teatro

La connaturale tristezza dell’amore

Ogni qualvolta leggo un libro ambientato a Milano nella mia mente la curiosità per il contesto cresce infinitamente. La mia immaginazione non mi basta più e ogni dettaglio che estrapolo dalle pagine del romanzo serve per disegnare la mappa della città. Cerco su internet le strade e i parchi descritti e sono piena di soddisfazione quando non ne ho bisogno perché “io quel posto lo conosco!”. Il Fabbricone (1961), il primo vero romanzo di Giovanni Testori, è profondamente legato al contesto cittadino milanese tanto che sembra di guardare quelle vecchie foto di Milano ingiallite, quando era tutta campagna. Il romanzo, non a caso, insieme ai racconti Il Dio di Roserio (1954), Il Ponte della Ghisolfa (1958) e La Gilda del Mac Mahon (1959) e ai testi teatrali La Maria Brasca (1960) e L’Arialda (1962), conclude il ciclo de I Segreti di Milano.

Il Fabbricone era una delle prime case popolari della periferia nord-ovest Milanese degli anni ‘50, che dopo la guerra era sprofondata in uno stato di sempre maggior degrado tanto da essere definita dai preti della zona come “refugium peccatorum”; così come le tubature della casa anche i suoi abitanti sono andati sempre più a consumarsi e ad essere dimenticati. (altro…)

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Qualche considerazione e due recensioni: Twin Cities e Der Augenblick Dort

Il buon teatro ha una ragione per tutto.
Ogni movimento, suono, parola, cambio luci, ogni elemento scenografico e ogni più piccola scelta registica concorre ad un disegno più ampio in cui ciascun tratto contribuisce ai contorni dell’opera, un fenomeno complesso che dalla platea si può percepire solo nella sua interezza. (altro…)

Oltre il sentimento: Apollo, Odeon, Stato e Mercato.

Nel corso di questa settimana sono stati annunciati due accordi che tolgono a Milano due tra i più importanti e storici cinema: Lo Spazio Cinema Apollo e il The Space Odeon. Dispiace perdere in un colpo solo due magnifici luoghi di ritrovo di tanti milanesi. L’Odeon è per molti giovani milanesi un luogo dove passare i pomeriggi dopo scuola, o dove vedere le prime dei grandi film. L’Apollo invece, più piccolo per dimensioni, ma non per questo meno importante, ha riaperto nel 2005 dopo i lavori di ristrutturazione. (altro…)

Il difficile confronto coi classici: Le Nuvole di Teatro Due

Ci può essere un giorno con due lune, una vecchia e una nuova?

STREPSIADE: Non può essere?

FIDIPPIDE: E come? A meno che la stessa donna non possa essere a un tempo vecchia e giovane!

Non può in effetti, tranne che a teatro. Nello stesso edificio dove va in scena Teatro Due, Cristina Crippa invecchiava di quarant’anni nel giro di un’ora e mezza, la durata dello storico spettacolo dell’Elfo Lola che dilati la camicia. Non c’è nulla che a teatro non si possa.

Ci sono però espedienti che non funzionano; la compagnia parmense ce li presenta nello spettacolo le Nuvole, manchevole sotto molti aspetti. Si tratta di un classico del teatro antico, di una commedia per giunta. La risata è più difficile del pianto e mettere in scena Aristofane è un bell’impegno da assumersi con gli spettatori, che da tanto ardire sarebbero legittimati ad aspettarsi una riflessione seria sull’attuale crisi della cultura. L’aspettativa è di approdare tramite il divertimento ad interrogativi profondi perchè, come osservava Brecht, “per il pensiero non c’è lancio migliore del riso. E, in particolare, le vibrazioni del diaframma sogliono offrire al pensiero occasioni migliori di quelle dell’anima“. Ma il diaframma oggi riposa e il pensiero è rimandato. Come può essere altrimenti di fronte al repertorio di espedienti scolastici, talvolta banali, che l’ensemble di Teatro Due dispensa a piene mani – sette attori coinvolti, quattordici mani per queste Nuvole cariche di occasioni mancate.lenuvole_phmichelelamanna_9

Non che Teatro Due difetti di entusiasmo o di motivazione: Gigi Dall’Aglio dichiara gli intenti della compagnia.

“Le Nuvole parlano di un tema che ci è molto caro e che è molto vivo nella nostra contemporaneità: il senso e l’importanza del dibattito culturale all’interno di una società in crisi”. Sul foglio di sala campeggia la domanda “Con la cultura si mangia?” E’ sacrosanto che il teatro interroghi la società, assumendo il ruolo del tafano che già fu di Socrate. “La scena è lo specchio della platea; gli attori sono lo specchio del pubblico […] e ancora una volta la città è interpellata, invitata a riflettere su cosa sia questa strana cosa chiamata pensiero, chiamata desiderio”.

I motivi per cui è difficile cogliere questo “desiderio” sono tanti e attengono prevalentemente alla sfera tecnica; sarebbe malafede non riconoscere perlomeno la validità delle scelte drammaturgiche. Il tentativo di riattualizzazione del testo classico è accademico ma efficace, sebbene alcuni scherni riguardino più la storia contemporanea che la cronaca – il caso Scajola è del 2011 e ha generato schiere di umorismi, non negli ultimi due anni però. Nessun onomastí komodéin e questo è un grande sollievo: non siamo di fronte all’ennesima ripresa filologicamente inappuntabile e mortalmente noiosa fino all’ultima didascalia.

Di contro, a essere didascalica è la messa in scena. L’artificio sfacciatamente metateatrale d’interpretare una compagnia on the road di comici impegnati nella messa in scena di Aristofane non è né convincente né particolarmente innovativo. Emergere da una vecchia berlina come i pagliacci della famosa gag, vestiti all’euzone e col pallio in bella mostra, per poi scodellare una forzata battuta sulle “auto blu” non ha senso; se sulla locandina questa bizzarra immagine incuriosisce, dal vivo delude. E dopo aver invaso il palco con malagrazia, ecco che dalla macchina si propaga a macchia d’olio un’accozzaglia di scenografie e oggetti non necessari e fastidiosi: un triangolo di segnalazione, trombe, ottoni, pizzi e trine. L’unico modo per rappresentare le nuvole sembra infatti essere renderle il più vaporose possibile e per sicurezza aggiungere velette e brillantini a più non posso sulle interpreti, che nonostante tutto questo apparato da Principesse Disney non riescono a dare gran prova di sé né come divinità né come attrici. Ma forse sono i cori, trasformati per l’occasione in canzonette da cabaret, che le mettono in difficoltà.

L’obbiettivo non è il kitsch, un linguaggio teatrale ben definito e con una sua dignità che viene in parte raggiunta sul finale della pièce; l’intento della messa in scena è piuttosto l’abolizione di ogni astrazione e concettualismo. Il povero Dall’Aglio viene issato come una banderuola nella cesta che Aristofane riserva a Socrate, le Nuvole fanno piovere acqua vera; luci e mechanè si sprecano. L’ensemble sembra dimenticare che una pedante mimesi del reale non premia la finzione teatrale. Ma la cosa peggiore è il ritmo. In particolare, la sua assenza nella prima parte dello spettacolo. E’ inspiegabile visto che nel prosieguo delle vicende il padre Strepsiade e il figlio Fidippide trovano l’intesa che manca per oltre un’ora. Quello che emerge è la difficoltà degli degli attori nel reggere il peso di una partitura complessa e corale tipica del filone classico.

L’arte ha il dovere di interrogarsi sulla contemporaneità politica e sociale. Rivolgersi alle grandi opere del passato può essere un modo per assolvere questo difficile compito ma in nessun caso si può prescindere dalla componente formale ed estetica. Una rappresentazione non si giudica dai suoi presupposti ma dagli esiti, che in questo caso sono confusi e inconcludenti. D’altronde ogni istanza intellettuale si svapora senza il giusto apparato registico e al contrario si irrobustisce se viene ben diretta.

Queste Nuvole ne sono un esempio: dall’inconsistenza della messa in scena emergono alcuni momenti davvero apprezzabili, dalla disputa tra i discorsi Giusto e Ingiusto all’incendio del Pensatoio/automobile, che pur risultando barocca nell’utilizzo di effetti speciali e fumogeni dà finalmente un senso alle scelte scenografiche. E curioso che queste due azzeccate scene rappresentino la più sostanziale differenza tra la prima e la seconda stesura del testo della commedia, lasciata incompleta; le parti più compiute dello spettacolo di Teatro Due sono proprio quelle che Aristofane aggiunse per ultime e su cui lavorò meno. Involontari paradossi a parte, un’ultima raffinatezza fa calare il sipario: Socrate si trascina fuori dalla carcassa fumante della berlina blu per bere la cicuta e citando l’Apologia monda la sua filosofia dall’accusa di sofismo.

Bene, ma troppo tardi.

Giulio Bellotto

La Giornata internazionale del Teatro arriva anche in Italia

In una società che ha molte questioni complesse come la nostra, utilizzare gli spazi pubblici e comuni della città, non può vere come unico scopo l’intrattenimento del  pubblico. Vi è un imperativo morale per affrontare le questioni urgenti del nostro tempo, e di chiedere agli artisti di dedicarsi a questo.

Con queste parole Brett Bailey dichiarava, presentando il festival “Infecting the City Festival” di Città del Capo, l’intento spiccatamente sociale che il suo teatro aveva già nel 2008.

Oggi, 27 marzo 2015, si celebra la  Giornata Mondiale del Teatro, istituita a Vienna nel 1961 durante il IX Congresso mondiale dell’Istituto Internazionale del Teatro. La proposta veniva da Arvi Kivimaa del Centro Finlandese ma quest’edizione 2015 verrà patronato proprio dal sudafricano Bailey. Infatti si tratta di un’iniziativa internazionale che dal 27 marzo 1962 è celebrata dai Centri Nazionali dell’I.T.I. che esistono in un centinaio di paesi del mondo.

Ogni anno una personalità del mondo del teatro, ma non solo, è invitata a condividere le sue riflessioni nel “messaggio internazionale”. Jean Cocteau fu l’autore del primo messaggio internazionale nel 1962; per la Giornata Mondiale del Teatro 2014 – lo scorso 27 marzo – il messaggio è stato affidato a Brett Bailey, drammaturgo, designer, regista, curatore di festival e direttore artistico della compagnia Third World Bun Fight, riconfermato anche quest’anno nel compito.

Questo è il suo secondo messaggio internazionale:

Ovunque ci sia una società umana, lo spirito irrefrenabile del teatro si manifesta.

Sotto gli alberi nei piccoli villaggi, sui palchi tecnologicamente avanzati nelle  metropoli internazionali; nelle palestre scolastiche e nei campi e nei templi; nelle baraccopoli, nelle piazze, nei centri di quartiere e negli scantinati del centro città, le persone sono portate a condividere gli effimeri mondi del teatro che noi creiamo per esprimere la nostra complessità umana, la nostra diversità e la nostra vulnerabilità, con il corpo, il respiro e la voce .

Ci riuniamo per piangere e per ricordare, per ridere e per contemplare;  per imparare e affermare ed immaginare. Per meravigliarsi della destrezza tecnica, e per incarnare gli dèi . Per afferrare il nostro respiro collettivo e la nostra abilità nel produrre la bellezza e la compassione e la mostruosità. Veniamo per caricarci di energia ed essere più forti. Per celebrare la ricchezza delle nostre diverse culture  e per far dissolvere i confini che ci dividono.

Ovunque ci sia la società umana, lo Spirito irrefrenabile del teatro si manifesta. 

Nato dalla gente, indossa le maschere e i costumi delle nostre diverse tradizioni. Sfruttando le nostre lingue, i ritmi ed i gesti, il teatro libera uno spazio in mezzo a noi .

E noi, gli artisti che lavorano con questo antico spirito, ci sentiamo obbligati a canalizzarlo attraverso i nostri cuori, le nostre idee e i nostri corpi,  per rivelare le nostre realtà in tutta la loro mondanità e scintillante  mistero.

Ma, in questa epoca in cui tanti milioni di persone stanno lottando per sopravvivere, stanno soffrendo sotto regimi oppressivi ed un capitalismo predatorio, sono in fuga dai conflitti e dal disagio; un epoca in cui il nostro diritto alla riservatezza è invaso dai servizi segreti e le nostre parole sono censurate da governi invadenti, in cui le foreste vengono distrutte, le specie animali sterminate e gli oceani avvelenati: cosa ci sentiamo in dovere di rivelare?

In questo mondo dove il potere è distribuito in modo diseguale , in cui vari ordini egemonici cercano di convincerci che una nazione , una razza , un genere, un orientamento sessuale , una religione, una ideologia , una cornice culturale è superiore a tutte le altre, è davvero difendibile insistere sul fatto che le arti devono essere staccate dai programmi sociali?

Noi, gli artisti delle arene e dei palcoscenici, ci stiamo conformando alle sterilizzanti richieste del mercato  o stiamo prendendo il potere che abbiamo per aprire uno spazio nei cuori e nelle menti della società , per riunire le persone attorno a noi, per ispirare , incantare, informare, e  creare un mondo di speranza e di sincera collaborazione?

E in Italia? Quest’anno per la prima volta la Giornata mondiale del Teatro si festeggerà anche da noi con iniziative e spettacoli per tutto il Belpaese – i comuni più virutosi, come quello di Genova, propongono appuntamenti davvero interessanti, una sorta di mini-stagioni pensate per l’occasione.

Grazie al sostegno dell’Eti e di Agis, oggi molto palcoscenici saranno aperti, i biglietti gratuiti e scontatissimi e sono previste visite guidate, incontri con gli attori, il tutto per accendere i riflettori sul Teatro e porlo al centro dell’interesse della vita pubblica come sostiene Gianni Letta, Presidente del Comitato Scientifico Organizzatore. 

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D’altronde era assurdo che fin ora il Paese dove Eduardo De Filippo pronunciò la bella frase “Il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita”, ignorasse questo spunto di riflessione su una forma di espressione artistica fondamentale come il Teatro, sopratutto in un’epoca di spending review che non ha sminuito la voglia di cultura, spesso con il solo sostegno dello spettatore. 

Dunque a tutti voi, spettatori e attori, buona Giornata Mondiale!

Giulio Bellotto

La parabola dell’equilibrista: Lehman Trilogy

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Recentemente ho avuto la fortuna e il piacere di vedere lo spettacolo in scena nelle scorse settimane al Piccolo Teatro Grassi, Lehman Trilogy, regia di Luca Ronconi, basato su un testo di Stefano Massini. Non essendo né un appassionato del genere né un assiduo frequentatore degli spazi teatrali milanesi, vi racconterò di quello che ho visto dall’alto della mia ignoranza teatrale. Fortunatamente per me lo spettacolo in questione narra vicende vagamente familiari. Sono, infatti, uno studente di Economia e della Lehman Brothers Holding Inc. ne ho sentito parlare fin troppo, eppure mai mi sono approcciato all’argomento tramite il teatro.

L’intero spettacolo racconta la storia imprenditoriale della famiglia Lehman, dall’arrivo in America nella seconda metà dell’ottocento fino al clamoroso fallimento del Settembre del 2008. Se da una parte però la storia del fallimento che ha scaturito la recente crisi economica è cosa nota (quasi) a tutti, dall’altra non è per nulla conosciuta la storia imprenditoriale che ha portato la Lehman Brothers ad essere quello che è diventata. Almeno non lo era per me. Che dire, lo spettacolo mi è piaciuto assai, sia perché ho trovato la tematica molto interessante e avvincente sia perché il modo, sicuramente originale, in cui è stato messo in scena se non straordinario è quanto meno fascinoso.
Partiamo dalla sinossi: – Lo spettacolo si divide in due parti. Nella prima parte si accentua il capitalismo americano della fine dell’ottocento, pieno di opportunità e di possibilità. L’American Dream insomma. Nella seconda parte invece, che incomincia con la Prima Guerra Mondiale, si mette in luce e in critica due aspetti caratteristici del capitalismo dei nostri tempi: la finanziarizzazione e la perdita di valori etici e morali di quest’ultimo.
Nella prima parte dunque abbiamo il racconto delle gloriose se non addirittura nobili vicende imprenditoriali di tre fratelli, origine ebraica ovviamente. Si parte con la commercializzazione di vestiti e di utensili da lavoro, poi di cotone, e si arriva infine al servizio d’intermediazione creditizia, o più semplicemente l’attività bancaria, passando per ferrovie, tabacco e settore tessile. Inutile dire di come questa parte venga messa in scena positivamente: i tre fratelli sono tre cavalieri del lavoro, sempre dediti alla sana attività imprenditoriale e agiscono sempre, seppur spregiudicatamente, col fine del sano e meritato accumulo di capitale. Nella seconda parte invece i toni sono decisamente diversi, prima la crisi del 1929, dove la regola del tbtf (too big to fail) salva la Lehman, e poi la definitiva trasformazione in banca d’affari finanziaria sanciscono la fine di quel sano capitalismo dei tre fratelli fondatori (oramai morti ma sempre presenti con riguardo all’attività) e l’inizio dell’era della speculazione azionaria, un’attività, a detta di alcuni, tra cui l’autore dell’opera, non legata all’economia reale ma al mondo finanziario, malvagio e spietato. Di qui parte la solita, vista e stra sentita, critica alla finanza, troppo lontana dall’economia reale, d’altronde s’investono soldi astratti tirati fuori dal cappello magico, che non hanno nulla a che fare con il lavoro “reale”, e troppo vicina ad un mondo astratto, senza spazio nè tempo, dove si scambiano oggetti magici ignoti tipo i derivati, che non sono titoli cui prezzo replica quello di un sottostante del mondo reale appunto. No, è magia. Si arriva alla fine al 2008, dove il tbtf non funziona, perché questa volta il mercato non fa sconti. A chi va computato il clamoroso bang della Lehman? Alla seconda generazione dei migranti (greci e ungheresi, che in scena vengono raffigurati come veri e propri mostri), che vedono nelle sale trading i cavalli del successo e nella speculazione finanziaria il loro unico obiettivo, arrivisti. Emblematica è la penultima scena dello spettacolo dove il capo della divisione trading, un ungherese, forte dei successi ottenuti, scavalca il presidente della banca, non più un Lehman bensì un greco, e sancisce la definitiva trasformazione della banca, portandola infine al fallimento. Finisce tutto ovviamente in tragedia con il più grande fallimento che la storia economica americana abbia mai visto. Poi quel che è successo in seguito lo sapete.

Per quanto riguarda invece gli aspetti teatrali della vicenda: interessantissimo è il fatto che noi spettatori, fin dal primo momento dello spettacolo, sappiamo che quello che ci verrà raccontato è la storia di un fallimento, la storia di qualcosa che è andato male. Non si parte però, come nei Buddenbrock di Thomas Mann, con una scena di fasti e splendori di una famiglia, come ad indicarci che il massimo splendore è quello li e che da li inizia una lunga ed inesorabile discesa. Si parte con l’arrivo al pier 9 di NewYork City di un ragazzo, Henry Lehman, che racconta un po’ di sé e della nuova avventura che sta per intraprendere. L’intero spettacolo dunque è una parabola, se vogliamo. Si parte da zero. Si finisce a zero (a dire il vero si finisce con più di 600 miliardi indebiti, però dai son solo numeri).
Sono davvero rimasto coinvolto e attaccato allo svolgersi delle vicende per tutte le 5 ore dispettacolo. Il ritmo della narrazione non è lineare ma segue i più importanti eventi della storia imprenditoriale di questa famiglia. In certe parti dunque ci si focalizza molto dunque su aspetti della vita privata dei singoli personaggi e in altre invece si prosegue con la saga imprenditoriale. In certe parti il ritmo è vertiginoso e gli eventi si susseguono lasciando lo spettatore basito e sgomento: fantastica e quasi thriller è la scena rappresentante la mattina di quel 24 ottobre del 1929, il Giovedi Nero per intenderci, dove gli spari di pistola dei brokers suicidi di prima mattina s’intrecciano con i cavalli da corsa all’ippodromo. Sì, decisamente bella. Allo stesso tempo però ci sono parti in cui la narrazione rallenta lasciando lo spettatore libero di rifiatare e di carburare quanto appena visto. Vi sono poi durante tutto lo spettacolo “assoli” da parte dei 5 attori principali, i tre fratelli fondatori e i loro discendenti. Pensate ad un piano concerto di Mozart o di Beethoven. Cosi come nel piano concerto la voce principale, il pianoforte, conduce la sinfonia e l’orchestra accompagna sostenendo il piano dandogli modo di rifiatare; allo stesso modo durante lo spettacolo si susseguono scene in cui a turno, uno dei 5 attori principali, tiene banco in scena dando libero sfogo alle proprie bravure recitative però in scena non è solo, vi sono anche altri personaggi. Grazie a queste parti, lo spettatore riesce ad apprezzare la bravura del cast. Non so se sono io che sono un sempliciotto o la scena che era particolarmente ben architettata, ma ho trovato questi momenti avvincenti, sicuramente le parti più meritevoli dell’opera.

Interessante infine la concezione di mercato dell’autore. Davanti a Wall Street tutte le mattine un equilibrista (l’imprenditore) va avanti e indietro per una corda (il mercato)lunga e sottile, l’equilibrista deve stare attento però a rimanere sempre in equilibrio e a saper capire quando la corda sta per finire per poter invertire la direzione. Quando quell’equilibrista il Giovedi Nero cade, viene rimpiazzato dal figlio, di cui non si sa nulla se non un piccolo accenno, non penso però che sia rimasto in equilibrio il 15 Settembre 2008. Altro vi sarebbe da dire, ma non voglio tediarvi ulteriormente. Vi dico solo che lo spettacolo verrà ripreso, a Maggio, dato il grande successo. Affrettatevi a comprare i biglietti. Il mercato non aspetta e soprattutto non fa sconti.

Foto scattata il 22 febbraio prima dell’inizio dello spettacolo Lehman Trilogy durante il discorso commemorativo per il regista Luca Ronconi.

Sebastiano Totta

– Un ringraziamento speciale alla cara amica Livia, senza la quale non avrei mai visto questo magnifico spettacolo.

Chiamalo Festival!

A giorni, per la precisone il 14/12, si chiuderà il bando pubblico per la nuova edizione di IT [Independent Theatre], festival milanese di teatro indipendente che ha ottenuto grande successo di pubblico nelle due precedenti edizioni, con oltre 6000 spettatori nell’arco di due anni, per un totale di appena sei giorni di spettacoli.

Praticamente la Woodstock del teatro italiano indipendente, considerando che si tratta di una manifestazione molto giovane e concentratissima sia nel tempo che nello spazio: solo tre sere nei locali non certo angusti ma comunque limitati della Fabbrica del Vapore di via Procaccini. Altri festival cittadini, come il coetaneo Torino Fringe (nato anche lui nel 2013 e quest’anno previsto tra il 7 e il 17 maggio), oltre a durare parecchi giorni in più possono contare su una diffusione molto più ampia tra le sale urbane; oppure su oltre un mese di programmazione e una storia decennale che ne ha fatto ormai una tradizione più che consolidata, ed è ad esempio il caso di Roma. Per non parlare dei mezzi a disposizione degli organizzatori di eventi internazionali come Edfringe!

Insomma, il teatro meneghino si adagia sullo stereotipo e va  di corsa – cosa che non è detto sia per forza un bene.
Ciò che invece bene lo è sicuramente è come con cosi poche risorse si riesca ad organizzare un festival di successo senza perdere l’entusiasmo.
Valentina Falorni e Fulvio Vanacore, fondatori di IT – costituitosi l’anno scorso come associazione culturale – e i collaboratori veterani Arianna Bianchi e Valentina Rho, eletta da poco nel consiglio direttivo, sembravano infatti decisamente entusiasti quando ieri sera hanno presentato in FdV il progetto di IT per il 2015 alle compagnie di artisti.

Dunque Call IT Festival 2015, ma chiamalo soltanto festival! Loro lo definiscono piuttosto una comunità che si sforza di rispondere a desideri ed esigenze condivise, per progettare insieme un modo partecipato di fare teatro.
Al di là del festival, lo scopo primario di IT è quello di investire sulla formazione: per questo non viene operata nessuna selezione artistica e leggendo il testo del bando i limiti alla partecipazione sono veramente pochi e giustificati dalla provenienza geografica o da obblighi legali (ENPALS, agibilità, SIAE).

Quest’anno nello specifico ci saranno anche delle novità nel format IT, che se nelle passate edizioni era esclusivamente di 20 minuti, quest’anno prevede la possibilità di utilizzare due slot scenici da 20′ o uno da 40′, e di puntare su uno spettacolo già formato o su uno studio.
Questi ultimi necessiteranno di un consulente (mentor) e, cosa che non troverete sul bando, avranno probabilmente la disponibilità di un monte ore compreso tra le 40 e le 60 per prove aperte alla cittadinanza in un progetto di residenza presso i Centri di aggregazione multidisciplinare del Comune di Milano.

Il Comune d’altronde era già un supporter dell’iniziativa fin dalla seconda edizione e ha concesso inoltre l’usufrutto gratuito della FdV. Ma plausi e riconoscimenti al festival arrivano anche da privati come la Fondazione Cariplo, di cui IT si è aggiudicata un bando.
Meritato, direi, dal momento che le iniziative non si fermano qui né coinvolgono esclusivamente il periodo del festival o solo chi vi partecipa: alla riunione si parla anche di performance collettive, di blog critici, di date appositamente riservate agli operatori nei due giorni precedenti il festival pubblico, con dibattiti e feste danzanti, del topo simbolo del festival.

Questo. A rappresentare l'underground che risale dalle fogne. Ai più inquieta e basta, ma va bene

Questo; dovrebbe rappresentare l’underground che risale dalle fogne. Ai più inquieta e basta, ma va bene lo stesso!

Si parla anche di fondi, ribadendo che le quote associative (40€/anno) e i biglietti d’ingresso (5€/sera) rimarranno invariati, e di bilanci.

Passati infatti tre anni dalla prima edizione del festival, si è deciso di chiudere questa gestione: dall’anno prossimo qualcun altro prenderà le redini del ratto e dovrà dirigere IT, il festival partecipato preciso come un’orologio svizzero e cazzone come la vera anima di noi milanesi.

P.s. Save the date: IT Festival, dal 13 al 17 maggio.
Ma prima: feste di autofinanziamento, una a fine gennaio e una ad aprile). Stay tuned!

6 maggio, cosa c’è di nuovo?

Il Teatro non è più solo. Perché “la solitudine si subisce, l’indipendenza si sceglie”; IT ha scelto l’indipendenza, come ribadito oggi alla conferenza stampa che presenta la sua III edizione, tenutasi non più a Palazzo Marino ma nello spazio Ex-Cobianchi di nuova apertura.
Tra le molte novità di quest’anno, viene annunciato con gioia che dal punto di vista amministrativo il festival teatrale autofinanziato di Milano potrà ora contare sulle agevolazioni concesse ai partecipanti alla programmazione di ExpoCittà, di cui è evento di spicco per il mese di maggio. expocittàL’affiliazione all’iniziativa promossa dal Comune e della Camera di commercio in occasione dell’Esposizione Universale permetterà a IT di avere un canale privilegiato con la Siae, che tra pochi giorni sarà presente in Fabbrica del Vapore per incontrare gli artisti e rispondere alle loro domande.

Le istituzioni sono dunque benevole nei confronti di questo evento, che di contro molto offre alla cittadinanza: oltre ai 24 incontri di OpenIt, un progetto che ha permesso alle compagnie di usufruire gratuitamente degli spazi dei Centri di Aggregazione Multifunzionale di Milano per le loro prove, l’associazione IT ha promosso lezioni di teatro in scuole elementari e medie, e ha dimostrato una grande attenzione nei confronti dei quartieri periferici della città portandovi iniziative culturali e momenti di socialità e animazione teatrale.

D’altra parte fare rete anche al di fuori dei palazzi del centro è la vocazione del festival fin dalla sua nascita e lo sviluppo della sua organizzazione non può che beneficare artisti e pubblico: con 105 compagnie coinvolte nella vita associativa, più di quattrocento artisti nel complesso, nove spazi (uno in più rispetto all’anno scorso), cinque giorni di programmazione (di cui due dedicati agli operatori teatrali), una diretta con Radio Popolare e un blog per raccontarsi e confrontarsi, state pronti: IT sta per iniziare!

Giulio Bellotto

Noi, spettatori del Piccolo

Mentre mi scapicollo per cercare di raggiungere in tempo il Teatro Ringhiera, dove tra un quarto d’ora inizieranno le procedure di voto per decretare il vincitore di quest’edizione di Play Festival, penso a due cose.
La prima è che non mi ricordo se ho preso le chiavi di casa. Merda! Ah, no, eccole qui..
Il secondo pensiero, di gran lunga più profondo e importante – anche se rimanere chiuso fuori di casa sarebbe stata una seccatura non da poco – è che il teatro è impegnativo.
Ovviamente è un impegno, anzi un lavoro, per gli operatori che fanno il teatro, quello bello come quello brutto: attori, tecnici, scenografi, registi, assistenti, drammaturghi; collaborano tutti quanti alla nascita di un processo davvero complesso che a volte riesce e a volte non riesce. Non è certo una scienza esatta e questo è sempre bene ricordarlo quando si tratta di valutare uno spettacolo, ovvero incasellarlo in una griglia di giudizio che per forza di cose è soggettiva anche quando vorrebbe avere la pretesa dell’oggettività. Come giurati tra poco voteremo non lo spettacolo migliore, ma quello che ci è piaciuto di più, a nostro modesto giudizio, ciascuno secondo la propria sensibilità.
Ma il teatro è un’impegno anche per gli spettatori, un investimento di tempo e denaro che non viene certo incentivato dalla società.
“Stasera veni a bere / a ballare / a drogarti con noi?”
“No mi spiace, stasera vado a teatro..”
“Ma che palle, sempre a teatro sei!”
Insomma, è una vita difficile quella dello spettatore, considerato anche il fatto che chi va a teatro non ha quasi mai il controllo su quello che sta per vedere né sul sistema che ha prodotto quel risultato.
Per questo quando c’è la possibilità che il pubblico partecipi alla programmazione della stagione di un teatro stabile dell’importanza del Piccolo di Milano, non è concesso lasciarsela sfuggire.
Per questo io vado al Ringhiera. Per questo Play Festival è importante.
Per questo la prossima stagione è nostra!

#iovadoalringhieraperchè

In posa per ribadire il concetto

Giulio Bellotto