matrimonio

Due passi sono

Il Ringhiera diventa palco dell’esistenza di due piccoli esseri umani, interpretati con abilità e grazia dalla coppia Carullo-Minasi. Capaci di sfumare i contorni di questi enigmatici e sofferenti personaggi impegnati in un eterno dialogo filosofico sul senso del vivere, gli attori riescono a riempire l’intero spazio scenico pur utilizzandone una minuscola porzione. Un quadrato piastrellato di bianco e di nero rappresenta la stanza in cui il duo, tenero e goffo nel trascorrere una giornata di grottesca routine, si nasconde sempre più a fondo nel loro mistero di vita. Finché, pur ridotti in uno spazio sempre più stretto, dall’arredamento vistoso ma essenziale, decidono di uscire e compiere un metaforico “balzo” per uscire dalla loro caverna e vedere finalmente la luce del sole.

Platone è il riferimento costante dello spettacolo, la più evidente delle colte citazioni che punteggiano e puntellano un testo denso ma reso scorrevole sulla scena. Riflettendo sul Simposio le parole misurate e coinvolgenti di questa piéce riescono a rappresentare in modo spontaneo e poetico l’incanto di chi ha imparato ad amare la fame, la malattie e i limiti della propria condizione.

E proprio sul tema del Limite e del suo superamento in quanto condizione necessaria all’atto d’arte si concentra la ricerca teatrale di Giuseppe Carullo e Cristina Minasi, intenzionati ora a parlare tramite una parabola dei nostri tempi della consapevolezza dello stare e del generare il bello, come tutti noi facciamo ogni giorno senza neanche rendercene conto.
Questo tentativo può dirsi senza dubbio un successo che si sa destreggiare tra il dolce e lo stucchevole senza scadervi quasi mai – forse solo nel finale, quando la rappresentazione del matrimonio tra i due protagonisti prende una piega più sul patetico che sul catartico. In ogni caso il risultato complessivo, intenso, intimo ed emozionante, rende facile perdonare questa piccola svista.

Giulio Bellotto

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Cantare all’amore

La compagnia la Ballata dei Lenna, formatasi di recente presso l’Accademia Nico Pepe di Udine, presenta a Play Festival una riflessione sul tema dell’amore moderno, analizzato con occhio cinico e senza troppe pretese di profondità.  In scena due tipi di affettività: da una parte il matrimonio della sorella bella con un non meglio specificato politico si poggia sull’avvenenza e sull’arrivismo che giustifica ogni comportamento in ragione di un mondo spietato in cui si sopravvive solo grazie all’aspetto fisico. Dall’altra invece l’amore della sorella brutta “senza speranze” per il sarto fallito “che ha perso ogni speranza” vuole essere senza tempo e senza contesto, ma viene minato dal cinismo della sorella bella.

I dialoghi non particolarmente ricercati e intensi utilizzano volutamente luoghi comuni che raccontino la superficialità delle relazioni e della società: il matrimonio di convenienza, la suocera stronza, le canzoni di Ramazzotti e Baglioni, il calcio e l’amore cieco.
Al di là della trama la caratterizzazione dei personaggi è piuttosto interessante, seppur nella loro stereotipizzazione, la loro comicità tragica e il loro cinismo disperato – a tratti esasperato – è convincente e coinvolge.

La scenografia risulta efficace sopratutto per quanto riguarda le luci che delimitano lo spazio di vita dove agiscono i personaggi; l’ambientazione viene così a ricordare vagamente l’atmosfera di un film di Wes Anderson, naif e agrodolce.

Valentina Villa