La scorsa settimana è stata densa di eventi per la Giustizia italiana: sembra che il peggior vizio del 2015 sia di metterci di fronte agli avvenimenti più significativi e traumatici subito dopo le feste. Una bella vigliaccata, considerando che siamo ancora in poltrona con la pancia piena quando, bum!, accade qualcosa che ci costringe a distogliere preziose energie dalla faticosa digestione dei pranzi di famiglia per concentrarci invece su catastrofi nazionali ed internazionali. Grossomodo, è quello che è successo con la vicenda Charlie Hebdo, che ci ha fatto andare di traverso sia il panettone natalizio sia il pandoro di Capodanno. Altra festa comandata, altro dolce, stesso brusco risveglio; dopo la Pasqua ed il suo strascico di colombe, ovetti e pastiere, ecco che un’attesissima sentenza Corte europea dei diritti dell’uomo ci ricorda che Cristo, risorto da appena due giorni, si è fermato molto prima di Eboli. Grossomodo, a Strasburgo; precisamente davanti ad Allée des Droits de l’Homme.
Questo è un sentiero che l’Italia non ha mai imboccato, come testimonia la lacunosa legislazione nostrana: le leggi del Paese che fu la culla del diritto non prevedono il reato di tortura. Di questo baratro giuridico hanno approfittato individui come De Gennaro, oggi presidente di Finmeccanica. Cosa c’entra un poliziotto violento con il gruppo industriale italiano leader nelle alte tecnologie? Mistero. Si sa solo che Renzi lo difende a spada tratta e sembra non accorgersi di aver messo Rambo alla Nasa. Il Nixon di Futurama non avrebbe saputo fare di meglio. Le istituzioni europee però non sembrano aver voglia di scherzare: la causa intentata contro l’Italia da Arnaldo Cestaro, pensionato 62enne coinvolto nei fatti di Genova del 2001, ha prodotto un risarcimento di 45.000 euro a favore del ricorrente e una netta presa di posizione della Corte sulle violenze della polizia durante il G8. Non solo è stata rilevata l’assenza di un nesso di causalità tra la condotta di Cestaro e l‘uso della forza da parte degli agenti al momento dell’intervento, ma si è evidenziato il dovere dei nostri legislatori di mettere in atto un quadro giuridico appropriato, anche attraverso disposizioni penali efficaci. Questo significa che le istituzioni non sono colpevoli solo per ciò che è successo nella scuola Diaz nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, ma anche prima e dopo quella data per l’indifferenza omertosa con cui la vicenda è stata trattata nel complesso.
“Si ritiene necessario che l’ordinamento giuridico italiano si fornisca degli strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti trattamento ai sensi dell’articolo 3 e impedendo loro di beneficiare di misure in contraddizione con la giurisprudenza della Corte”, si legge nella sentenza.
Nei confronti dei suoi cittadini, l’Italia è colpevole da 14 anni. Che sia ora di rescindere il contratto sociale?
Il fatto è che noi Italiani ormai abbiamo paura della polizia, una tendenza nata proprio nel 2001 e rafforzata da numerosi fatti di cronaca, tra cui non si possono passare sotto silenzio i casi Cucchi e Aldrovandi. Un famoso film di Stefano Sollima, A.C.A.B., ci dà un immagine realistica non tanto di quello che è la polizia ma piuttosto di come viene percepita dalla maggioranza di noi, me compreso. La polizia è pericolosa. Lo so benissimo che la maggior parte degli agenti sono funzionari coscienziosi, ligi al dovere e all’uniforme che vestono; ciò tuttavia non mi impedisce di lanciare uno sguardo preoccupato alla fondina quando passo vicino ad uno di loro. Il che è paradossale. Un poliziotto è un “uomo della polis”; in un certo senso, filologico se non civico, siamo tutti poliziotti. Ma gli agenti di P.S. sono armati; basta questo per attribuir loro un responsabilità infinitamente maggiore rispetto ad un civile. L’eccesso nell’uso della forza pubblica non può mai essere considerato un errore di valutazione o un difetto nella conduzione di un’operazione di polizia; si tratta invece di una violazione gravissima della fiducia che ognuno di noi ha il diritto/dovere di riporre nelle istituzioni.
E’ uno scorcio di barbarie. Questo punto avrebbe dovuto essere chiaro ben da prima che iniziasse l’attuale millennio. Due secoli prima della sentenza “Cestaro c.Italia”, sempre dalla Francia arriva una lezione importante: è il 1804 quando viene promulgato il Codice civile, o Codice napoleonico, che all’articolo 6 recita:
Le leggi che interessano l’ordine pubblico o il buon costume non possono essere derogate dalle convenzioni particolari.
Non ci sono scuse né giustificazioni, quindi; il funzionamento stesso dell’ingranaggio sociale dipende dal mantenimento e dalla tutela dello svolgimento della vita comunitaria, adeguatamente normata e soggetta a restrizioni di ordine giuridico. Sulla necessità di simili limitazioni dovrà concordare anche l’anarchico più convinto. Se non avessimo bisogno di leggi il mondo sarebbe l’Eden: condivideremmo la proprietà, Livio Paladin sarebbe stato un figlio dei fiori invece che un giurista barboso e geniale e noi tutti andremmo in giro nudi e felici coprendoci di foglie di fico. Purtroppo non è così. Come per ribadirlo, ecco che a pochi giorni di distanza da questi pensieri, dopo che finalmente mi ero faticosamente alzato dalla poltrona del sonnellino post-agnello pasquale, mi fulmina quest’altra notizia: strage al tribunale di Milano. C’è poco da dire in proposito. Umanamente, tre morti sono una tragedia indipendentemente dalla professione che svolgevano. Ma se un avvocato ed un giudice vengono uccisi in un’aula di giustizia nell’esercizio delle loro funzioni, la tragedia è collettiva.
Lo spazio del giudizio è da sempre un luogo particolarmente pregno di significato: nell’antica Grecia i tribunali erano posti nell’acropoli, la parte della città consacrata agli dei. Il tribunale di Atene deputato ai fatti di sangue, l’Areopago, venne inaugurato da una causa eccellentissima, nientemeno che il giudizio di Ares per l’uccisione di Alirrotio figlio di Poseidone; quegli spalti occupati per secoli da arconti e uomini bennati udirono S. Paolo pronunciare il Discorso all’Areopago (Atti degli Apostoli, 17, 22-31) con cui Dio fu annunciato agli ateniesi. In moltissime culture i tribunali furono luoghi mitici, in cui il divino si accostava all’umano e ispirava la sua giustizia; per secoli rimasero tali, come testimonia ancora oggi lo stesso edificio in cui venerdì si è consumata la strage. Sulla facciata sinistra del Palazzo di Giustizia di Milano si legge infatti:
Iurisprudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia iusti atque iniusti scientia. La Giurisprudenza è la scienza degli affari divini e umani, dei fatti giusti e ingiusti.
Il killer ha dichiarato “il tribunale è stata la mia fine, mi ha rovinato la vita”. Com’è possibile che un tempio sacro alla comunità si trasformi in un incubo, persino in un luogo di morte? Sul lato destro dell’edificio, un altro brocardo (massima giuridica di tradizione latina) ci ricorda invece che siamo chiamati alla giustizia fin da quando siamo nati. Sulla natura si fonda il diritto, non sull’opinione. Una sana costituzione morale porta alla giustizia? Forse – un po’ di ottimismo non può che farci bene. Ma dove la nostra morale non arriva, deve arrivare l’organizzazione della giustizia: il potere giudiziario, il sistema penale, le forze di pubblica sicurezza. Organismi al servizio dei cittadini, che ogni cittadino deve difendere. In cui, con un po’ di sforzo, bisogna tornare a credere.
Giulio Bellotto
venerdì tribunale