The smell of money è un romanzetto che racconta un intrigo nel mondo dell’arte dalla particolare prospettiva del giovane pittore Bill, con toni arguti ed atmosfere raffinate. Nulla di che, in definitiva.
Se questo giallo di poche pretese ha un mercato oltre le bancarelle “Tutto a un euro”, tanto da venire specificamente ricercato in rete tra decine di crime novels anni ’40 esattamente identiche per pregio narrativo e spessore letterario, la ragione è una sola: Matthew Head ne è l’autore.
Dietro questo pseudonimo si nasconde infatti il nome più noto del critico d’arte americano John Canaday (1907-1985), recentemente portato sul grande schermo dalle fattezze aguzze di Terence Stamp nel film Big eyes di Tim Burton – come abbiamo già visto, una pellicola pregna di riflessioni interessanti.
Siamo dunque di fronte ad un divertissement letterario, lo svago romanzesco di una penna che per diciassette anni è stata la colonna della rubrica d’arte del New York Times. Dal 1959 al 1976 la firma di Canaday ha avuto il potere di far nascere e declinare il mito di questo o quell’artista, favorire o ostacolare le carriere di pittori, scultori e movimenti. Non era certo condiscendente né timido, la sua posizione non glielo avrebbe permesso: il suo primo articolo, datato 6 settembre, appena pochi giorni dopo la sua nomina, scosse tutto il mondo dell’arte per la violenza con cui contestava le fila dell’Espressionismo Astratto, corrente simbolo dell’America di quegli anni, accusata di fondarsi su “incompetence and deception”, disvalori “che circondano questi artisti seri e talentuosi”. Inutile dire che si fece parecchi nemici e fu una delle persone più odiate nel mondo dell’arte fino a quando non si ritirò dalla professione per assecondare il suo estro letterario.
Eppure non credo che Big eyes gli renda giustizia quando lo ritrae un po’ altezzoso e un po’ incontentabile, sempre e comunque decisamente arcigno nelle sue stroncature dei Keane, i protagonisti del film.
La figura del giornalista (e con lui tutta la sua categoria) viene ridotta ad una caricatura, una sorta di versione in carne ed ossa del critico gastronomico represso Anton Ego, personaggio del film d’animazione Disney Ratatouille. Anche le citazioni proposte con eloquenti primi piani del volto severo di Stamp in dolcevita lo confermano: questi imbrattacarte sono dei raffinati rompipalle il cui compito principale consiste nel denigrare ciò che piace alla gente.
Però nella realtà storica John Canaday non era un vecchio hipster ante-litteram; è stato invece un personaggio di spicco nel panorama artistico americano tra gli anni sessanta e settanta dello scorso secolo. In un periodo in cui gli Usa oscuravano il mondo con la loro ombra, proponendo il loro modello tanto insistentemente in qualsiasi ambito che ogni manifestazione sociale, economica e culturale non poteva che essere “americana” o “anti-americana” tout court, Canaday è stato consapevole dell’importanza del suo lavoro e ha cercato di svolgerlo al meglio seguendo le proprie più radicate convinzioni, contribuendo così a traghettare la figura professionale del critico nel mondo capitalistico.
“Non è nulla più che arte decorativa, priva di ogni sostanza” mi sembra di sentirlo tuonare a proposito di Rothko, di cui disprezzò (o quantomeno deprezzò significativamente) l’approccio “less is more”. Personalmente, ritengo che quei quadri rappresentino invece l’approssimazione più vicina all’Assoluto estetico che uomo possa plasmare; due visioni diametralmente, direi quasi visceralmente, opposte. Eppure non devo scendere ad alcun compromesso per concordare con questa imparziale osservazione di Canaday: “l’arte di Rothko stimola una sorta di auto-ricezione nell’osservatore ma i suoi estimatori viziano questo considerevole potere ponendo l’attenzione sui suoi limiti” laddove l’essenza dell’opera non può che trascendere la materia per diventare molto semplicemente, Colore.
Ecco chi era l’alter ego di Mattehw Head. Una persona intelligente, conscia delle responsabilità che la pubblicazione a mezzo stampa di un’opinione porta con sé, capace com’è di influenzare profondamente il pubblico – ciò succedeva quando per seguito e credibilità la stampa era ancora degna di questo nome.
In due parola, era onesto cioè proteso alla comprensione e interpretazione dell’arte più che alla sua categorizzazione in “bello”, “brutto”, “accettabile” e “indecente”. Sul suo essere conservatore, talvolta persino reazionario, bisogna considerare l’influenza dall’epoca in cui era nato; la passione per i classici, Rubens, Dalì e i Fauves; gli studi nella tradizionalista Yale; l’esperienza nei Marines durante la seconda guerra mondiale. In ogni caso queste contingenze non gli hanno impedito di sviluppare alcune posizioni profondamente moderne, o quantomeno molto applicabili all’attuale stato dell’arte.
Infatti al di là dell’opposizione alla New York School, la crociata per cui Canaday è conosciuto (perduta esattamente come le Crociate storiche), il critico ebbe sempre un grande rispetto per l’artista in quanto lavoratore.
Forse perché in lui rimase indelebilmente nitida la memoria di quanto la Work Projects Administration, agenzia governativa creata durante il New Deal, fece all’epoca della Depressione in favore degli artisti americani, “degli esseri umani impegnati in un’occupazione legittima”. Un sostegno che non era elemosina e sussidi, ma la giusta retribuzione per un lavoro ritenuto importante e degno di essere salvaguardato, al pari dell’industria (che comunque, ad oggi neanche quella è tanto ben messa).
Mentalità d’altri tempi – che però mi ricorda tante discussioni con coetanei alla ricerca di un impiego in campo artistico che sia riconosciuto economicamente e quindi socialmente. In questo la funzione di critico è preminente: impedire che la società si addormenti poggiando sul suo stesso addome, fare in modo che veda non solo la bellezza ma anche la sua utilità.
Canaday non vedeva la grande arte come il lavoro di filosofi stoici e intellettuali, ma di gente che lavora duro e che si guadagna da vivere col lavoro della mente. E con pennelli e tele, come è sacrosanto che sia.
Giulio Bellotto