Parigi

Invisibilia per visibilia, o l’estetica di Takis

Nell’VIII secolo all’interno dell’impero bizantino si situa la nascita dell’iconoclastia, quel movimento che vedeva nelle icone, nelle immagini sacre, il rischio per l’uomo di sfociare nell’idolatria e che quindi necessariamente andava imponendo un orientamento estetico. Esso non era unicamente una ventata di rigorismo antiartistico, ma una vera e propria polemica interna al mondo dell’arte. Adriano I, papa dal 772 al 795, seguendo le orme di Gregorio II e, prima di lui, di papa Gregorio Magno, operò in direzione di una rivalutazione teologica delle immagini, che aveva il suo principio nella formula gregoriana pictura quasi scriptura. Le immagini per Gregorio Magno, infatti, dovevano essere utilizzate dai fedeli come segni per ricordare i sacri misteri, divenendo così i libri degli illetterati. Papa Adriano I, partendo da questo punto, nella lettera diretta all’imperatrice Irene, parla di demonstrare invisibilia per visibilia, riuscire a trasmettere le cose invisibili, Dio, attraverso quelle terrene e quindi visibili.

Tentando un parallelismo quanto mai ardito e inconcludente, potrei affermare che: come gli anti-iconoclasti volevano, ai loro tempi, mostrare e dimostrare Dio e la sua energia invisibile ma presente, così in tempi più recenti un altro personaggio, storico, ma tuttora vivente, ha tentato di mostrare e dimostrare una forza invisibile, ma estremamente reale: si tratta di Panayotis Vassilakis, o, detto più semplicemente, di Takis.

Greco di nascita, ma parigino d’adozione, l’artista ha passato la sua intera carriera nel tentativo di catturare l’energia, quella forza a noi oramai sempre più necessaria, ma che non è mai direttamente visibile. In questa direzione egli ha agito concependo “l’opera d’arte come simbolo di energia”. Nel 1991, dopo un’ascesa riconosciuta e stimata in tutto il mondo, Takis riesce velocemente a racchiudere in una frase, in una piccola Bibbia, il suo credo artistico: “Come scultore non ho mai pensato in termini di estetica, di relazione con una forma, o in una chiave visiva. Ciò che mi ossessiona è il concetto di energia. I fenomeni naturali mi colpiscono.”

Il Palais de Tokyo di Parigi ha inaugurato il 18 febbraio una mostra che chiuderà il 17 maggio, volta a offrire una panoramica complessiva dell’artista greco che è stato negli ultimi anni ingiustamente oscurato e per certi versi dimenticato. Estremamente eclettico, Takis ha lavorato e espresso la sua poetica all’interno dei più disparati campi della fruizione estetica, dalla scultura alla musica, dall’installazione alla performance. Nato nel 1925 ad Atene, giunge nel 1954 a Parigi, dove trova terreno fertile per le sue sperimentazioni, fa la conoscenza di artisti come Jean Tinguely e Yves Klein, e stringe saldi rapporti con i membri della Beat Generation, come William Burroughs, Allen Ginsberg e Gregory Corso. È proprio col loro supporto che il 29 novembre 1960 Takis organizza alla Iris Clert Gallery di Parigi un evento che entrerà a far parte degli annali per la sua carica eversiva e stravagante.L’happening si intitola L’impossible, un homme dans l’espace. Il poeta beat Sinclair Beiles è sospeso per pochi secondi nello spazio – o perlomeno questo narra la leggenda – grazie ad un potente campo elettrico supportato da calamite progettate dallo stesso Takis. Beiles è munito di un casco per moto e rincuorato dalla presenza di una rete a lui sottostante nel caso l’esperimento non fosse funzionato. Durante il miracolo dell’artista, il poeta recita ai presenti, mentre è sospeso nello spazio, il Manifesto magnétique:

Io sono una scultura. Ci sono altre sculture come me. La più grande differenza è che loro non possono parlare. Quando alcune delle sculture provano a parlare esplodono. Causano la morte. Quando parlo di “Bomba” di Gregory Corso sto parlando di vita e morte e nessuno prova dolore […] Mi piacerebbe vedere tutte le bombe nucleari sulla terra trasformate in sculture.

Takis sarà così ricordato come colui che per primo spedì un uomo nello spazio, anticipando Jurij Gagarin e l’URSS di ben sei mesi.

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Come un Leonardo moderno, il greco diviene sinolo di arte e scienza, non solo inseguendo il sogno dell’uomo fluttuante nell’aria, ma rimanendo profondamente affascinato dalla “magia scientifica”, cercando di cogliere e imprigionare l’energia cosmica. Nella stessa direzione va il Mur magnétique – 4e dimension del 2004, l’installazione di un lungo pannello di color rosso sul quale è applicata una striscia ondulata in ferro. Lo spettatore è invitato a prendere in mano una delle bussole a disposizione e a passeggiare accostandola alla linea, verificando di persona la sua violenta perdita di orientamento imposta dalle forze magnetiche.

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Altra indagine è la serie che l’artista crea a partire dagli anni ’60, accostando cilindri metallici penzolanti dal soffitto a tele monocrome che nascondono magneti, lasciando sfiorare le due superficii a pochi centimetri di distanza.

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Nel 1955 è colpito da quella che definisce una “foresta” di segnali, alla stazione ferroviaria di Calais. Da questa esperienza prende l’avvio la serie di Signaux, aste verticali terminanti con elementi meccanici recuperati, volti al cielo, alcuni dei quali con luci. Nel 1988 allestisce una spianata di segnali, vera foresta metropolitana, a La Dèfense a Parigi, dove tutt’ora si trovano. Dall’esplorazione dell’energia dei campi magnetici deriva anche un’interesse per la musicalità da essi prodotta, e per l’aleatorietà, nella stessa direzione degli altri compositori d’avanguardia. Takis fuggendo l’arbitrarietà dell’artista, ricerca un’origine naturale del suono. I risultati sono estremamente innovativi tanto che nel dicembre 1966 la rivista New Scientist lo accosta a John Cage e Iannis Xenakis come i più promettenti musicisti del secolo.

D’altronde già nel 1962 Duchamp aveva colto con estrema lucidità e brio lo spirito e la missione dell’artista definendolo “gaio lavoratore dei campi magnetici e indicatore delle strade di ferro dolce”. Giunto quasi all’età di 90 anni, Takis continua la sua carriera di “sapiente intuitivo”, dopo aver combattuto durante tutta la sua vita per rendere accessibile e chiaro una delle infinite realtà che sembrano tanto astratte e vaghe, per rendere fruibile ciò che solitamente non è decodificabile nel nostro campo visivo e quindi – limitativamente – cognitivo. Con la sua arte ha mostrato il suo Dio, l’energia, i campi magnetici, enti metafisici e spesso estremamente misteriosi per noi, profani della scienza, ma che esistono ed agiscono. La leggerezza delle gravi sculture di Takis è proprio questa, il riuscire a cogliere e racchiudere una forza tanto estrema, ma, al tempo stesso, così impercettibile. Per visibilia invisibilia!

 Bernardo Follini

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Daniel Buren e l’utensile visivo

Siamo nella già calda Napoli del 25 aprile, che proprio in concomitanza con la data storica e primigenia, offre ai suoi cittadini una parallela occasione liberatrice. Si tratta dell’intervento di Daniel Buren, “Come un gioco da bambini”, progettato ad hoc, o, per seguire la formula da lui stesso coniata, in situ, per la sala Re_PUBBLICA MADRE, al piano terra del Museo Madre di Napoli.

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Nata dalla collaborazione tra l’artista francese e l’architetto Patrick Bouchain, il progetto è uno spazio ludico, finalizzato alla celebrazione della “relazione tra il museo e il suo pubblico, tra l’istituzione e la sua comunità”, costituito dall’assemblaggio di un centinaio di moduli di forme geometriche, dai colori differenti ispirati ai giochi artigianali di Friedrich Fröbel. Il pedagogo tedesco aveva studiato le potenzialità conoscitive del gioco, individuando nella scoperta comunitaria della realtà l’affinamento di diverse facoltà quali la percezione, la capacità espressiva, il riconoscimento tattile, l’idea di costruzione e decostruzione. Per raggiungere questo fine, Fröbel, progettò il Kindergarten, il “Giardino dell’infanzia”, dove i bambini erano lasciati liberi di esprimersi attraverso la conoscenza ludica, e affidati a maestre-giardiniere che dovevano occuparsi della loro crescita. Parlando proprio del rapporto tra l’arte e la creatività dei bambini, Buren afferma:

“Spesso si indica qualcosa facile da fare con l’espressione ‘è un gioco da bambini’, come se non valesse nulla. A me l’idea di realizzare cose che saprebbero fare i bambini piace. Lo dicono anche alcune opere di Picasso, Pollock, Matisse. La cosa che non dicono è che i bambini tra i due e i nove anni sono artisti bravissimi, dipingono, disegnano, sono magnifici e allo stesso tempo rendono la creazione facile. Rendono naturale l’estremamente complesso. Un artista, per arrivare a questo livello, spesso impiega 40 anni di lavoro.”

Affrontando la percezione dello spazio, Buren, crea una profonda riflessione empirica, ma al tempo stesso, un divertissement sull’Arte Contemporanea. La stessa arte che, come si dice, può essere fatta da tutti, in questo caso potrebbe essere fatta anche da un bambino. Nella città in miniatura progettata da Buren i volumi colorati e i cubi forati al centro, rivestiti da ipnotici cerchi a righe larghe 8,7 cm (sua vera firma) in bianco e nero, “modificano la nostra risposta agli oggetti” in quanto la nostra retina elabora in modo differente strutture che hanno la medesima forma e grandezza. Entrando nel mondo di “Come un gioco da bambini”, si è colti da una qualche forza metafisica che rende lo spettatore consapevole della scardinante potenza della semplicità cromatica e strutturale; lo stesso Buren sostiene, infatti, che “il colore è pensiero puro e quindi inesprimibile, altrettanto astratto come una formula matematica o un concetto filosofico”. L’intervento rappresenta il primo di una serie di progetti che legheranno Buren al Museo Madre di Napoli, e sarà visitabile fino al 31 agosto. L’intervento nella sala Re_PUBBLICA MADRE fa parte di un percorso personale dell’artista, che ha elaborato a fine 1967 la nozione di opera in situ, dando fondamento teorico alla salda interrelazione tra quelli che sono i suoi interventi e i luoghi in cui sono esposti (che siano istituzionali o urbani).

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Galleria Apollinaire di Milano, 1968

Le opere di Buren, quindi, fin dagli anni ’60 invadono le strade e gli spazi pubblici, partendo da pratiche strettamente situazioniste, e inserendosi in quella riflessione storica degli artisti specifica degli anni ’60 e ’70, nota come institutional critique. I suoi lavori hanno sfidato la nozione di “installazione” che Buren ha definito come “vetrina dove tutto è fatto con finalità commerciali per allettare il passante curioso” e “messa in scena temporanea per la vendita di oggetti eterogenei o no la cui caratteristica principale, perlomeno, paradossale, è di non avere nulla a che fare con la problematica del luogo”. Il carattere polemico lo ha d’altronde accompagnato per tutta la vita, fin da quando nel 1972 Harald Szeemann accettò di pubblicare un suo articolo critico sul catalogo di Documenta 5, all’interno del quale Buren lamentava il ruolo marginale dell’artista puntando il dito contro la figura del curatore, affermando perentoriamente la sua visione della quinta manifestazione internazionale di Kassel: “L’esposizione s’impone come soggetto autonomo ed essa stessa si sostituisce all’opera d’arte”. Importanza centrale nella riflessione artistica del francese è la cosiddetta “estinzione” dello studio, l’abbandono dell’atelier, visto come luogo “nocivo e contraddittorio”, in favore di una più moderna condizione di nomadismo. Dalla fine del ’66, inizia a stampare su stoffa da tende e carta fasce verticali larghe 8,7 cm ciascuna, bianche e colorate, affini alla “piccola prigione spagnola” di Motherwell, applicandole nei luoghi più disparati, dai musei ai cartelloni pubblicitari nelle strade, e, quando riportate su tela, vi aggiunge una stesura di bianco ai lati, come ironica certificazione del carattere artigianale. Nel 1968 in occasione del Salon de Mai agisce sia all’interno sia all’esterno del Musée d’Art Moderne de La Ville de Paris, rivestendo una parete del museo con carta a strisce  bianche e verdi, e facendo circolare due uomini sandwich per le vie della città mentre esibiscono sui loro cartelloni non pubblicità, ma la stessa carta rigata. Così facendo, servendosi della dèrive situazionista, Buren focalizza la sua riflessione sulla separazione tra arte e quotidianità, con la sua provocazione itinerante, ma, al tempo stesso, gioca paradossalmente con la pubblicità museale. Lo stesso marzo tappezza gli spazi di pubblica affissione di tutta la città con la sua carta a righe di 8,7 cm. Sempre nel 1968 ha la sua prima personale alla Galleria Apollinaire di Milano dove blocca l’unico ingresso riempendo la porta d’accesso con le sue fasce bianche e verdi. Le righe di Buren, che nella loro realizzazione industriale, e quindi oggettiva e impersonale, mettono all’ordine del giorno la questione dei limiti della pittura, mostrano il desiderio che l’opera non parli o rappresenti il reale, ma sia il reale. Con estrema consapevolezza e lucidità teorica Buren definisce le sue righe come “utensili visivi”, segnali che siano in grado di richiamare e focalizzare l’attenzione dello spettatore su ciò che l’artista ritiene giusto e importante sottolineare o evidenziare. L’errore risiede nel concepire le stesse fasce colorate come lavoro in sé dell’artista, e non all’interno di una visione molto più ampia, percettiva e critica. Dagli anni ’80 si moltiplicano i suoi interventi architettonici in spazi pubblici come “Les Deux Plateaux” al Palais-Royal di Parigi nel 1986 – lo stesso anno in cui vince il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia –, l’intervento al Parco Archeologico di Scolacium, in provincia di Catanzaro o privati come “Muri Fontane a 3 colori per un esagono” alla Villa Medicea la Magia.

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Les Deux Plateaux” al Palais-Royal di Parigi

Grazie alla sua carriera monumentale, Buren è un artista che ci insegna non solo una nuova idea di opera, sorta dalla contestualizzazione, dal suo essere e vivere per un momento limitato in uno spazio e un tempo ben preciso, ma anche come guardare un’opera. Egli ci indica e ci far soffermare su quello che abbiamo. Una visione che poggi su salde basi teoriche e sull’idea dell’artista come indipendente oppositore, lo ha condotto verso il superamento e la neutralizzazione del contenuto puramente illusionistico della pittura. La sua arte, staccandosi dal chiodo della parete del museo, inonda le strade, i vicoli, l’estetica umana e urbana, nella sua quotidianità e banalità, e ci riconsegna il dono di apprezzare la complessità del semplice.

Bernardo  Follini

Perfino Charlie Hebdo può esserci utile

Due ore in giro per edicole mi hanno lasciato infreddolito e pensieroso.
200.000 copie, tutte esaurite. Non se ne trova una nemmeno in biblioteca.
Va beh che non ho prenotato in anticipo il nuovo numero di Charlie Hebdo distribuito dal Fatto, ok che non sono uscito all’alba per accaparrarmene una copia; ma non mi aspettavo davvero di rimanere a mani vuote, dopo tutto il battage pubbliciatario scatenato da stampa e social negli scorsi giorni. Sposto lo sguardo accigliato su un vecchio numero comprato qualche anno fa a Orly, per ingannare l’attesa in aeroporto.

E non posso fare a meno di pensare, certo che CH è veramente un giornale-spazzatura! Questa mia affermazione, senza dubbio personale e opinabile, forse addirittura scandalosa per qualcuno, trova una triste conferma nella copertina del nuovo e tanto magnificato numero speciale tradotto in sedici lingue, il n.1178, il primo dopo la strage di settimana scorsa.

La redazione di CH, ospitata presso gli uffici di Liberation: "Tutto è perdonato" - copertina di Renald Luzier, alias Luz

La redazione di CH, ospitata presso gli uffici di Liberation: “Tutto è perdonato” – copertina di Renald Luzier, alias Luz, una persona sensibile.. quasi come la Fornero

Abbiamo già sottolineato come la recente mobilitazione riguardo alla libertà d’espressione si sia spesso servita di immagini dalla duplice interpretazione. Anche questa vignetta è ambigua, anzi la definirei decisamente equivoca: gli autori ci dicono che è un ritratto di Maometto, sinceramente commosso dall’accaduto, mentre si schiera dalla parte di Charlie. Il tutto è sormontato da una scritta pacificatrice, deus ex machina, non si capisce bene se da attribuire al Profeta, agli autori di questo numero o ai giornalisti uccisi.
Già così mi sembra un’immagine abbastanza colonialista; in fondo Dio è con noi era il grido di battaglia dei crociati, no?

Ma è l’altra possibile interpretazione a preoccuparmi davvero, una che in quel disegno vede un semplice musulmano – magari francese – il cui sincero cordoglio viene ricondotto ad una singola lacrima di coccodrillo, il cartello in bella vista perché così si deve (ma almeno oltralpe nessuno ha imposto agli immigrati di cospargersi pubblicamente il capo di cenere come qui da noi), e il munifico indulto: “Non ti preoccupare, è tutto a posto, non è successo niente. Tutto perdonato”.

E invece è successo qualcosa di importante, tanto che ora la democrazia occidentale è a un bivio cruciale. Non è la libertà ad essere in discussione, gli unici che possono togliercela siamo noi stessi con la nostra indifferenza, il nostro delegare e non essere cittadini partecipi; è invece la capacità di includere, di essere uniti e aperti all’altro e al diverso che la nostra società deve testimoniare con forza per non soccombere e cadere nella barbarie.

In questa situazione non sono tanto i grandi numeri che contano. Non contano i sei milioni della marcia repubblicana di domenica, in cui purtroppo la presenza di fedeli musulmani era nonostante tutto piuttosto ridotta; non contano i cinque milioni di copie sold out del n.1178.
Quello che importa davvero sono i piccoli numeri, come le persone reagiscono alla violenza: così un solo arresto, quello di Dieudonné – che certo è da biasimare, ma non meno dei satiristi di CH – diventa una sconfitta intollerabile. Per non parlare dei cinquanta attacchi alle moschee francesi degli ultimi giorni.

Charlie Hebdo è diventato il più importante simbolo di qualcosa che non rappresenta assolutamente, la stampa libera, quella che ha coscienza dei punti di vista che esprime e che pubblica per i cittadini e non contro di loro.
Forse lo è diventato impropriamente; ma il modo migliore per rimediare a questo errore è sicuramente far si che da tutto questo nasca qualcosa di veramente grande:una nuova pratica di libertà.

Giulio Bellotto