardi, delle classifiche che lasciano il tempo che trovano, del turismo in crisi, proprio ieri sono arrivate due notizie che giudicherei piuttosto importanti per Milano e per i milanesi.

La prima riguarda la vivibilità della città, che tradotto significa mobilità cittadina. ATM, dunque, e sono quasi spaventato nel dirlo dal momento che questa sigla evoca in tutti noi spaventosi echi di ritardi, scioperi e affannose corse contro il tempo per raggiungere la pensilina prima dell’irrevocabile sentenza: le porte dell’autobus si sono chiuse e tocca aspettare il prossimo.
Ebbene, il quotidiano principe di ogni linea metropolitana (compresa la M4 in prossima apertura) ci annuncia con orgoglio che da oggi il biglietto dei mezzi pubblici di Milano – checché se ne dica, tra i meno cari d’Europa – si potrà acquistare anche tramite sms. Evento rivoluzionario, almeno a sentire i commenti entusiasti degli utenti. Però di rivoluzione se n’era già parlato quando Pisapia aveva innalzato di mezzo euro il costo di ogni corsa: allora tutti hanno scelto di continuare a viaggiare senza, chissà ora se la rivoluzione è più vicina.

Ma passiamo ad altro: la seconda notizia di ieri, di ben diversa portata, riguarda proprio il sindaco arancione. Nel 2016 Pisapia non si ricandiderà.
Annuncio inatteso e composto, fatto con grande stile e questo bisogna riconoscerlo. Jeans e maglione color tortora, voce come al solito pacata, nulla a che spartire con i modi ed i tailleur del precedente sindaco . Questa novità rischia però di avere gravi conseguenze negli equilibri di potere locali: c’è chi si è già candidato, con un anno di anticipo e l’assurda pretesa di andare subito al voto. Ma parliamo di Salvini, quindi nessuna sorpresa.
Ciò che invece è sorprendente è la lucidità del discorso di Pisapia – che non ha detto addio alla politica, sia chiaro, ma ha coerentemente esposto una dichiarazioni di intenti. Pensate un po’, sono gli stessi intenti della campagna elettorale del 2011!
Accorgermi che questo fatto sconvolgente nel panorama politico italiano è in realtà alla base della democrazia mi ha fatto girare la testa.
“Ho sempre detto che avrei fatto un solo mandato – ha detto Pisapia – anche perché volevo che a Milano crescesse una classe dirigente di sinistra capace di governare la città” e la comunicazione ufficiale è venuta oggi “proprio per dare il tempo perché ci si ricompatti”. Un candidato che espone ai cittadini un progetto ideologico e politico ed eletto lo realizza con azioni e parole è praticamente una chimera.
O meglio una scrofa semilanuta, l’animale mitico da cui proviene il nome latino di Milano, Mediolanum.
Ed è bello che proprio dalla moderna Mediolanum venga lanciato all’Urbe ed ai suoi palazzi questo importante monito: “La politica è un servizio e deve essere un modo per mettersi a disposizione”.
Dunque, concittadini, preparatevi alle elezioni del 2016: questa preziosa eredità non può certo andare perduta!

Giulio Bellotto

L’eclissi, Milano e l’eternità del cosmo

Dov’era la luna che il cielo notava in un alba di perla?
Ieri, che per chi non lo sapesse era anche il primo giorno di primavera (l’equinozio è ormai dal 2007 che cade il 20 e non il 21 come da calendario), dalle 9:30 alle 11:30 la risposta a questa domanda era fin troppo facile, notando in cielo la luna davanti al sole. Dopo la stressante e impegnativa corsa agli occhialini da saldatore protezione 14 della scorsa settimana, ecco che finalmente, anche senza occhialini, è passato il tanto atteso momento. Tutta Europa, mossa da una curiosità mai riscontrata in passato, si è riunita sotto l’ombrello della passione per l’astronomia, forse considerando che la prossima eclissi visibile sarà nel 2027. Se può consolare, per chi ha realmente voglia di sbattersi per l’interesse, in Indonesia lo spettacolo dell’eclissi si ripeterà l’anno prossimo.

Per quanto mi riguarda, dopo aver chiamato una quarantina di ferramenta per trovare (o, dovrei forse dire, non trovare) i suddetti occhiali, mi sono ridotto a comprare due vetri protezione 11, con cui, unendoli a del cartone, ho costruito una maschera da integrare agli occhiali da sole. Non soddisfatto mi sono recato ben presto all’osservatorio di Brera, dove (tenevo a rendere pubblica una tale gentilezza) il circolo degli astrofili di Milano offriva gratuitamente tre telescopi, un binocolo e qualche occhialino con filtri in Mylar, oltre che una piccola conferenza prima dell’eclissi. Non potevo vedere l’eclissi in modo migliore (oltre a questa ho potuto osservare le macchie solari e le protuberanze ad arco). Finito il mio turno di mezz’ora sono passato in veste altezzosa davanti ad una fila di oltre 500 individui che invece non avevano pensato di arrivare presto e, che non accorgendosi delle 2 ore di attesa che avevano davanti, avrebbero perso vanamente lo spettacolo. Ho infine avuto modo di vederne la conclusione a casa con il primitivo strumento che avevo costruito.

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Tutte le diverse fasi dell’eclissi

Ma, considerando le oltre mille persone che hanno sfidato il gelo del mar glaciale artico per vedere l’eclissi totale, gli infiniti articoli a riguardo, le varie mobilitazioni di osservatori, gli eventi organizzati per l’occasione e tutta la passione e la preparazione avvenuta per questo evento, viene da chiedersi perché tanto interesse. Il motivo esplicito è certamente quello che non ci viene concesso di vedere poi tante eclissi nella nostra vita, ma se è per questo obbietto che la rarità non è di per sé rara: esistono fin troppe cose di cui ci è dato fare esperienza un numero esiguo di volte nella vita. Credo piuttosto che ci sia una ragione inconscia che spinga spesso chi non ha un interesse particolare per una materia accademica come l’astronomia ad interessarsi ad essa. Questa è senz’altro la spinta ad una riflessione che in molti solitamente manca, ma che in tal sede si è costretti a fare. La stragrande maggioranza della popolazione scorre nel fiume del divenire senza più di tanto occuparsi di studio e di cultura. Molti vivono o, come preciserebbe qualche intellettuale- che Gramsci definirebbe rinchiuso in una torre d’avorio- vivacchiano di eventi contingenti e totalmente privi di un ottica che trascenda la banale realtà quotidiana. Argomenti di scienza teorica, filosofia, arte o cultura in generale non cubano quasi niente rispetto a tutte le distrazioni di internet, in primis i social network, all’economia, al lavoro, alla socializzazione… In tutto questo cuba anche poco il solito e ripetitivo tema di cui Leopardi fa una perfetta descrizione nella Ginestra quando dice:

E su la mesta landa,
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch’a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo, ove l’uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor piú senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o cosí paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiú, di cui fa segno
il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto; e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente; e che, i derisi
sogni rinnovellando ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietá prevale.

Questo tema però mi pare di fondamentale importanza ed è la paura di esso che ce ne fa dimenticare. Ecco che di tanto in tanto un eclissi ci ricorda che le nostre piccole e insulse vite sono inscritte in qualcosa di immenso e dal respiro eterno come il cosmo. Mentre noi vivacchiamo in un lampo quell’attimo di tempo concessoci, ruotano lentamente le sfere di cristallo di un universo incosciente della nostra esistenza. Il sole le stelle e la luna sono elementi che vediamo di continuo, perciò catacresizzati rispetto a quest’ottica: solo un’eclissi ci suscita involontariamente questi pensieri. È Milano, o qualsivoglia luogo o città, il teatro di tutto ciò, il luogo dove può essere visto questo invito all’eterno, proprio il luogo dove consumiamo le nostre vite borghesi tanto criticate dal decadentismo. Basta alzare lo sguardo per vedere che l’universo si sta muovendo sopra di noi, e ciò non accade spesso. A me dà una sensazione stile Melancholia di Lars von Trier, senza però il lato distruttivo.

Se per caso qualcuno si chiede dove sia la spiegazione scientifica posso solo rispondere che, a differenza di altri fenomeni astronomici e astrofisici, l’eclissi solare è un fenomeno noto fin dalla notte dei tempi, e dicendo che la luna, in fase di novilunio, si frappone tra il sole e la terra, oscurando il primo, e proietta una zona di ombra (piccola dove si verifica l’eclissi totale) e una di penombra (estesa dove si verifica l’eclissi parziale), si è detto praticamente tutto. Le prossime eclissi in Italia saranno nel 2027 e nel 2081 dunque perderle, a meno che non si voglia girare il mondo per vederle, non è una scelta saggia. Quella del 2027 sarà totale.

Nicolò Cavalleri