La traiettoria di Harald Szeemann (1933-2005) è una di quelle che ha lasciato una traccia indelebile e ancora visibile al mondo dell’arte contemporanea. La sua carriera, costellata da circa duecento mostre allestite, ha assunto negli anni carattere di paradigma per intere generazioni di curatori. La centralità del suo operato all’interno del discorso sulla metodologia curatoriale appare ancora oggi ben chiara nonostante si sia giunti a condizioni storiche ed estetiche decisamente differenti rispetto agli anni in cui si è mosso. Direttore di museo a soli ventotto anni, primo curatore unico di Documenta, primo curatore di due Biennali veneziane consecutive, primo ad aver curato le due maggiori rassegne dell’arte contemporanea, Kassel e Venezia per l’appunto. Primo curatore indipendente. Indipendente nel senso di libero da vincoli istituzionali e quindi libero di spaziare, di viaggiare, di scovare arte e artisti dovunque, di essere decisivo nella scrittura di mostre ancora oggi totemiche. Direttore della Kunsthalle di Berna dal 1961 al 1969 – Berna, non proprio New York o Parigi – lavora intensamente alla realizzazione di un programma espositivo di un museo senza collezione permanente, che si caratterizza per dinamicità ed elasticità tematica e in poco tempo inizia a rivestire un’importanza non più marginale nella geografia dell’arte contemporanea europea. Un’avventura quella di Berna che si conclude nel 1969 con When Attitudes Become Form: Works, Concepts, Processes, Situations, Information. Live in your head, la più grande frattura scomposta nella storia delle mostre d’arte contemporanea. Un evento che riunisce in un contesto sostanzialmente piccolo tutta la produzione artistica che già da qualche anno navigava nei mari mossi delle rivoluzioni culturali e sociali e che nel decennio successivo si sarebbe affermata energicamente nella sue molteplici proposte. Arte povera, arte concettuale, Land Art, Process Art e tanto altro affollano gli spazi della Kunsthalle e non solo prendendo forma in tempo reale durante l’allestimento. Uno sguardo alla lista dei sessantanove artisti presenti aiuterebbe oggi a identificare il curatore svizzero come responsabile di un assemblaggio epocale. Una delle novità del metodo szeemanniano di fare mostre consiste nella trasformazione dello spazio da luogo di mera esposizione a crogiolo di esperienze creative, momento in cui la processualità si svincola dal giogo della filosofia della pura creazione di oggetti, aspetto che in Attitudes raggiunge la sua massima concretizzazione.
Le dimissioni dalla Kunsthalle sanciscono di fatto la nascita di una professione, il curatore indipendente, uno status di cui oggi ci si fregia con estrema facilità. Szeemann passa inoltre alla storia come “curatore indipendente senza casa”, e questa homeless condition gli permette di dare vita al Museo delle Ossessioni, un’istituzione mentale a cui lavora per tutta la sua vita, la cui estroflessione reale è rappresentata dalle mostre che concepisce in tutto il mondo. Happening & Fluxus nel 1970 alla Kunstverein di Colonia è un’autentica impresa, un bilancio di quelle esperienze riunite nel più coerente dei luoghi possibili. Il 1972 è l’anno di Documenta V, la prima ad aprirsi a una serie di manifestazioni della creatività umana ritenute non propriamente artistiche, affiancate alla sezione dell’arte cosiddetta alta, i cui interpreti (alcuni) insorgono proprio nei confronti del curatore svizzero, reo di essersi comportato da artista, di aver usato le loro opere come pennellate del suo quadro. Harald Szeemann, curatore o artista? Curatore, ovviamente. E al di là delle polemiche, Documenta V consegna al dibattito critico una preziosa possibilità di riflessione sul ruolo del curatore e sul tipo di autorialità che gli dovrebbe competere. Il 1975 è l’anno di Macchine Celibi, proposta in diverse sedi espositive tra cui il Magazzino del Sale alle Zattere a Venezia, una mostra che avrebbe dovuto essere la seconda di una trilogia formata da La Mamma e da Il Sole, entrambe mai realizzate, ma che in realtà è stata seguita da altre due mostre, Monte Verità (Ascona, 1978) e Der Hang zum Gesamtkunstwerk (Zurigo, 1983). Esposizioni queste che per temi trattati sottolineano quanto Szeemann abbia contribuito in maniera determinante non solo agli sviluppi dell’arte contemporanea, ma soprattutto allo sviluppo della storia della cultura del ventesimo secolo.
Degli anni Sessanta e Settanta Szeemann è stato assoluto protagonista al fianco degli artisti e nel 1980 interviene sul format biennale ideando la sezione Aperto, in cui viene esposta l’arte considerata emergente, non in senso prettamente anagrafico. Si chieda per esempio ad Artschwager. Una sezione per cui il curatore svizzero ha lottato, minacciando addirittura le dimissioni, e che è stata mantenuta fino alla rinuncia di Jean Clair del 1995. Dal 1981 al 2000 ricopre il ruolo di “permanent indipendent collaborator” alla Kunsthaus di Zurigo, allestendo nel frattempo in giro per l’Europa una serie corposa di personali (Ensor, Polke, Jarry, Mario Merz, Fautrier, Twombly, Nauman, Beuys ecc.), e nel 1999 viene chiamato a guidare la Biennale di Venezia, incarico che gli viene rinnovato per l’edizione successiva (2001). dAPERTutto e Platea dell’Umanità rappresentano per certi versi la visualizzazione per opere del metodo szeemanniano, che non indietreggia dinanzi alle difficoltà di una mostra large-scale; due esposizioni che si caratterizzano per molteplicità, eterogeneità e rinuncia alla monotematicità: la questione dei sessi, la forte presenza cinese, la prevalenza dell’immagine in movimento, il corpo, l’interesse per l’architettura, lo scioglimento del concetto di oggetto, la sempre più evoluta site-specificity, la perdita dei canoni occidentali di bellezza. Le sue sono piattaforme del pensiero, spazi utopici di confronto in cui non esistono suddivisioni in base a criteri stilistici o tematici, la sua è una autentica storia dell’arte dell’intensità. Il rapporto di Szeemann con gli artisti è probabilmente il lascito più prezioso della sua parabola storica, una appassionata sinergia con quelle che egli stesso definiva mitologie individuali, di cui Joseph Beuys ha rappresentato l’apice più intenso. Harald Szeemann, curatore indipendente senza casa, intellettuale visionario, inventore di una professione.
Gianpaolo Cacciottolo