arte

Invisibilia per visibilia, o l’estetica di Takis

Nell’VIII secolo all’interno dell’impero bizantino si situa la nascita dell’iconoclastia, quel movimento che vedeva nelle icone, nelle immagini sacre, il rischio per l’uomo di sfociare nell’idolatria e che quindi necessariamente andava imponendo un orientamento estetico. Esso non era unicamente una ventata di rigorismo antiartistico, ma una vera e propria polemica interna al mondo dell’arte. Adriano I, papa dal 772 al 795, seguendo le orme di Gregorio II e, prima di lui, di papa Gregorio Magno, operò in direzione di una rivalutazione teologica delle immagini, che aveva il suo principio nella formula gregoriana pictura quasi scriptura. Le immagini per Gregorio Magno, infatti, dovevano essere utilizzate dai fedeli come segni per ricordare i sacri misteri, divenendo così i libri degli illetterati. Papa Adriano I, partendo da questo punto, nella lettera diretta all’imperatrice Irene, parla di demonstrare invisibilia per visibilia, riuscire a trasmettere le cose invisibili, Dio, attraverso quelle terrene e quindi visibili.

Tentando un parallelismo quanto mai ardito e inconcludente, potrei affermare che: come gli anti-iconoclasti volevano, ai loro tempi, mostrare e dimostrare Dio e la sua energia invisibile ma presente, così in tempi più recenti un altro personaggio, storico, ma tuttora vivente, ha tentato di mostrare e dimostrare una forza invisibile, ma estremamente reale: si tratta di Panayotis Vassilakis, o, detto più semplicemente, di Takis.

Greco di nascita, ma parigino d’adozione, l’artista ha passato la sua intera carriera nel tentativo di catturare l’energia, quella forza a noi oramai sempre più necessaria, ma che non è mai direttamente visibile. In questa direzione egli ha agito concependo “l’opera d’arte come simbolo di energia”. Nel 1991, dopo un’ascesa riconosciuta e stimata in tutto il mondo, Takis riesce velocemente a racchiudere in una frase, in una piccola Bibbia, il suo credo artistico: “Come scultore non ho mai pensato in termini di estetica, di relazione con una forma, o in una chiave visiva. Ciò che mi ossessiona è il concetto di energia. I fenomeni naturali mi colpiscono.”

Il Palais de Tokyo di Parigi ha inaugurato il 18 febbraio una mostra che chiuderà il 17 maggio, volta a offrire una panoramica complessiva dell’artista greco che è stato negli ultimi anni ingiustamente oscurato e per certi versi dimenticato. Estremamente eclettico, Takis ha lavorato e espresso la sua poetica all’interno dei più disparati campi della fruizione estetica, dalla scultura alla musica, dall’installazione alla performance. Nato nel 1925 ad Atene, giunge nel 1954 a Parigi, dove trova terreno fertile per le sue sperimentazioni, fa la conoscenza di artisti come Jean Tinguely e Yves Klein, e stringe saldi rapporti con i membri della Beat Generation, come William Burroughs, Allen Ginsberg e Gregory Corso. È proprio col loro supporto che il 29 novembre 1960 Takis organizza alla Iris Clert Gallery di Parigi un evento che entrerà a far parte degli annali per la sua carica eversiva e stravagante.L’happening si intitola L’impossible, un homme dans l’espace. Il poeta beat Sinclair Beiles è sospeso per pochi secondi nello spazio – o perlomeno questo narra la leggenda – grazie ad un potente campo elettrico supportato da calamite progettate dallo stesso Takis. Beiles è munito di un casco per moto e rincuorato dalla presenza di una rete a lui sottostante nel caso l’esperimento non fosse funzionato. Durante il miracolo dell’artista, il poeta recita ai presenti, mentre è sospeso nello spazio, il Manifesto magnétique:

Io sono una scultura. Ci sono altre sculture come me. La più grande differenza è che loro non possono parlare. Quando alcune delle sculture provano a parlare esplodono. Causano la morte. Quando parlo di “Bomba” di Gregory Corso sto parlando di vita e morte e nessuno prova dolore […] Mi piacerebbe vedere tutte le bombe nucleari sulla terra trasformate in sculture.

Takis sarà così ricordato come colui che per primo spedì un uomo nello spazio, anticipando Jurij Gagarin e l’URSS di ben sei mesi.

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Come un Leonardo moderno, il greco diviene sinolo di arte e scienza, non solo inseguendo il sogno dell’uomo fluttuante nell’aria, ma rimanendo profondamente affascinato dalla “magia scientifica”, cercando di cogliere e imprigionare l’energia cosmica. Nella stessa direzione va il Mur magnétique – 4e dimension del 2004, l’installazione di un lungo pannello di color rosso sul quale è applicata una striscia ondulata in ferro. Lo spettatore è invitato a prendere in mano una delle bussole a disposizione e a passeggiare accostandola alla linea, verificando di persona la sua violenta perdita di orientamento imposta dalle forze magnetiche.

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Altra indagine è la serie che l’artista crea a partire dagli anni ’60, accostando cilindri metallici penzolanti dal soffitto a tele monocrome che nascondono magneti, lasciando sfiorare le due superficii a pochi centimetri di distanza.

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Nel 1955 è colpito da quella che definisce una “foresta” di segnali, alla stazione ferroviaria di Calais. Da questa esperienza prende l’avvio la serie di Signaux, aste verticali terminanti con elementi meccanici recuperati, volti al cielo, alcuni dei quali con luci. Nel 1988 allestisce una spianata di segnali, vera foresta metropolitana, a La Dèfense a Parigi, dove tutt’ora si trovano. Dall’esplorazione dell’energia dei campi magnetici deriva anche un’interesse per la musicalità da essi prodotta, e per l’aleatorietà, nella stessa direzione degli altri compositori d’avanguardia. Takis fuggendo l’arbitrarietà dell’artista, ricerca un’origine naturale del suono. I risultati sono estremamente innovativi tanto che nel dicembre 1966 la rivista New Scientist lo accosta a John Cage e Iannis Xenakis come i più promettenti musicisti del secolo.

D’altronde già nel 1962 Duchamp aveva colto con estrema lucidità e brio lo spirito e la missione dell’artista definendolo “gaio lavoratore dei campi magnetici e indicatore delle strade di ferro dolce”. Giunto quasi all’età di 90 anni, Takis continua la sua carriera di “sapiente intuitivo”, dopo aver combattuto durante tutta la sua vita per rendere accessibile e chiaro una delle infinite realtà che sembrano tanto astratte e vaghe, per rendere fruibile ciò che solitamente non è decodificabile nel nostro campo visivo e quindi – limitativamente – cognitivo. Con la sua arte ha mostrato il suo Dio, l’energia, i campi magnetici, enti metafisici e spesso estremamente misteriosi per noi, profani della scienza, ma che esistono ed agiscono. La leggerezza delle gravi sculture di Takis è proprio questa, il riuscire a cogliere e racchiudere una forza tanto estrema, ma, al tempo stesso, così impercettibile. Per visibilia invisibilia!

 Bernardo Follini

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Giselle, un classico sempre valido

Tra i balletti classici, Giselle sicuramente si posiziona tra i miei preferiti. Andato in scena per la prima volta nel 1841 a Parigi, il balletto è fin da subito entrato nell’immaginario collettivo come un capolavoro indiscusso dell’arte della danza. Le musiche sono di Adolph-Charles Adam, famosissimo compositore di musica per balletto francese. La coreografia invece è, ufficialmente di Jean Coralli, che si è occupato dei passi comuni, mentre invece, i passi di Giselle sono stati ideati dal Jules Perrot, amante della ballerina che per prima interpretò questo balletto Carlotta Grisi. Il libretto invece è di Theophile Gautier, romanziere francese, che trasse ispirazione per quest’opera dal libro di Heinrich Heine “De l’Allemagne”. Nel balletto vengono fuori cosi tanti aspetti legati al romanticismo da farne la bandiera del balletto classico romantico del 1800. In primis la sinossi. Molto brevemente: Giselle è una contadinella che si innamora di uno sconosciuto. Quando Giselle viene a sapere che il suo amato è in realtà un principe (principe Albrecht) già promesso sposo ad una principessa muore. Nel secondo atto Giselle, divenuta una willi, spiriti simili agli elfi, concede la grazia al suo principe salvandolo dalla punizione divina di dover ballare fino allo sfinimento, ballando con lui e aiutandolo. In secondi le musiche. Leggere ma allo stesso tempo profonde, come il tema centrale di Giselle. Non mancano momenti drammatici, ma la musicalità di base è quella di un’opera che seppur infelice, in termini di trama, lascia spazio alla bellezza e alla forza dell’amore.

Alla Scala va in scena proprio in questi giorni Giselle. La produzione è tradizionale, paesaggio fiabesco nel primo atto e cimitero paludoso nel secondo. Trattandosi dunque del balletto classico per eccellenza, sia per sinossi che per musiche che per coreografia, non vi è spazio per adattamenti moderni e costumi stravaganti. A differenza infatti di molti balletti, Giselle negli anni non è mai stata ritoccata e la originalità dell’opera rimane intaccata. La scena è pulita, le luci fiabesche e la direzione musicale del francese Patrick Fournillier giusta. Essendo dunque un’opera classica ben nota al mondo del balletto, Giselle è il palcoscenico ideale per la consacrazione di un ballerino. Dopo infatti le prime 5 rappresentazioni dove ad interpretare Giselle e il Principe Albrecht sono stati gli etoile Zakharova e Bolle, la coppia sublime del balletto dei nostri giorni, nelle altre rappresentazioni si sono alternati vari artisti di fama internazionale: Maria Eichwald, Natalia Osipova e Sergei Polunin, oltre che a Antonino Sutera, Lusmay Di Stefano e Claudio Coviello. Io ho avuto il piacere di vedere la coppia Eichwald-Coviello che proprio mi è piaciuta. Voglio però sottolineare anche la prestazione di Alessandra Vassallo nel ruolo di regina delle Willi: magnifica. Piacevole sia da vedere che da sentire, Giselle potrebbe essere una prima esperienza per chi al mondo del teatro e del balletto non è abituale. Per una breve parte della vostra giornata infatti, rimarreste incantati dalle musiche e dai passi del balletto che ha fatto la storia di quest’arte.

Sebastiano Totta

La Giornata internazionale del Teatro arriva anche in Italia

In una società che ha molte questioni complesse come la nostra, utilizzare gli spazi pubblici e comuni della città, non può vere come unico scopo l’intrattenimento del  pubblico. Vi è un imperativo morale per affrontare le questioni urgenti del nostro tempo, e di chiedere agli artisti di dedicarsi a questo.

Con queste parole Brett Bailey dichiarava, presentando il festival “Infecting the City Festival” di Città del Capo, l’intento spiccatamente sociale che il suo teatro aveva già nel 2008.

Oggi, 27 marzo 2015, si celebra la  Giornata Mondiale del Teatro, istituita a Vienna nel 1961 durante il IX Congresso mondiale dell’Istituto Internazionale del Teatro. La proposta veniva da Arvi Kivimaa del Centro Finlandese ma quest’edizione 2015 verrà patronato proprio dal sudafricano Bailey. Infatti si tratta di un’iniziativa internazionale che dal 27 marzo 1962 è celebrata dai Centri Nazionali dell’I.T.I. che esistono in un centinaio di paesi del mondo.

Ogni anno una personalità del mondo del teatro, ma non solo, è invitata a condividere le sue riflessioni nel “messaggio internazionale”. Jean Cocteau fu l’autore del primo messaggio internazionale nel 1962; per la Giornata Mondiale del Teatro 2014 – lo scorso 27 marzo – il messaggio è stato affidato a Brett Bailey, drammaturgo, designer, regista, curatore di festival e direttore artistico della compagnia Third World Bun Fight, riconfermato anche quest’anno nel compito.

Questo è il suo secondo messaggio internazionale:

Ovunque ci sia una società umana, lo spirito irrefrenabile del teatro si manifesta.

Sotto gli alberi nei piccoli villaggi, sui palchi tecnologicamente avanzati nelle  metropoli internazionali; nelle palestre scolastiche e nei campi e nei templi; nelle baraccopoli, nelle piazze, nei centri di quartiere e negli scantinati del centro città, le persone sono portate a condividere gli effimeri mondi del teatro che noi creiamo per esprimere la nostra complessità umana, la nostra diversità e la nostra vulnerabilità, con il corpo, il respiro e la voce .

Ci riuniamo per piangere e per ricordare, per ridere e per contemplare;  per imparare e affermare ed immaginare. Per meravigliarsi della destrezza tecnica, e per incarnare gli dèi . Per afferrare il nostro respiro collettivo e la nostra abilità nel produrre la bellezza e la compassione e la mostruosità. Veniamo per caricarci di energia ed essere più forti. Per celebrare la ricchezza delle nostre diverse culture  e per far dissolvere i confini che ci dividono.

Ovunque ci sia la società umana, lo Spirito irrefrenabile del teatro si manifesta. 

Nato dalla gente, indossa le maschere e i costumi delle nostre diverse tradizioni. Sfruttando le nostre lingue, i ritmi ed i gesti, il teatro libera uno spazio in mezzo a noi .

E noi, gli artisti che lavorano con questo antico spirito, ci sentiamo obbligati a canalizzarlo attraverso i nostri cuori, le nostre idee e i nostri corpi,  per rivelare le nostre realtà in tutta la loro mondanità e scintillante  mistero.

Ma, in questa epoca in cui tanti milioni di persone stanno lottando per sopravvivere, stanno soffrendo sotto regimi oppressivi ed un capitalismo predatorio, sono in fuga dai conflitti e dal disagio; un epoca in cui il nostro diritto alla riservatezza è invaso dai servizi segreti e le nostre parole sono censurate da governi invadenti, in cui le foreste vengono distrutte, le specie animali sterminate e gli oceani avvelenati: cosa ci sentiamo in dovere di rivelare?

In questo mondo dove il potere è distribuito in modo diseguale , in cui vari ordini egemonici cercano di convincerci che una nazione , una razza , un genere, un orientamento sessuale , una religione, una ideologia , una cornice culturale è superiore a tutte le altre, è davvero difendibile insistere sul fatto che le arti devono essere staccate dai programmi sociali?

Noi, gli artisti delle arene e dei palcoscenici, ci stiamo conformando alle sterilizzanti richieste del mercato  o stiamo prendendo il potere che abbiamo per aprire uno spazio nei cuori e nelle menti della società , per riunire le persone attorno a noi, per ispirare , incantare, informare, e  creare un mondo di speranza e di sincera collaborazione?

E in Italia? Quest’anno per la prima volta la Giornata mondiale del Teatro si festeggerà anche da noi con iniziative e spettacoli per tutto il Belpaese – i comuni più virutosi, come quello di Genova, propongono appuntamenti davvero interessanti, una sorta di mini-stagioni pensate per l’occasione.

Grazie al sostegno dell’Eti e di Agis, oggi molto palcoscenici saranno aperti, i biglietti gratuiti e scontatissimi e sono previste visite guidate, incontri con gli attori, il tutto per accendere i riflettori sul Teatro e porlo al centro dell’interesse della vita pubblica come sostiene Gianni Letta, Presidente del Comitato Scientifico Organizzatore. 

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D’altronde era assurdo che fin ora il Paese dove Eduardo De Filippo pronunciò la bella frase “Il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita”, ignorasse questo spunto di riflessione su una forma di espressione artistica fondamentale come il Teatro, sopratutto in un’epoca di spending review che non ha sminuito la voglia di cultura, spesso con il solo sostegno dello spettatore. 

Dunque a tutti voi, spettatori e attori, buona Giornata Mondiale!

Giulio Bellotto

Keen eyes, o dell’Alzheimer

– Questo articolo è una replica a Small eyes – Walter Keane e l’arte contemporanea

Il problema dell’influenza delle figure di potere all’interno della storia dell’arte è effettivamente una questione annosa e a renderla ancora più macroscopica vi è quel mutamento radicale di rotta causato dalle avanguardie storiche e da Duchamp. L’estetica ha dovuto così modificare e ampliare le sue domande nei confronti dell’oggetto arte. Lo spettatore contemporaneo, quindi, può trovarsi oggi davanti ad una tela (sempre che essa vi sia) con una semplice linea, non più ad un profluvio ragionato e minuzioso di colori e figure, effettivamente più assimilabile e immediatamente apprezzabile. Questa enigmaticità dell’opera contemporanea porta il soggetto, che non riesce più a cogliere in modo immediato l’essenza dell’opera, a formulare il più il delle volte un’ipotesi.

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L’acuto sguardo di Munari sul mondo dell’arte

Essa, nelle occasioni più meste è quella facile del complotto perpetrato da galleristi, mercanti, e media che sfocia spesso poi nelle solite frasi perentorie e qualunquiste “questa non è arte” e “questo lo so fare anch’io”, alle quali a suo tempo aveva risposto un magnifico Bruno Munari. Ora, non nego che negli ultimi anni, come peraltro anche in quelli più antichi, fenomeni di questo tipo si siano verificati – basti pensare a quell’enorme manipolazione estetica che è stata la Transavanguardia di ABO, sorta non per altro nei “terribili anni ’80”, o a un Jeff Koons che prima di affacciarsi al mondo dell’arte aveva, in qualche modo, sondato il terreno lavorando per anni a Wall Street – ma la cosa che più rischia di fuorviare e di minare la nostra capacità cognitiva è un atteggiamento manicheo e generalista di questo tipo che tende a stigmatizzare la questione con dogmi pressapochisti.

La questione del potente e della sua influenza nell’arte, dicevo, è antica e se vogliamo semplificare, potremmo dire che vi è stato uno spostamento del suo fine, che, se in un primo momento era la gloria, in un secondo, dall’avvento di quella che è un’epoca più dichiaratamente capitalista, è il profitto. Ma in realtà i due concetti sono strettamente collegati e irrimediabilmente affini. Un tempo il potente erano i papi, gli imperatori, i signori, ma nella storiografia si usa il termine “mecenati”.  Nel ‘500 Tiziano era conteso tra la Serenissima Repubblica di Venezia, papa Paolo III, i vari signori locali, e niente meno che Carlo V, il quale aveva un impero talmente esteso che si suole definirlo “L’imperatore sul cui regno non tramontava mai il sole”, (poi peraltro anche da re Filippo II di Spagna, suo figlio). Lo stesso Tiziano aveva addirittura quello che potremmo chiamare un agente ante litteram che si occupava di pubbliche relazioni, Pietro Aretino, acuto e subdolo poeta che tramite lettere inghirlandate riusciva a richiamare l’attenzione dei potenti sul suo amico. Di  Michelangelo conosciamo tutti la fama, e come negare che avesse il “mondo dell’editoria” dalla sua parte, se Giorgio Vasari, forse primo storico dell’arte, lo inserisce con un ruolo preponderante, non per altro è l’unico artista vivente presente nell’opera, nelle sue Vite, che avevano lo scopo, nemmeno troppo celato, di glorificare la scuola fiorentina.

Compiendo un salto temporale fino al ‘900 ci rendiamo conto che molte cose cambiano, ma che la necessità di accattivarsi il gallerista, l’editorialista e il pubblico permangono. I futuristi con le celebri serate o le scazzottate nei caffè, con la pubblicazione massiccia di manifesti su giornali italiani ed europei impongono tramite questo eccentricità e narcisismo, il loro punto di vista, così i dadaisti al Cabaret Voltaire, da dove lanciano la loro provocazione. Frida Kahlo avrebbe raggiunto la notorietà, assolutamente dovuta, se non si fosse sposata Diego Rivera, il principale dei muralisti messicani, o se non avesse intessuto rapporti intimi con Andrè Breton, teorico del surrealismo? Piero Manzoni e la sua rivoluzione sono indissolubilmente legati alla provocazione della sua “merda d’artista”, così come l’affermazione di Warhol e della sua estetica alla Factory, alle feste, alle relazioni, alla mondanità e alla trasgressione.
Fresco di lettura di un articolo incontrato su un quotidiano  – dove si afferma che la Germania sembra avere la “memoria corta”, di essersi cioè dimenticata le volte in cui, nella storia recente, gli stati vincitori le avevano concesso un ridimensionamento o addirittura l’abolizione del debito da lei accumulato (ad es. nel 1953 e nel 1990), in relazione alla severità e inflessibilità odierna verso la Grecia – mi sento di poter dire che qualcuno dimostra di essere altrettanto smemorato, quando addirittura non si verificano casi di vero e proprio Alzheimer,  nel campo artistico. Con tutto ciò che l’arte ha sempre significato ed è sempre riuscita a trasmettere mi sembra impossibile che ciò al quale stiamo assistendo sia il ripetersi della storia come farsa, proprio perché la prima non fu tragedia.

Bernardo Follini

Dvd, pan di stelle e istituzioni: l’Italia come vorrei che fosse

Nel nostro Paese c’è una strana comunanza di questi tre elementi, i film in dvd, i pan di stelle e lo Stato; il loro accostamento si basa su un ragionamento che voglio proporvi nella maniera più limpida possibile.

Fatevi innanzitutto questa semplice domanda: perché mai si dovrebbe comprare o noleggiare un film in DVD – o scaricarlo a pagamento – invece che guardarselo in streaming?
La risposta è altrettanto semplice, a ben pensarci: per rispetto nei confronti di chi ha lavorato per portare a termine un’opera mastodontica qual è quella della creazione di un lungometraggio, ad esempio. Per non rubare il suo lavoro e al tempo stesso, per riconoscerne la dignità.
Che l’apprezzamento ad un’opera d’arte si misuri in denaro, è una dura ma ineluttabile realtà. Finché qualcuno non si inventa un altro sistema economico, quello vigente è basato sul denaro. Si paga per tutto, perché non si dovrebbe pagare per guardare un film?

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Se non vi sta bene, issate la Jolly Rogers e cercate pure di emulare Johnny Depp

C’è da dire che alcune pellicole su SKY e su iTunes non ci sono e che le più datate non si trovano neanche nei pochi videonoleggi sopravvissuti (a Milano mi viene in mente solo Videobrera); ma la maggior parte dei film sono disponibili a pagamento.
Questo è però un tema piuttosto complesso che tira in causa molte variabili come il progresso tecnologico, il momento di crisi dell’industria cinematografica internazionale, la mentalità delle nuove generazioni e il loro rapportarsi al cinema, ecc. Ma non è questo il mio punto.
Quello che più mi preme affermare in questa sede è che si può decidere di comprare/noleggiare film e di andare al cinema anche se per molti nostri conoscenti polentoni è più comodo scaricarseli e guardarseli a casa. Sono loro che si perdono qualcosa. In realtà, purtroppo, in Italia anche i cinefili si perdono qualcosa, in attesa che arrivi Netflix…

E perché mai uno dovrebbe comprare i Pan di Stelle originali quando la loro imitazione prodotta dalle grandi catene di distribuzione costa dieci centesimi in meno?
Beh, in primo luogo, perché sono più buoni. Vuoi mettere le stelline glassate della Mulino Bianco con quegli squallidi agglomerati informi di zucchero e dolcificanti vari che assomigliano più ad un asteroide che ad una stella?
In secondo luogo, perché bisogna essere in grado di guardare oltre al risparmio di pochi centesimi per ogni articolo alimentare che mamma Esselunga, mamma Lidl e tante altre hanno copiato per noi riponendolo accuratamente nello scaffale ad altezza testa (quello che vende di più, per intenderci).
Purtroppo in questo momento molte famiglie faticano ad arrivare a fine mese; questo triste dato di realtà però non rende meno validi tali spunti di riflessione.

Potremmo anzi estendere la metafora dei supermercati e dei DVD anche ad altri ambiti della nostra quotidianità, alla politica e, più in generale, alla nostra vita.
Siamo rimasti avviluppati tra le spire della crisi economica e fatichiamo a liberarcene, questo è vero, ma non sarà sicuramente la filosofia della “cura del proprio orticello” a tirarcene fuori. Occorre tener presente che esiste trade-off tra ciò che è bene per sé e ciò che è bene per la comunità e che quindi, qualche volta, bisogna fare dei piccoli sacrifici personali per il bene degli altri.
In ultima istanza, infatti, che cos’è il bene di tutti se non un insieme che include anche il nostro?

Il mio intento non è celebrare un inno al masochismo né una mera pippa mentale sull’auspicio della venuta di un utopistico mondo perfetto. Sono però convinto che la somma dei comportamenti utilitaristici (talvolta semplicemente dettati dalla comodità) moltiplicati per 60 milioni di italiani e per quasi 70 anni di Repubblica abbiano concorso fortemente a produrre la voragine economica e istituzionale in cui siamo sprofondati.
Di sicuro anche la corruzione, le mafie, e il malgoverno c’hanno messo del loro; sono questioni di vitale importanza per capire fino in fondo come stanno davvero le cose.
Nella terra dei terremoti dell’Aquila e dell’Emilia ormai bastano le parole “Stato” e “istituzioni” a farci tremare. Un po’, è vero, per l’acclarata cattiva gestione nella ricostruzione che ha seguitoquesti disastri ambientali, ma anche perché ci siamo dimenticatiche “lo Stato siamo noi”.
La nausea che il dibattitto politico ci arreca e la sua sovraespozione mediatica non devono farci dimenticare che anche noi, nel nostro piccolo, possiamo fare qualcosa per cambiare le cose. Bisogna combattere il malgoverno, ma bisogna anche fidarsi delle istituzioni e stare in prima linea nel tentativo di innovarle. Non è un caso che in Europa le nazioni che vanno meglio in termini economici siano anche quelle dove è riscontrato il maggior grado di fiducia nelle istituzioni (paesi scandinavi, Germania e altri).

Cambiare non significa fare ostruzionismo ed essere qualunquisti, significa attivarsi, pensare con la propria testa.
Se non siete ancora convinti di poter cambiare qualcosa guardatevi Pay It Forward (“Un Sogno Per Domani” in italiano), con l’immenso Kevin Spacey, Helen Hunt e Haley Joel Osment (il bambino de “Il Sesto Senso” per intenderci). Apparentemente potrebbe sembrare un film che gioca con sentimenti facili, come spesso fanno i film che puntano ad una Nomination all’Oscar, ma se cercherete di introitarne il messaggio più profondo alla fine vi sentirete “cambiati”.

Pietro Jellinek