L’esordio di Adriano Valerio con Banat (Il Viaggio)

Adriano Valerio è una delle nuove facce del cinema italiano, un cinema che narra di una gioventù spaesata, di una gioventù che deve far fronte all’età adulta. Indirettamente diviene promotore di una generazione alla ricerca di una propria strada oltre i confini della propria patria. È romanziere della “fuga di cervelli”, di una generazione che per trovar fortuna emigra per costruire un progetto a lungo termine. Il suo cinema segue queste orme tematiche già dal suo cortometraggio 37°4 S (vincitore di numerosi premi tra cui un Certain Regard a Cannes); ed ora si presenta al grande pubblico con Banat, in competizione l’anno scorso alla Settimana della Critica a Venezia, ed ora in concorso come Miglior Regista Esordiente ai David di Donatello.

Valerio porta sullo schermo la storia di Ivo (Edoardo Gabbriellini), agronomo residente a Bari, che disoccupato, si deve trasferire nel Banat, regione agricola della Romania, dove gli viene offerto un lavoro. La sera prima della sua partenza incontra Clara (Elena Radonicich), futura inquilina del suo appartamento, con la quale trascorre una notte di intime discussioni sui loro reciproci futuri. Per la spontaneità di queste conversazioni sorge in entrambi il desiderio di rincontrarsi; così Clara, perso il lavoro, lasciato il suo storico fidanzato e incinta, raggiungerà Ivo in Romania. Lì nascerà un’intensa relazione sentimentale.

Nella scelta registica, la trama non vuole essere la protagonista principale ma lo sfondo di un approfondimento tematico. Si focalizza sullo spaesamento di una generazione che vive tra il precariato e l’incertezza. “L’estero” appare come una Medina professionale, rigogliosa di opportunità rosee se filtrate dalla lontananza, ma che nascondono una prosaica realtà. Questa visione viene però condivisa da entrambe le parti: come per i rumeni del Banat l’Italia è “il sogno americano”, così per Ivo lo è questa meta desolata. Ed il disincanto si risolve nel protagonista il quale, nonostante le condizioni avverse, riesce ad adattarsi all’ambiente, comprendendo la realtà circostante e trovando riscatto nella sua vita lavorativa.

Nell’intreccio il deus ex machina, che scioglie gli impasse narrativi, è Clara; lei che spinge Ivo alla partenza (“Parto? No, non parto” “Parti.”), lei che piomba improvvisamente nel suo cappotto rosso nello spoglio panorama rumeno, e ancora lei che gli pone domande sulla sua condizione. Tutto ciò lo fa portando leggerezza, come nella scena (da cult) di lei che canta “Se t’amo t’amo” di Rosanna Fratello, con un certo senso di maternità, accompagnato da una dolce e un po’ irresponsabile verve.

La narrazione è ellittica e lascia allo spettatore l’abilità di cogliere tra i frame gli avvenimenti. Valerio compie nel suo cinema un labor limae verbale dove i dialoghi vengono sostituiti da azioni, che mantengono un minimalismo necessario per poter far risaltare i sentimenti. E la camera resta sempre qualche secondo in più sui primi piani dei personaggi, ora per poter cogliere un cenno in più, ora per analizzare il loro stato di disorientamento.

Allo stesso tempo però la malinconia viene spezzata da una sottile ironia, in particolare, dei due “mentori” di Ivo e Clara. Per lei c’è la Signora Nitti, interpretata da Piera Degli Espositi, proprietaria della casa di Bari dove vive Clara, che con fare grezzo riporta le sue esperienze di vita, ponendo dei quesiti alla giovane madre, impersonando a sua volta una figura materna. Così per Ivo, nel Banat, c’è Stefan Velniciuc nei panni di Ion, che elegantemente ricopre una figura paterna. La recitazione mette in risalto i conflitti interiori di ogni personaggio anche se da un Gabbriellini protagonista ci si sarebbe aspettati una recitazione più approfondita.

In questa cornice la fotografia racchiude perfettamente il messaggio del film. La varietà della trama viene ben incarnata da una misto tra camera fissa e camera a mano. La composizione geometrica della fotografia, soprattutto con le riprese aeree, si fa veicolo della solitudine e della desolazione nella quale vivono i personaggi. Di grande umanità sono i ritratti dei (veri) contadini del Banat, che vanno oltre al semplice mezzo del cinema, lasciando sbirciare dentro i lineamenti di volti che realmente vivono questa terra. Ma l’aspetto tecnico più peculiare di Banat è la scelta del fuori fuoco, il quale è rappresentativo dello stato esistenziale di una generazione che vive nell’incertezza.

Adriano Valerio racconta la sua prima storia cinematografica con sincerità e purezza poiché lui stesso vive nella condizione di emigrato (come insegnante di regia e analisi di film all’Eicar International Film School of Paris). E come nuova faccia della cinema italiano parla dei giorni nostri con uno sguardo che parte dalla narrazione per arrivare a toccare l’elemento essenziale della vita: le emozioni.

Giovanni Busnach

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