Big eyes

Keen eyes, o dell’Alzheimer

– Questo articolo è una replica a Small eyes – Walter Keane e l’arte contemporanea

Il problema dell’influenza delle figure di potere all’interno della storia dell’arte è effettivamente una questione annosa e a renderla ancora più macroscopica vi è quel mutamento radicale di rotta causato dalle avanguardie storiche e da Duchamp. L’estetica ha dovuto così modificare e ampliare le sue domande nei confronti dell’oggetto arte. Lo spettatore contemporaneo, quindi, può trovarsi oggi davanti ad una tela (sempre che essa vi sia) con una semplice linea, non più ad un profluvio ragionato e minuzioso di colori e figure, effettivamente più assimilabile e immediatamente apprezzabile. Questa enigmaticità dell’opera contemporanea porta il soggetto, che non riesce più a cogliere in modo immediato l’essenza dell’opera, a formulare il più il delle volte un’ipotesi.

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L’acuto sguardo di Munari sul mondo dell’arte

Essa, nelle occasioni più meste è quella facile del complotto perpetrato da galleristi, mercanti, e media che sfocia spesso poi nelle solite frasi perentorie e qualunquiste “questa non è arte” e “questo lo so fare anch’io”, alle quali a suo tempo aveva risposto un magnifico Bruno Munari. Ora, non nego che negli ultimi anni, come peraltro anche in quelli più antichi, fenomeni di questo tipo si siano verificati – basti pensare a quell’enorme manipolazione estetica che è stata la Transavanguardia di ABO, sorta non per altro nei “terribili anni ’80”, o a un Jeff Koons che prima di affacciarsi al mondo dell’arte aveva, in qualche modo, sondato il terreno lavorando per anni a Wall Street – ma la cosa che più rischia di fuorviare e di minare la nostra capacità cognitiva è un atteggiamento manicheo e generalista di questo tipo che tende a stigmatizzare la questione con dogmi pressapochisti.

La questione del potente e della sua influenza nell’arte, dicevo, è antica e se vogliamo semplificare, potremmo dire che vi è stato uno spostamento del suo fine, che, se in un primo momento era la gloria, in un secondo, dall’avvento di quella che è un’epoca più dichiaratamente capitalista, è il profitto. Ma in realtà i due concetti sono strettamente collegati e irrimediabilmente affini. Un tempo il potente erano i papi, gli imperatori, i signori, ma nella storiografia si usa il termine “mecenati”.  Nel ‘500 Tiziano era conteso tra la Serenissima Repubblica di Venezia, papa Paolo III, i vari signori locali, e niente meno che Carlo V, il quale aveva un impero talmente esteso che si suole definirlo “L’imperatore sul cui regno non tramontava mai il sole”, (poi peraltro anche da re Filippo II di Spagna, suo figlio). Lo stesso Tiziano aveva addirittura quello che potremmo chiamare un agente ante litteram che si occupava di pubbliche relazioni, Pietro Aretino, acuto e subdolo poeta che tramite lettere inghirlandate riusciva a richiamare l’attenzione dei potenti sul suo amico. Di  Michelangelo conosciamo tutti la fama, e come negare che avesse il “mondo dell’editoria” dalla sua parte, se Giorgio Vasari, forse primo storico dell’arte, lo inserisce con un ruolo preponderante, non per altro è l’unico artista vivente presente nell’opera, nelle sue Vite, che avevano lo scopo, nemmeno troppo celato, di glorificare la scuola fiorentina.

Compiendo un salto temporale fino al ‘900 ci rendiamo conto che molte cose cambiano, ma che la necessità di accattivarsi il gallerista, l’editorialista e il pubblico permangono. I futuristi con le celebri serate o le scazzottate nei caffè, con la pubblicazione massiccia di manifesti su giornali italiani ed europei impongono tramite questo eccentricità e narcisismo, il loro punto di vista, così i dadaisti al Cabaret Voltaire, da dove lanciano la loro provocazione. Frida Kahlo avrebbe raggiunto la notorietà, assolutamente dovuta, se non si fosse sposata Diego Rivera, il principale dei muralisti messicani, o se non avesse intessuto rapporti intimi con Andrè Breton, teorico del surrealismo? Piero Manzoni e la sua rivoluzione sono indissolubilmente legati alla provocazione della sua “merda d’artista”, così come l’affermazione di Warhol e della sua estetica alla Factory, alle feste, alle relazioni, alla mondanità e alla trasgressione.
Fresco di lettura di un articolo incontrato su un quotidiano  – dove si afferma che la Germania sembra avere la “memoria corta”, di essersi cioè dimenticata le volte in cui, nella storia recente, gli stati vincitori le avevano concesso un ridimensionamento o addirittura l’abolizione del debito da lei accumulato (ad es. nel 1953 e nel 1990), in relazione alla severità e inflessibilità odierna verso la Grecia – mi sento di poter dire che qualcuno dimostra di essere altrettanto smemorato, quando addirittura non si verificano casi di vero e proprio Alzheimer,  nel campo artistico. Con tutto ciò che l’arte ha sempre significato ed è sempre riuscita a trasmettere mi sembra impossibile che ciò al quale stiamo assistendo sia il ripetersi della storia come farsa, proprio perché la prima non fu tragedia.

Bernardo Follini

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Canaday: un critico senza bloggo

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Terrence Stamp in Big eyes, nel ruolo di John Canaday

The smell of money è un romanzetto che racconta un intrigo nel mondo dell’arte dalla particolare prospettiva del giovane pittore Bill, con toni arguti ed atmosfere raffinate. Nulla di che, in definitiva.
Se questo giallo di poche pretese ha un mercato oltre le bancarelle “Tutto a un euro”, tanto da venire specificamente ricercato in rete tra decine di crime novels anni ’40 esattamente identiche per pregio narrativo e spessore letterario, la ragione è una sola: Matthew Head ne è l’autore.
Dietro questo pseudonimo si nasconde infatti il nome più noto del critico d’arte americano John Canaday (1907-1985), recentemente portato sul grande schermo dalle fattezze aguzze di Terence Stamp nel film Big eyes di Tim Burton – come abbiamo già visto, una pellicola pregna di riflessioni interessanti.

Siamo dunque di fronte ad un divertissement letterario, lo svago romanzesco di una penna che per diciassette anni è stata la colonna della rubrica d’arte del New York Times. Dal 1959 al 1976 la firma di Canaday ha avuto il potere di far nascere e declinare il mito di questo o quell’artista, favorire o ostacolare le carriere di pittori, scultori e movimenti. Non era certo condiscendente né timido, la sua posizione non glielo avrebbe permesso: il suo primo articolo, datato 6 settembre, appena pochi giorni dopo la sua nomina, scosse tutto il mondo dell’arte per la violenza con cui contestava le fila dell’Espressionismo Astratto, corrente simbolo dell’America di quegli anni, accusata di fondarsi su “incompetence and deception”, disvalori “che circondano questi artisti seri e talentuosi”. Inutile dire che si fece parecchi nemici e fu una delle persone più odiate nel mondo dell’arte fino a quando non si ritirò dalla professione per assecondare il suo estro letterario.
Eppure non credo che Big eyes gli renda giustizia quando lo ritrae un po’ altezzoso e un po’ incontentabile, sempre e comunque decisamente arcigno nelle sue stroncature dei Keane, i protagonisti del film.
La figura del giornalista (e con lui tutta la sua categoria) viene ridotta ad una caricatura, una sorta di versione in carne ed ossa del critico gastronomico represso Anton Ego, personaggio del film d’animazione Disney Ratatouille. Anche le citazioni proposte con eloquenti primi piani del volto severo di Stamp in dolcevita lo confermano: questi imbrattacarte sono dei raffinati rompipalle il cui compito principale consiste nel denigrare ciò che piace alla gente.

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Il vero John Canaday

Però nella realtà storica John Canaday non era un vecchio hipster ante-litteram; è stato invece un personaggio di spicco nel panorama artistico americano tra gli anni sessanta e settanta dello scorso secolo. In un periodo in cui gli Usa oscuravano il mondo con la loro ombra, proponendo il loro modello tanto insistentemente in qualsiasi ambito che ogni manifestazione sociale, economica e culturale non poteva che essere “americana” o “anti-americana” tout court, Canaday è stato consapevole dell’importanza del suo lavoro e ha cercato di svolgerlo al meglio seguendo le proprie più radicate convinzioni, contribuendo così a traghettare la figura professionale del critico nel mondo capitalistico.
“Non è nulla più che arte decorativa, priva di ogni sostanza” mi sembra di sentirlo tuonare a proposito di Rothko, di cui disprezzò (o quantomeno deprezzò significativamente) l’approccio “less is more”. Personalmente, ritengo che quei quadri rappresentino invece l’approssimazione più vicina all’Assoluto estetico che uomo possa plasmare; due visioni diametralmente, direi quasi visceralmente, opposte. Eppure non devo scendere ad alcun compromesso per concordare con questa imparziale osservazione di Canaday: “l’arte di Rothko stimola una sorta di auto-ricezione nell’osservatore ma i suoi estimatori viziano questo considerevole potere ponendo l’attenzione sui suoi limiti” laddove l’essenza dell’opera non può che trascendere la materia per diventare molto semplicemente, Colore.

Ecco chi era l’alter ego di Mattehw Head. Una persona intelligente, conscia delle responsabilità che la pubblicazione a mezzo stampa di un’opinione porta con sé, capace com’è di influenzare profondamente il pubblico – ciò succedeva quando per seguito e credibilità la stampa era ancora degna di questo nome.
In due parola, era onesto cioè proteso alla comprensione e interpretazione dell’arte più che alla sua categorizzazione in “bello”, “brutto”, “accettabile” e “indecente”. Sul suo essere conservatore, talvolta persino reazionario, bisogna considerare l’influenza dall’epoca in cui era nato; la passione per i classici, Rubens, Dalì e i Fauves; gli studi nella tradizionalista Yale; l’esperienza nei Marines durante la seconda guerra mondiale. In ogni caso queste contingenze non gli hanno impedito di sviluppare alcune posizioni profondamente moderne, o quantomeno molto applicabili all’attuale stato dell’arte.

Infatti al di là dell’opposizione alla New York School, la crociata per cui Canaday è conosciuto (perduta esattamente come le Crociate storiche), il critico ebbe sempre un grande rispetto per l’artista in quanto lavoratore.
Forse perché in lui rimase indelebilmente nitida la memoria di quanto la Work Projects Administration, agenzia governativa creata durante il New Deal, fece all’epoca della Depressione in favore degli artisti americani, “degli esseri umani impegnati in un’occupazione legittima”. Un sostegno che non era elemosina e sussidi, ma la giusta retribuzione per un lavoro ritenuto importante e degno di essere salvaguardato, al pari dell’industria (che comunque, ad oggi neanche quella è tanto ben messa).
Mentalità d’altri tempi – che però mi ricorda tante discussioni con coetanei alla ricerca di un impiego in campo artistico che sia riconosciuto economicamente e quindi socialmente. In questo la funzione di critico è preminente: impedire che la società si addormenti poggiando sul suo stesso addome, fare in modo che veda non solo la bellezza ma anche la sua utilità.
Canaday non vedeva la grande arte come il lavoro di filosofi stoici e intellettuali, ma di gente che lavora duro e che si guadagna da vivere col lavoro della mente. E con pennelli e tele, come è sacrosanto che sia.

Giulio Bellotto

Small eyes – Walter Keane e l’arte contemporanea

Margareth e Walter Keane dipingono nel loro atelier - 1957

Margareth e Walter Keane dipingono nel loro atelier – 1957

Ho appena finito di vedere Big Eyes, l’ultimo film di Tim Burton sulla pioniera del Pop Surrealism americano Margaret Keane; scruto con lo sguardo le altre persone in sala e cerco di intuire sui loro volti un sorriso o qualche altro segnale della seduzione del cinema. Al cinema le cose si capiscono sempre meglio.
Ho notato che noi tutti abbiamo gli occhi molto più piccoli di quel che potrebbero essere.

Non voglio parlare del Tim Burton regista e nemmeno dell’arte della Keane; di teoria e di critica nei loro confronti se ne trova già moltissima. – qui la recensione del film
Però voglio fare una precisazione. Io sono solo un giovane critico d’arte contemporanea e Big Eyes, nonostante le apparenze – oltre alla realtà storica e al delicato surrealismo con cui Burton la racconta – di sicuro ci vuole narrare qualcosa che accade ancora fortissimamente a tutt’oggi nel sistema dell’arte contemporanea.
Un sistema di cui è emblematico il personaggio del marito di Margaret, l’abile uomo d’affari ed eccellente comunicatore Walter Keane: egli riesce a impadronirsi non solo dei diritti del lavoro intimo e creativo della moglie ma addirittura ad impossessarsi di una merce ancora più preziosa, la sua identità umana. Del resto, bisogna considerare che probabilmente senza l’operato subdolo del marito noi oggi non conosceremmo l’artista Margaret; ma questo può giustificare l’operato di Walter?

E’ bene rendersi conto che l’immaginario comune riguardo l’artista non equivale quasi mai alla realtà dei fatti, soprattutto per quanto concerne l’arte moderna e contemporanea. Chi sono questi artisti contemporanei? Esseri timidi e sensibili? Dei ribelli dannati? O forse degli abili e intelligentissimi professionisti del settore che, invece di vendere pentole, si dichiarano artisti tutto d’un tratto, magari perché hanno letto due libri sull’argomento?
Certamente non è così facile stabilire chi e quanti, ma sono sicuro che la maggior parte degli artisti contemporanei riconosciuti hanno più tratti in comune con Walter che non con Margaret.
Oggi si può tranquillamente affidare il lavoro manuale e artigianale a un altro, senza più il bisogno di sfruttare la vena artistica della propria consorte. Questa pratica, riconosciuta come una “operazione concettuale”, è accettata, persino incoraggiata e studiata nelle accademie di belle arti. Artisti ventenni, freschi di laurea, sentendosi in grado d’installare un semplice oggetto o qualsiasi altra esposizione in una delle tante biennali in giro per il mondo, si giustificano attraverso due parole banali, un articolo di giornale, o addirittura spiegando che lo faceva pure il grande Duchamp – tanto per sfruttare un format già esistito, e tra l’altro, vecchio di cent’anni.

In fondo non conta più nemmeno chi ha avuto per primo l’idea. L’importante è avere il mondo dell’editoria e dell’arte dalla tua parte. Se ce l’hai in pugno, quel mondo, puoi far oscurare chi vuoi. Puoi far credere quel che vuoi.
Oggi è facile essere artisti: devi essere furbo e se sei bravo a parlare è molto meglio. E se non sai parlare, sei ancora più cool, prova a fare il tenebroso taciturno.
Le pubbliche relazioni sono importanti: vai alla festa di quella galleria, vai a letto col critico, fai amicizia coi giornalisti, le riviste. Comportati come una puttana! Non arrenderti mai! Mettici sempre la faccia! Provaci! Provale tutte! Vai Walter! Vai…

Adesso anche chi non conosce il sistema dell’arte contemporanea ufficiale, avrà notato subito che l’impegno che si mette nell’attività mondana non lascia quasi spazio alla creatività e alla ricerca. E’ questa la verità.
Tutti quegli artisti introspettivi e silenziosi, che lavorano sodo solo per il piacere di farlo e non per una ricompensa in denaro e successo, hanno difficoltà maggiori a venir fuori. Complice anche la timidezza, la paura, la troppa sensibilità. Forse non si vestono appropriatamente – vi assicuro che io stesso ho sentito spesso fare questi discorsi. Ma soprattutto: non sanno vendersi, né parlare bene del proprio lavoro.

Come fare allora per aiutare tutte le altre Margaret Keane?
La storia dell’arte degli ultimi anni è ricca anche di vicende straordinarie, non dobbiamo dimenticarlo. Tocca a noi critici e studiosi volgere lo sguardo al di là dello sguardo comune. Aiutare il vero artista, spronarlo e caricarlo.
Dargli una voce, un microfono. Difenderlo.
Il nostro impegno quotidiano dovrà essere quello di indignarci per coloro che approfittano di un sistema malato e vecchio, e d’altro canto, quello di ricercare coloro che fanno della poesia la loro passione, che si sporcano le mani di pensieri e di emozioni, colore, creta, ferro, legno.
Diamo noi il buon esempio. I nostri occhi devono tornare a essere grandi.

Gabriele Arcangelo Esposito

Big eyes – è pur sempre Tim Burton, eppure..

Che il tocco magico di Tim Burton sia davvero svanito, non sta a me dirlo.
Ma gli ultimi suoi film hanno perso qualcosa, questo penso l’abbiano notato tutti.
Con Sweeney Todd, il regista aveva lasciato l’animazione musicale per tuffarsi nel musical recitato, riuscendo a creare ancora una volta, una atmosfera fantastica.
Poi, con Alice in Wonderland, Dark Shadows, Frankenweenie (anche se, devo ammettere, la prima mezz’ora era stupenda), Burton ha perso quota insieme alla sua lucida visionarietà, che non riesce a recuperare nemmeno con la sua ultima opera, Big Eyes.

Big eyes

La locandina del film, al cinema dal 1 gennaio

L’ambientazione nel secondo dopoguerra americano non è nuova ed è molto cara al regista: quello che resta probabilmente il suo miglior film, Edward mani di forbice, è ambientato in un contesto simile – lo stesso vale per Ed Wood.
La cornice c’è, manca però il dipinto e poiché si parla di arte, non è un difetto da poco: è come se mancasse proprio la principale e più personale connotazione del surreale regista.
Le situazioni stranianti che Burton crea restano sempre divertenti; non c’è che dire, l’autore è sempre riuscito a farci sorridere col suo umorismo stravagante. Ma il suo più importante registro è sempre stato quello della sensibilità, senza cadere mai nel banale o nel melodrammatico.
Questo registro sembra disperso.
Big Eyes ricorda piuttosto una di quelle commedie o fiction che si vedevano un tempo la domenica pomeriggio su Rete 4.
Il film narra una vicenda senza dubbio interessante: il successo (immeritato) di Walter Keane, che si è in realtà appropriato delle opere della moglie Margareth sfruttando la sua insicurezza.
La pittrice impiegherà più di dieci anni per raccogliere il coraggio di emanciparsi dal brusco marito, riprendendosi ciò che a lei è più caro, la sua vita, oltre che la sua arte.

Protagonista indiscussa è una Amy Adams versione bionda, meglio inquadrata da Burton rispetto a quanto non abbia fatto David O’ Russel che qualche anno fa l’ha incoronata suo feticcio e musa. L’attrice non è più oggetto di una contemplazione registica adorante e assoluta come invece accade in film come American Hustle e The Fighter.
Invece Burton nasconde le imperfezioni della mezza età e ce la presenta nel modo a lei più confacente: una fatina dagli occhi blu (come l’avevamo vista in Come d’incanto, una delle sue prime apparizioni sul grande schermo), perfetta per il ruolo di donna timorata di Dio che non riesce a farsi spazio nella relazione con un uomo dall’ego molto più forte del suo.
La Adams è stata, per adesso, già premiata con il Golden Globe.
Ad affiancarla c’è Christoph Waltz, che, anche a detta della critica, risulta sotto tono nella recitazione.
A mio avviso sembra che invece sia fatto apposta per questa parte: rende benissimo il personaggio di Walter, squallido e fastidioso sin dal primo momento, tanto da non consentire allo spettatore di trovare in lui alcuna nota positiva. Riesce insomma ad essere odioso come già fu in Quella sporca dozzina di Tarantino.

Nel film, oltre alla figlia, ad aiutare la povera Margareth sono anche i Testimoni di Geova con cui la pittrice viene in contatto per caso, facendo entrare nella sua nuova residenza alle Hawaii due donne che stanno cercando proseliti – il porta a porta è un altro elemento ricorrente nei film di Burton, come per esempio in Edward mani di forbice.
Non è però chiaro quale ruolo il regista dia ai Testimoni di Geova: se si limiti solamente a narrare i fatti o se voglia, invece, mostrare come persone deboli e sole come Margaret possano essere risucchiate in ambienti e contesti, da cui poi non riescono ad uscire facilmente.

Alcuni grandi sognatori ed esteti del cinema col tempo hanno visto affievolire la propria vena creativa; è capitato ad Antonioni ed allo stesso Fellini, i quali, ad un certo punto della loro vicenda artistica, non hanno saputo rinnovarsi e hanno finito col produrre opere non più originali.
Lo stesso Wenders, forse accorgendosi che il suo tocco rischiava di non essere più lo stesso, è passato al documentario. A mio modo di vedere una scelta saggia.
Per quanto lo stile di Tim Burton sia ben diverso da quello degli autori appena citati (in realtà si tratta di uno stile effettivamente unico), l’impressione è che quel che il regista poteva e doveva dare all’arte cinematografica, lo abbia già dato.
E che ora rischi di inaridire la sua vena senza riuscire più a toccare più mete così alte come quelle dei suoi film degli anni ’90 e del primo decennio di questo secolo.
Ma sia chiaro: Edward mani di forbice è e resta uno dei più bei film di sempre!

Tommaso Frangini