Basta cibo!
In questi mesi, l’atteggiamento che mi viene spontaneo adottare quando sento parlare di cibo è lo stesso delle grandi abbuffate comandate, Natale e Veglioni, Pasqua, compleanni e matrimoni. Accasciato sulla sedia mi chiudo in un’apatia annoiata mentre parenti o sfacciati expottimisti mi annoiano a morte con questo e quell’aneddoto sullo zio, il cugino o sul padiglione che “devo assolutamente vedere, è troppo conceptual design”.
Parliamoci chiaro: le Esposizioni Universali sono sempre state una bufala, una spacconeria; non hanno mai preteso di dipingere una realtà scientifica e oggettiva, tuttavia spesso sono finite per essere lo specchio più sincero della società contemporanea.
Bisogna però riconoscere che anche se in linea col generale clima di festa che ha accompagnato tutte le Esposizioni, questo Expo 2015 ha un grave e peculiare problema: “Nutrire il pianeta” è oggi un argomento decisamente troppo serio per offrire motivo di scampagnate domenicali e intrattenimenti da Paese dei Balocchi.
Questo in Italia, sopratutto a Milano, l’abbiamo capito tutti (link). E tutti in Italia – immaginatevi a Milano! – sacrificheremmo volentieri questo Grande Gioco col Cibo in favore di una trattazione magari meno spettacolare, ma più onesta, della tematica. Sarebbe davvero bello, ad esempio, che le grandi aziende alimentari invece che intrattenerci con stand e spettacolari spot televisivi si decidessero a rendere nota la provenienza e la lavorazione dei loro prodotti. Per queste informazioni io sarei disposto più che volentieri a rinunciare a confezionamenti allegri e colorati, e persino alle lattine col nome e ai campioni omaggio.
Non c’è dunque alternativa alla fatale dicotomia tra spettacolarizzazione e verità dei fatti? Tra massificazione e indipendenza del pensiero? Potremmo facilmente pensare all’Expo come al momento in cui si è concretizzata l’epoca lotta tra il vero e il falso – molti hanno abbracciato quest’ingenuità con convinzione miope. Ma raramente la realtà ci pone di fronte a due colori tanto netti.
Anche perché la nostra cultura (“nostra” in quanto mondo globalizzato ma ancora di più in quanto italiani cultori del “buon cibo”) rappresenta l’alimentazione in maniera molto complessa. Anoressia e bulimia, junk e fast, slow e chilometro zero, senza dimenticare gli show televisivi e le mode passeggere.
La società si confronta quotidianamente con una concezione sempre più mutevole di cibo, oltre che col cibo in quanto mero nutrimento; e questo vale per la casalinga al supermercato tanto quanto il politico o il ministro.
A questo proposito la 18esima edizione di l’Ultima luna d’estate, festival di Teatro popolare di ricerca, ci offre molti validi spunti a pochi chilometri dalle cementificate lande di Rho Expo FieraMilano. Come ci ricorda Luca Radaelli lo stesso nome della rassegna di quest’anno è ispirato proprio ad una frase associata nell’immaginario collettivo alla malapolitica degli scorsi anni, la stessa che viene spontaneo associare agli appalti poco limpidi, agli sprechi e alle magagne che hanno contraddistinto la preparazione di Expo 2015. “Con la cultura non si mangia”, un’infelice frase di Tremonti, nei comuni della Brianza è diventato in questi giorni “La cultura si mangia”. Il tutto grazie al teatro. Non è poco.
La cultura è nutrimento. In una realtà locale poco avvezza al bombardamento di iniziative, per lo più futili e campate in aria, ch’è proprio della vicina Città metropolitana in festa culinaria, questa benefica idea è ben radicata. Ma lo slogan è più di una semplice provocazione. L’associazione tra cibo e cultura ci ricollega direttamente a Omero: ” Mangia il mio pane, straniero, bevi il dolce vino”.
Di fronte alle odierne contingenze molte persone lo negano, ma non per questo il messaggio che mangiare porta con sé fin dagli albori della civiltà ne risulta indebolito: cibo è innanzitutto ospitalità e condivisione. La stessa condivisione di intenti e di emozioni che si può osservare nei partecipanti ad un fenomeno culturale tra i più fondativi della nostra società, il teatro.
Durante la presentazione del festival questo concetto viene ribadito da Oliviero Ponte di Pino che ci ricorda dottamente come le moderne arti drammatiche abbiano recuperato un rapporto profondo col cibo, a partire dall’esperienza della compagnia inglese Bread and puppets che offriva al suo pubblico un pasto dopo lo spettacolo al nostrano Teatro delle Ariette che cucina lasagne in scena. La nutrizione è (anche) performance, l’essere nutriti una forma di spettacolo.
Di contro, proseguendo in questo ragionamento, dobbiamo ammettere che nella moderna cultura pop, il cibo è ovunque. Religione pregnante a cui è impossibile sfuggire, Edoardo Camurri illustra quanto sia difficile sfuggire al fascino di uno status symbol che è indice di raffinatezza e in definitiva atto di fede convalidato dall’acquisto di questo o quel prodotto alimentare. E la chiacchierata introduttiva si chiude sulla bella immagine di un testo di Kafka, in cui un uomo digiunatore si trasfigura in una simbolica pantera.
Non ci resta che lasciare agli spettacoli il compito di chiarire il senso di questo arcano racconto, nonché di farci sorprendere dalle verità che il cibo ci può ancora rivelare.
Giulio Bellotto