In una stanza blu, un padre aspetta suo figlio. Come in un film surrealista, un armadio pende dal soffitto. E’ una spada di Damocle sul capo del vecchio uomo. Alla fine il figlio torna e una gita in montagna rimette tutto a posto nel loro rapporto mentre un violino suona insieme ad una chitarra elettrica, coniugando passato e presente in un unico grande abbraccio armonico.
Ma prendiamola alla larga. Partiamo dal 1929.
In quell’anno gli Indifferenti, il romanzo d’esordio di Moravia, fu protagonista di uno dei più grandi scandali letterari del ventennio fascista, scoppiato quando ancora il regime non aveva il pieno controllo della produzione intellettuale italiana e le armi della censura istituzionale dovevano ancora essere affinate. Tuttavia in questo libro ho sempre visto qualcosa di più di quanto testimonia la realtà storica, per la quale si limita ad essere una delle ultime espressioni libere dell’Italia primonovecentesca: mi piace invece pensare che l’ingranaggio dittatoriale, messo davanti all’arguta, smaliziata e profondamente onesta descrizione che un giovanissimo Moravia faceva dei suoi coetanei appartenenti alla buona borghesia romana, sia stato costretto a una seria riflessione. L’oppressione che due generazioni di italiani hanno subito scaturisce dalle risposte che il duce e i suoi accoliti si diedero di fronte ai pressanti interrogativi che Gli Indifferenti rivolgeva a tutta la società dell’epoca.
Che atteggiamento deve assumere un uomo nei confronti delle sue radici? In altre parole, da dove veniamo e dove stiamo andando? Non sono questioni da poco, infatti ogni essere umano se le pone ad un certo punto della sua giovinezza; ogni individuo trova le proprie risposte, ipse facto valide in assoluto, e da esse dipende la sua attitudine riguardo la collettività, elemento fattuale che invece sottosta ad un giudizio ben preciso che per definizione assume come metro il paradigma dell’utilità sociale. Nel romanzo, all’assenza del padre e al sognante alcolismo d’illusioni che affligge la madre, Michele reagisce con una dialettica psicotica tra apatia e rabbia; sua sorella con colpevole e fatalista abbandono. La pericolosità di queste reazioni è per certi versi la medesima generata da Moravia: i giovani si ribellano al gioco (o dovrei dire al giogo?) dei padri e screditandone le premesse se le liberano. Gli Indifferenti finisce male solo ad uno sguardo poco empatico; per Michele e Carla l’epilogo della vicenda segna una decisiva vittoria. Sono gli altri, i benpensanti, i perbenisti, l’adulto maturo e abbietto, a uscirne sconfitto – sono infatti costoro a volere il ritiro dell’opera dal mercato editoriale.
Con uno sguardo simile voglio approcciarmi anche all’ultima fatica teatrale di tre pubblici intellettuali dei nostri tempi, Michele Serra, autore, Giorgio Gallione, regista, e Claudio Biso, attore. La trama la conoscete già: è il paragrafo iniziale. L’intento di questa vicenda così intensa è di raccontare proprio il legame familiare più profondo e allo stesso tempo più irrisolto, quello appunto tra padri e figli. Serra aveva già affrontato il tema con Gli sdraiati, libello che ricordo di aver regalato a mio padre alcuni anni fa. Come accade sempre quando scelgo un libro come regalo, prima di darglielo lo lessi io. Quanta differenza rispetto alla prosa di Moravia, delicata ed elegante ma nonostante questo incisiva ed irruente, così poco conclusa eppure definitiva da richiamare persino nei più vissuti l’ardore della giovinezza!
Chiunque può percepire la presunzione che trasuda dalla prosa di Serra anche solo leggendo gli imperiosi precetti morali che dispensa quotidianamente dall’alto dell’Amaca, la sua rubrica su Repubblica; il problema però è un’altro, più strutturale e metodologico. Infatti il suo testo rispecchia pienamente la visione che un padre perplesso e confuso può avere di suo figlio, una figura su cui ironizzare e le cui abitudini giudicare con il piglio dell’intellettuale benevolo che ricorda un fulgido passato ma nella sua cultura si tiene al passo coi tempi. Comunque non è una novità, il manicheismo degli ex-sessantottini scade spesso nel retrogrado passeggiare per monti rievocando i fasti che segnarono la loro gioventù e che nessun’altra generazione potrà mai sperimentare.
In “Father and son”, lo spettacolo tratto da Gli Sdraiati, la presunzione di Serra viene spacciata per un tratto generazionale che caratterizza i cinquantenni. La stessa cosa accade per la posizione orizzontale, distintiva di ogni teen-ager. Non è credibile nessuna delle due associazioni. Tuttavia alcune battute sono interessanti e rivelano che tipo di concezione della famiglia sia insegnata da giornali (Serra) e televisione (Bisio). Non dicono molto quelle rivolte alla gioventù, che si limitano a riproporre stereotipi e luoghi comuni sostenuti esclusivamente da una buona capacità istrionica; ma è invece particolare l’immagine di se stesso che ci viene resa dal personaggio del padre. Senza alcuna sicurezza o solidità, se non l’umorismo rassegnato: educatore inconcludente e nevrotico, incapace di relazionarsi, non solo col figlio adolescente (il padre di tutti i cliché della cultura pop), ma con la fidanzata/il tatuatore/la professoressa/la madre del compagno del figlio adolescente. Il padre è un inetto che diventa pubblica icona, giornalista, Presidente della Repubblica, incarnazione delle frustrazioni di molti genitori e infine “dopo-padre”. Diventa amico.
Bisio è l’interprete ideale di questo personaggio ambiguo e sfuggente, diciamo che è l’equivalente maschile di “Una mamma per amica”. Incatenato nel suo ruolo comico l’abbiamo visto in vesti simili quando ha interpretato l’alter-ego italiano dello scrittore francese Daniel Pennac portando sul palcoscenico”Grazie” (tra l’altro sempre sotto la regia di Giorgio Gallione). Fa pure Italia’s got talent, troppo fiko!
Giulio Bellotto