Che il tocco magico di Tim Burton sia davvero svanito, non sta a me dirlo.
Ma gli ultimi suoi film hanno perso qualcosa, questo penso l’abbiano notato tutti.
Con Sweeney Todd, il regista aveva lasciato l’animazione musicale per tuffarsi nel musical recitato, riuscendo a creare ancora una volta, una atmosfera fantastica.
Poi, con Alice in Wonderland, Dark Shadows, Frankenweenie (anche se, devo ammettere, la prima mezz’ora era stupenda), Burton ha perso quota insieme alla sua lucida visionarietà, che non riesce a recuperare nemmeno con la sua ultima opera, Big Eyes.

La locandina del film, al cinema dal 1 gennaio
L’ambientazione nel secondo dopoguerra americano non è nuova ed è molto cara al regista: quello che resta probabilmente il suo miglior film, Edward mani di forbice, è ambientato in un contesto simile – lo stesso vale per Ed Wood.
La cornice c’è, manca però il dipinto e poiché si parla di arte, non è un difetto da poco: è come se mancasse proprio la principale e più personale connotazione del surreale regista.
Le situazioni stranianti che Burton crea restano sempre divertenti; non c’è che dire, l’autore è sempre riuscito a farci sorridere col suo umorismo stravagante. Ma il suo più importante registro è sempre stato quello della sensibilità, senza cadere mai nel banale o nel melodrammatico.
Questo registro sembra disperso.
Big Eyes ricorda piuttosto una di quelle commedie o fiction che si vedevano un tempo la domenica pomeriggio su Rete 4.
Il film narra una vicenda senza dubbio interessante: il successo (immeritato) di Walter Keane, che si è in realtà appropriato delle opere della moglie Margareth sfruttando la sua insicurezza.
La pittrice impiegherà più di dieci anni per raccogliere il coraggio di emanciparsi dal brusco marito, riprendendosi ciò che a lei è più caro, la sua vita, oltre che la sua arte.
Protagonista indiscussa è una Amy Adams versione bionda, meglio inquadrata da Burton rispetto a quanto non abbia fatto David O’ Russel che qualche anno fa l’ha incoronata suo feticcio e musa. L’attrice non è più oggetto di una contemplazione registica adorante e assoluta come invece accade in film come American Hustle e The Fighter.
Invece Burton nasconde le imperfezioni della mezza età e ce la presenta nel modo a lei più confacente: una fatina dagli occhi blu (come l’avevamo vista in Come d’incanto, una delle sue prime apparizioni sul grande schermo), perfetta per il ruolo di donna timorata di Dio che non riesce a farsi spazio nella relazione con un uomo dall’ego molto più forte del suo.
La Adams è stata, per adesso, già premiata con il Golden Globe.
Ad affiancarla c’è Christoph Waltz, che, anche a detta della critica, risulta sotto tono nella recitazione.
A mio avviso sembra che invece sia fatto apposta per questa parte: rende benissimo il personaggio di Walter, squallido e fastidioso sin dal primo momento, tanto da non consentire allo spettatore di trovare in lui alcuna nota positiva. Riesce insomma ad essere odioso come già fu in Quella sporca dozzina di Tarantino.
Nel film, oltre alla figlia, ad aiutare la povera Margareth sono anche i Testimoni di Geova con cui la pittrice viene in contatto per caso, facendo entrare nella sua nuova residenza alle Hawaii due donne che stanno cercando proseliti – il porta a porta è un altro elemento ricorrente nei film di Burton, come per esempio in Edward mani di forbice.
Non è però chiaro quale ruolo il regista dia ai Testimoni di Geova: se si limiti solamente a narrare i fatti o se voglia, invece, mostrare come persone deboli e sole come Margaret possano essere risucchiate in ambienti e contesti, da cui poi non riescono ad uscire facilmente.
Alcuni grandi sognatori ed esteti del cinema col tempo hanno visto affievolire la propria vena creativa; è capitato ad Antonioni ed allo stesso Fellini, i quali, ad un certo punto della loro vicenda artistica, non hanno saputo rinnovarsi e hanno finito col produrre opere non più originali.
Lo stesso Wenders, forse accorgendosi che il suo tocco rischiava di non essere più lo stesso, è passato al documentario. A mio modo di vedere una scelta saggia.
Per quanto lo stile di Tim Burton sia ben diverso da quello degli autori appena citati (in realtà si tratta di uno stile effettivamente unico), l’impressione è che quel che il regista poteva e doveva dare all’arte cinematografica, lo abbia già dato.
E che ora rischi di inaridire la sua vena senza riuscire più a toccare più mete così alte come quelle dei suoi film degli anni ’90 e del primo decennio di questo secolo.
Ma sia chiaro: Edward mani di forbice è e resta uno dei più bei film di sempre!
Tommaso Frangini