Arte contemporanea

Daniel Buren e l’utensile visivo

Siamo nella già calda Napoli del 25 aprile, che proprio in concomitanza con la data storica e primigenia, offre ai suoi cittadini una parallela occasione liberatrice. Si tratta dell’intervento di Daniel Buren, “Come un gioco da bambini”, progettato ad hoc, o, per seguire la formula da lui stesso coniata, in situ, per la sala Re_PUBBLICA MADRE, al piano terra del Museo Madre di Napoli.

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Nata dalla collaborazione tra l’artista francese e l’architetto Patrick Bouchain, il progetto è uno spazio ludico, finalizzato alla celebrazione della “relazione tra il museo e il suo pubblico, tra l’istituzione e la sua comunità”, costituito dall’assemblaggio di un centinaio di moduli di forme geometriche, dai colori differenti ispirati ai giochi artigianali di Friedrich Fröbel. Il pedagogo tedesco aveva studiato le potenzialità conoscitive del gioco, individuando nella scoperta comunitaria della realtà l’affinamento di diverse facoltà quali la percezione, la capacità espressiva, il riconoscimento tattile, l’idea di costruzione e decostruzione. Per raggiungere questo fine, Fröbel, progettò il Kindergarten, il “Giardino dell’infanzia”, dove i bambini erano lasciati liberi di esprimersi attraverso la conoscenza ludica, e affidati a maestre-giardiniere che dovevano occuparsi della loro crescita. Parlando proprio del rapporto tra l’arte e la creatività dei bambini, Buren afferma:

“Spesso si indica qualcosa facile da fare con l’espressione ‘è un gioco da bambini’, come se non valesse nulla. A me l’idea di realizzare cose che saprebbero fare i bambini piace. Lo dicono anche alcune opere di Picasso, Pollock, Matisse. La cosa che non dicono è che i bambini tra i due e i nove anni sono artisti bravissimi, dipingono, disegnano, sono magnifici e allo stesso tempo rendono la creazione facile. Rendono naturale l’estremamente complesso. Un artista, per arrivare a questo livello, spesso impiega 40 anni di lavoro.”

Affrontando la percezione dello spazio, Buren, crea una profonda riflessione empirica, ma al tempo stesso, un divertissement sull’Arte Contemporanea. La stessa arte che, come si dice, può essere fatta da tutti, in questo caso potrebbe essere fatta anche da un bambino. Nella città in miniatura progettata da Buren i volumi colorati e i cubi forati al centro, rivestiti da ipnotici cerchi a righe larghe 8,7 cm (sua vera firma) in bianco e nero, “modificano la nostra risposta agli oggetti” in quanto la nostra retina elabora in modo differente strutture che hanno la medesima forma e grandezza. Entrando nel mondo di “Come un gioco da bambini”, si è colti da una qualche forza metafisica che rende lo spettatore consapevole della scardinante potenza della semplicità cromatica e strutturale; lo stesso Buren sostiene, infatti, che “il colore è pensiero puro e quindi inesprimibile, altrettanto astratto come una formula matematica o un concetto filosofico”. L’intervento rappresenta il primo di una serie di progetti che legheranno Buren al Museo Madre di Napoli, e sarà visitabile fino al 31 agosto. L’intervento nella sala Re_PUBBLICA MADRE fa parte di un percorso personale dell’artista, che ha elaborato a fine 1967 la nozione di opera in situ, dando fondamento teorico alla salda interrelazione tra quelli che sono i suoi interventi e i luoghi in cui sono esposti (che siano istituzionali o urbani).

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Galleria Apollinaire di Milano, 1968

Le opere di Buren, quindi, fin dagli anni ’60 invadono le strade e gli spazi pubblici, partendo da pratiche strettamente situazioniste, e inserendosi in quella riflessione storica degli artisti specifica degli anni ’60 e ’70, nota come institutional critique. I suoi lavori hanno sfidato la nozione di “installazione” che Buren ha definito come “vetrina dove tutto è fatto con finalità commerciali per allettare il passante curioso” e “messa in scena temporanea per la vendita di oggetti eterogenei o no la cui caratteristica principale, perlomeno, paradossale, è di non avere nulla a che fare con la problematica del luogo”. Il carattere polemico lo ha d’altronde accompagnato per tutta la vita, fin da quando nel 1972 Harald Szeemann accettò di pubblicare un suo articolo critico sul catalogo di Documenta 5, all’interno del quale Buren lamentava il ruolo marginale dell’artista puntando il dito contro la figura del curatore, affermando perentoriamente la sua visione della quinta manifestazione internazionale di Kassel: “L’esposizione s’impone come soggetto autonomo ed essa stessa si sostituisce all’opera d’arte”. Importanza centrale nella riflessione artistica del francese è la cosiddetta “estinzione” dello studio, l’abbandono dell’atelier, visto come luogo “nocivo e contraddittorio”, in favore di una più moderna condizione di nomadismo. Dalla fine del ’66, inizia a stampare su stoffa da tende e carta fasce verticali larghe 8,7 cm ciascuna, bianche e colorate, affini alla “piccola prigione spagnola” di Motherwell, applicandole nei luoghi più disparati, dai musei ai cartelloni pubblicitari nelle strade, e, quando riportate su tela, vi aggiunge una stesura di bianco ai lati, come ironica certificazione del carattere artigianale. Nel 1968 in occasione del Salon de Mai agisce sia all’interno sia all’esterno del Musée d’Art Moderne de La Ville de Paris, rivestendo una parete del museo con carta a strisce  bianche e verdi, e facendo circolare due uomini sandwich per le vie della città mentre esibiscono sui loro cartelloni non pubblicità, ma la stessa carta rigata. Così facendo, servendosi della dèrive situazionista, Buren focalizza la sua riflessione sulla separazione tra arte e quotidianità, con la sua provocazione itinerante, ma, al tempo stesso, gioca paradossalmente con la pubblicità museale. Lo stesso marzo tappezza gli spazi di pubblica affissione di tutta la città con la sua carta a righe di 8,7 cm. Sempre nel 1968 ha la sua prima personale alla Galleria Apollinaire di Milano dove blocca l’unico ingresso riempendo la porta d’accesso con le sue fasce bianche e verdi. Le righe di Buren, che nella loro realizzazione industriale, e quindi oggettiva e impersonale, mettono all’ordine del giorno la questione dei limiti della pittura, mostrano il desiderio che l’opera non parli o rappresenti il reale, ma sia il reale. Con estrema consapevolezza e lucidità teorica Buren definisce le sue righe come “utensili visivi”, segnali che siano in grado di richiamare e focalizzare l’attenzione dello spettatore su ciò che l’artista ritiene giusto e importante sottolineare o evidenziare. L’errore risiede nel concepire le stesse fasce colorate come lavoro in sé dell’artista, e non all’interno di una visione molto più ampia, percettiva e critica. Dagli anni ’80 si moltiplicano i suoi interventi architettonici in spazi pubblici come “Les Deux Plateaux” al Palais-Royal di Parigi nel 1986 – lo stesso anno in cui vince il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia –, l’intervento al Parco Archeologico di Scolacium, in provincia di Catanzaro o privati come “Muri Fontane a 3 colori per un esagono” alla Villa Medicea la Magia.

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Les Deux Plateaux” al Palais-Royal di Parigi

Grazie alla sua carriera monumentale, Buren è un artista che ci insegna non solo una nuova idea di opera, sorta dalla contestualizzazione, dal suo essere e vivere per un momento limitato in uno spazio e un tempo ben preciso, ma anche come guardare un’opera. Egli ci indica e ci far soffermare su quello che abbiamo. Una visione che poggi su salde basi teoriche e sull’idea dell’artista come indipendente oppositore, lo ha condotto verso il superamento e la neutralizzazione del contenuto puramente illusionistico della pittura. La sua arte, staccandosi dal chiodo della parete del museo, inonda le strade, i vicoli, l’estetica umana e urbana, nella sua quotidianità e banalità, e ci riconsegna il dono di apprezzare la complessità del semplice.

Bernardo  Follini

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Small eyes – Walter Keane e l’arte contemporanea

Margareth e Walter Keane dipingono nel loro atelier - 1957

Margareth e Walter Keane dipingono nel loro atelier – 1957

Ho appena finito di vedere Big Eyes, l’ultimo film di Tim Burton sulla pioniera del Pop Surrealism americano Margaret Keane; scruto con lo sguardo le altre persone in sala e cerco di intuire sui loro volti un sorriso o qualche altro segnale della seduzione del cinema. Al cinema le cose si capiscono sempre meglio.
Ho notato che noi tutti abbiamo gli occhi molto più piccoli di quel che potrebbero essere.

Non voglio parlare del Tim Burton regista e nemmeno dell’arte della Keane; di teoria e di critica nei loro confronti se ne trova già moltissima. – qui la recensione del film
Però voglio fare una precisazione. Io sono solo un giovane critico d’arte contemporanea e Big Eyes, nonostante le apparenze – oltre alla realtà storica e al delicato surrealismo con cui Burton la racconta – di sicuro ci vuole narrare qualcosa che accade ancora fortissimamente a tutt’oggi nel sistema dell’arte contemporanea.
Un sistema di cui è emblematico il personaggio del marito di Margaret, l’abile uomo d’affari ed eccellente comunicatore Walter Keane: egli riesce a impadronirsi non solo dei diritti del lavoro intimo e creativo della moglie ma addirittura ad impossessarsi di una merce ancora più preziosa, la sua identità umana. Del resto, bisogna considerare che probabilmente senza l’operato subdolo del marito noi oggi non conosceremmo l’artista Margaret; ma questo può giustificare l’operato di Walter?

E’ bene rendersi conto che l’immaginario comune riguardo l’artista non equivale quasi mai alla realtà dei fatti, soprattutto per quanto concerne l’arte moderna e contemporanea. Chi sono questi artisti contemporanei? Esseri timidi e sensibili? Dei ribelli dannati? O forse degli abili e intelligentissimi professionisti del settore che, invece di vendere pentole, si dichiarano artisti tutto d’un tratto, magari perché hanno letto due libri sull’argomento?
Certamente non è così facile stabilire chi e quanti, ma sono sicuro che la maggior parte degli artisti contemporanei riconosciuti hanno più tratti in comune con Walter che non con Margaret.
Oggi si può tranquillamente affidare il lavoro manuale e artigianale a un altro, senza più il bisogno di sfruttare la vena artistica della propria consorte. Questa pratica, riconosciuta come una “operazione concettuale”, è accettata, persino incoraggiata e studiata nelle accademie di belle arti. Artisti ventenni, freschi di laurea, sentendosi in grado d’installare un semplice oggetto o qualsiasi altra esposizione in una delle tante biennali in giro per il mondo, si giustificano attraverso due parole banali, un articolo di giornale, o addirittura spiegando che lo faceva pure il grande Duchamp – tanto per sfruttare un format già esistito, e tra l’altro, vecchio di cent’anni.

In fondo non conta più nemmeno chi ha avuto per primo l’idea. L’importante è avere il mondo dell’editoria e dell’arte dalla tua parte. Se ce l’hai in pugno, quel mondo, puoi far oscurare chi vuoi. Puoi far credere quel che vuoi.
Oggi è facile essere artisti: devi essere furbo e se sei bravo a parlare è molto meglio. E se non sai parlare, sei ancora più cool, prova a fare il tenebroso taciturno.
Le pubbliche relazioni sono importanti: vai alla festa di quella galleria, vai a letto col critico, fai amicizia coi giornalisti, le riviste. Comportati come una puttana! Non arrenderti mai! Mettici sempre la faccia! Provaci! Provale tutte! Vai Walter! Vai…

Adesso anche chi non conosce il sistema dell’arte contemporanea ufficiale, avrà notato subito che l’impegno che si mette nell’attività mondana non lascia quasi spazio alla creatività e alla ricerca. E’ questa la verità.
Tutti quegli artisti introspettivi e silenziosi, che lavorano sodo solo per il piacere di farlo e non per una ricompensa in denaro e successo, hanno difficoltà maggiori a venir fuori. Complice anche la timidezza, la paura, la troppa sensibilità. Forse non si vestono appropriatamente – vi assicuro che io stesso ho sentito spesso fare questi discorsi. Ma soprattutto: non sanno vendersi, né parlare bene del proprio lavoro.

Come fare allora per aiutare tutte le altre Margaret Keane?
La storia dell’arte degli ultimi anni è ricca anche di vicende straordinarie, non dobbiamo dimenticarlo. Tocca a noi critici e studiosi volgere lo sguardo al di là dello sguardo comune. Aiutare il vero artista, spronarlo e caricarlo.
Dargli una voce, un microfono. Difenderlo.
Il nostro impegno quotidiano dovrà essere quello di indignarci per coloro che approfittano di un sistema malato e vecchio, e d’altro canto, quello di ricercare coloro che fanno della poesia la loro passione, che si sporcano le mani di pensieri e di emozioni, colore, creta, ferro, legno.
Diamo noi il buon esempio. I nostri occhi devono tornare a essere grandi.

Gabriele Arcangelo Esposito