Il Ringhiera diventa palco dell’esistenza di due piccoli esseri umani, interpretati con abilità e grazia dalla coppia Carullo-Minasi. Capaci di sfumare i contorni di questi enigmatici e sofferenti personaggi impegnati in un eterno dialogo filosofico sul senso del vivere, gli attori riescono a riempire l’intero spazio scenico pur utilizzandone una minuscola porzione. Un quadrato piastrellato di bianco e di nero rappresenta la stanza in cui il duo, tenero e goffo nel trascorrere una giornata di grottesca routine, si nasconde sempre più a fondo nel loro mistero di vita. Finché, pur ridotti in uno spazio sempre più stretto, dall’arredamento vistoso ma essenziale, decidono di uscire e compiere un metaforico “balzo” per uscire dalla loro caverna e vedere finalmente la luce del sole.
Platone è il riferimento costante dello spettacolo, la più evidente delle colte citazioni che punteggiano e puntellano un testo denso ma reso scorrevole sulla scena. Riflettendo sul Simposio le parole misurate e coinvolgenti di questa piéce riescono a rappresentare in modo spontaneo e poetico l’incanto di chi ha imparato ad amare la fame, la malattie e i limiti della propria condizione.
E proprio sul tema del Limite e del suo superamento in quanto condizione necessaria all’atto d’arte si concentra la ricerca teatrale di Giuseppe Carullo e Cristina Minasi, intenzionati ora a parlare tramite una parabola dei nostri tempi della consapevolezza dello stare e del generare il bello, come tutti noi facciamo ogni giorno senza neanche rendercene conto.
Questo tentativo può dirsi senza dubbio un successo che si sa destreggiare tra il dolce e lo stucchevole senza scadervi quasi mai – forse solo nel finale, quando la rappresentazione del matrimonio tra i due protagonisti prende una piega più sul patetico che sul catartico. In ogni caso il risultato complessivo, intenso, intimo ed emozionante, rende facile perdonare questa piccola svista.
Giulio Bellotto