crisi

La parabola dell’equilibrista: Lehman Trilogy

thumb_54ca11203f3092dd4c8b47cb_default_xxlarge

Recentemente ho avuto la fortuna e il piacere di vedere lo spettacolo in scena nelle scorse settimane al Piccolo Teatro Grassi, Lehman Trilogy, regia di Luca Ronconi, basato su un testo di Stefano Massini. Non essendo né un appassionato del genere né un assiduo frequentatore degli spazi teatrali milanesi, vi racconterò di quello che ho visto dall’alto della mia ignoranza teatrale. Fortunatamente per me lo spettacolo in questione narra vicende vagamente familiari. Sono, infatti, uno studente di Economia e della Lehman Brothers Holding Inc. ne ho sentito parlare fin troppo, eppure mai mi sono approcciato all’argomento tramite il teatro.

L’intero spettacolo racconta la storia imprenditoriale della famiglia Lehman, dall’arrivo in America nella seconda metà dell’ottocento fino al clamoroso fallimento del Settembre del 2008. Se da una parte però la storia del fallimento che ha scaturito la recente crisi economica è cosa nota (quasi) a tutti, dall’altra non è per nulla conosciuta la storia imprenditoriale che ha portato la Lehman Brothers ad essere quello che è diventata. Almeno non lo era per me. Che dire, lo spettacolo mi è piaciuto assai, sia perché ho trovato la tematica molto interessante e avvincente sia perché il modo, sicuramente originale, in cui è stato messo in scena se non straordinario è quanto meno fascinoso.
Partiamo dalla sinossi: – Lo spettacolo si divide in due parti. Nella prima parte si accentua il capitalismo americano della fine dell’ottocento, pieno di opportunità e di possibilità. L’American Dream insomma. Nella seconda parte invece, che incomincia con la Prima Guerra Mondiale, si mette in luce e in critica due aspetti caratteristici del capitalismo dei nostri tempi: la finanziarizzazione e la perdita di valori etici e morali di quest’ultimo.
Nella prima parte dunque abbiamo il racconto delle gloriose se non addirittura nobili vicende imprenditoriali di tre fratelli, origine ebraica ovviamente. Si parte con la commercializzazione di vestiti e di utensili da lavoro, poi di cotone, e si arriva infine al servizio d’intermediazione creditizia, o più semplicemente l’attività bancaria, passando per ferrovie, tabacco e settore tessile. Inutile dire di come questa parte venga messa in scena positivamente: i tre fratelli sono tre cavalieri del lavoro, sempre dediti alla sana attività imprenditoriale e agiscono sempre, seppur spregiudicatamente, col fine del sano e meritato accumulo di capitale. Nella seconda parte invece i toni sono decisamente diversi, prima la crisi del 1929, dove la regola del tbtf (too big to fail) salva la Lehman, e poi la definitiva trasformazione in banca d’affari finanziaria sanciscono la fine di quel sano capitalismo dei tre fratelli fondatori (oramai morti ma sempre presenti con riguardo all’attività) e l’inizio dell’era della speculazione azionaria, un’attività, a detta di alcuni, tra cui l’autore dell’opera, non legata all’economia reale ma al mondo finanziario, malvagio e spietato. Di qui parte la solita, vista e stra sentita, critica alla finanza, troppo lontana dall’economia reale, d’altronde s’investono soldi astratti tirati fuori dal cappello magico, che non hanno nulla a che fare con il lavoro “reale”, e troppo vicina ad un mondo astratto, senza spazio nè tempo, dove si scambiano oggetti magici ignoti tipo i derivati, che non sono titoli cui prezzo replica quello di un sottostante del mondo reale appunto. No, è magia. Si arriva alla fine al 2008, dove il tbtf non funziona, perché questa volta il mercato non fa sconti. A chi va computato il clamoroso bang della Lehman? Alla seconda generazione dei migranti (greci e ungheresi, che in scena vengono raffigurati come veri e propri mostri), che vedono nelle sale trading i cavalli del successo e nella speculazione finanziaria il loro unico obiettivo, arrivisti. Emblematica è la penultima scena dello spettacolo dove il capo della divisione trading, un ungherese, forte dei successi ottenuti, scavalca il presidente della banca, non più un Lehman bensì un greco, e sancisce la definitiva trasformazione della banca, portandola infine al fallimento. Finisce tutto ovviamente in tragedia con il più grande fallimento che la storia economica americana abbia mai visto. Poi quel che è successo in seguito lo sapete.

Per quanto riguarda invece gli aspetti teatrali della vicenda: interessantissimo è il fatto che noi spettatori, fin dal primo momento dello spettacolo, sappiamo che quello che ci verrà raccontato è la storia di un fallimento, la storia di qualcosa che è andato male. Non si parte però, come nei Buddenbrock di Thomas Mann, con una scena di fasti e splendori di una famiglia, come ad indicarci che il massimo splendore è quello li e che da li inizia una lunga ed inesorabile discesa. Si parte con l’arrivo al pier 9 di NewYork City di un ragazzo, Henry Lehman, che racconta un po’ di sé e della nuova avventura che sta per intraprendere. L’intero spettacolo dunque è una parabola, se vogliamo. Si parte da zero. Si finisce a zero (a dire il vero si finisce con più di 600 miliardi indebiti, però dai son solo numeri).
Sono davvero rimasto coinvolto e attaccato allo svolgersi delle vicende per tutte le 5 ore dispettacolo. Il ritmo della narrazione non è lineare ma segue i più importanti eventi della storia imprenditoriale di questa famiglia. In certe parti dunque ci si focalizza molto dunque su aspetti della vita privata dei singoli personaggi e in altre invece si prosegue con la saga imprenditoriale. In certe parti il ritmo è vertiginoso e gli eventi si susseguono lasciando lo spettatore basito e sgomento: fantastica e quasi thriller è la scena rappresentante la mattina di quel 24 ottobre del 1929, il Giovedi Nero per intenderci, dove gli spari di pistola dei brokers suicidi di prima mattina s’intrecciano con i cavalli da corsa all’ippodromo. Sì, decisamente bella. Allo stesso tempo però ci sono parti in cui la narrazione rallenta lasciando lo spettatore libero di rifiatare e di carburare quanto appena visto. Vi sono poi durante tutto lo spettacolo “assoli” da parte dei 5 attori principali, i tre fratelli fondatori e i loro discendenti. Pensate ad un piano concerto di Mozart o di Beethoven. Cosi come nel piano concerto la voce principale, il pianoforte, conduce la sinfonia e l’orchestra accompagna sostenendo il piano dandogli modo di rifiatare; allo stesso modo durante lo spettacolo si susseguono scene in cui a turno, uno dei 5 attori principali, tiene banco in scena dando libero sfogo alle proprie bravure recitative però in scena non è solo, vi sono anche altri personaggi. Grazie a queste parti, lo spettatore riesce ad apprezzare la bravura del cast. Non so se sono io che sono un sempliciotto o la scena che era particolarmente ben architettata, ma ho trovato questi momenti avvincenti, sicuramente le parti più meritevoli dell’opera.

Interessante infine la concezione di mercato dell’autore. Davanti a Wall Street tutte le mattine un equilibrista (l’imprenditore) va avanti e indietro per una corda (il mercato)lunga e sottile, l’equilibrista deve stare attento però a rimanere sempre in equilibrio e a saper capire quando la corda sta per finire per poter invertire la direzione. Quando quell’equilibrista il Giovedi Nero cade, viene rimpiazzato dal figlio, di cui non si sa nulla se non un piccolo accenno, non penso però che sia rimasto in equilibrio il 15 Settembre 2008. Altro vi sarebbe da dire, ma non voglio tediarvi ulteriormente. Vi dico solo che lo spettacolo verrà ripreso, a Maggio, dato il grande successo. Affrettatevi a comprare i biglietti. Il mercato non aspetta e soprattutto non fa sconti.

Foto scattata il 22 febbraio prima dell’inizio dello spettacolo Lehman Trilogy durante il discorso commemorativo per il regista Luca Ronconi.

Sebastiano Totta

– Un ringraziamento speciale alla cara amica Livia, senza la quale non avrei mai visto questo magnifico spettacolo.

Pubblicità

La Grecia e la lotta di classe europea

Thanos Anastopoulos ce ne aveva parlato anni fa, raccontandoci con poetica e indignata rassegnazione le impossibili condizioni di vita della popolazione greca.
Regista colto e raffinato, nel 2013 ha infatti presentato al Berlin International Film Festival la commovente storia di Myrto, una ragazzina di 14 anni pronta a rapire il figlio di un locale banchiere in un disperato ed ingenuo tentativo di salvare la falegnameria paterna strozzata dai debiti; una trama che per soggetto e intensità drammatica si pone come termine medio tra il realistico ma scanzonato La gang della spider rossa e l’esagerazione grottesca di Io non ho paura, ma che sopratutto leva un alto grido di dolore sull’attualità greca con l’acutezza che solo l’arte engagé può dimostrare.
H ΚόρηLa figlia, questo il titolo del lungometraggio che abbandona lo stile astratto e sognante del primo Anastopoulos in favore di quello che è stato giustamente affiancato al realismo sociale della British New Wave cinematografica degli anni ’50 e che negli intenti mi spingerei a paragonare perfino alla potenza figurativa di artisti come Käthe Kollwitz, George Grosz o Otto Dix.
Anche loro infatti, pur nel diverso contesto della Germania degli anni ’20, intendevano denunciare uno stato di cose, piegarsi al quale sarebbe stato moralmente inaccettabile: un’oppressione a cui rispondere, sulle macerie della Grande Guerra, con l’ennesimo conflitto. Non più una lotta tra Stati, ma di classe.

A ben guardare possiamo trovare più d’una somiglianza tra quella realtà storica e il panorama attuale. Infatti, sebbene abbia cause economiche del tutto differenti, ciò che oggi succede in Grecia ha gli stessi effetti sociali descritti dai testi di storia in riferimento alla Repubblica di Weimar. Siamo di fronte all’inasprimento di una “guerra tra poveri” che vede contrapporsi disperati ad altri disperati nel vano tentativo di restare a galla senza annegare nei debiti, esattamente quello che succede nella verosimile finzione cinematografica immaginata da Anastopoulos. Se allora i colpevoli del clima di tensione erano gli industriali arricchiti dalle commesse di guerra, oggi la responsabilità della difficile situazione greca va addossata in toto al governo Samaras, che dal 2012 ha portato avanti un piano di austerity intransigente e cieca utile all’esigua élite di censo a discapito della maggioranza della popolazione. Il che, nella culla della democrazia occidentale, è molto triste a maggior ragione perché avallato dai piani economici europei promossi in primo luogo dalla Germania, totalmente dimentica del suo stesso passato.

Eppure qualcosa sta cambiando: la vittoria di Tsipras alle elezioni anticipate di ieri, netta anche se non ha ottenuto la maggioranza assoluta, dimostra la volontà del popolo ellenico di modificare la rotta in senso egualitario. Il che, inevitabilmente, collide con le posizioni della Troika; quella greca è dunque una scelta anti-europea?

IMG_3381

Le cose non vanno esattamente così

A costo di utilizzare un linguaggio politico antiquato, risponderò così: “Non diciamo corbellerie“.
E mi sento anche di aggiungere: “Non c’è alcuna guerra tra Stati ricchi e Stati poveri all’interno dell’Unione. L’unico elemento disgregante è semmai la differenza di classe, che ha raggiunto anche in Europa livelli preoccupanti”. Un’evidenza che purtroppo possiamo verificare semplicemente uscendo di casa.
Ma per i più scettici c’è un’ulteriore conferma di questo punto, chiarito efficacemente dal quantitative easing della BCE, meglio conosciuto come “il bazooka di Mario Draghi”. Una chiara dichiarazione di intenti che a prescindere dall’efficacia della manovra riconosce come il più grande problema dell’Eurozona sia l’assenza di una diffusa crescita economica; da qui deriva la pericolosa concentrazione della poca ricchezza prodotta ad oggi e lo sproporzionato aumento della forbice sociale, problemi a cui è assolutamente necessario porre rimedio, come sta avvenendo sia in Grecia sia nei caveau della Banca centrale.

E in Italia? Per come la vedo io non possiamo che imboccare la strada indicata dalla Grecia, ancora una volta culla di democrazia, evitando i pericolosi tranelli dei populismi e degli estremismi fascisti. Loro con Pasok e Alba Dorata ci sono riusciti, noi ce la faremo con Renzi e Salveeenee?

Giulio Bellotto