’60s

Jefferson Airplane: il viaggio verso Surrealistic Pillow

Sesso, droga, rock n roll, libertà, arte, poesia, Haight Street: era il paradiso terrestre

Non c’è molto altro da aggiungere alle parole del compianto Paul Kantner – tornerà protagonista in seguito – per descrivere cosa realmente rappresentasse agli occhi di una generazione la San Francisco Bay di metà anni ’60.
Questo è il periodo storico che si frappone tra il movimento beat degli anni ’50 e il nascente movimento hippie di fine anni ’60; un periodo di transizione generazionale e culturale, nel quale i ragazzi che a loro tempo vissero direttamente l’esperienza della Beat Generation  cominciano a superare la quarantina,  mentre le centinaia di migliaia di ragazzi che prenderanno parte al movimento hippie sono ancora adolescenti. L’atmosfera che si respira nell’area di San Francisco durante questo interregno generazionale viene immortalata perfettamente dalla figura di Ken Kesey, scrittore – anche se definirlo tale è sminuente –  e autore del romanzo capolavoro “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (1962).
È proprio su questo background di trait d’union culturale che la nostra storia può cominciare.

Ero troppo giovane per essere un beatnik, ma troppo vecchio per essere un hippie – Ken Kesey

ken_keseySe anche voi foste vissuti in questo periodo e anche voi foste stati, come Kesey, “troppo giovani beatnik, ma troppo vecchi hippie”, ci sarebbero stati solo tre luoghi negli Stati Uniti d’America dove avreste voluto stare giorno e notte: Cambridge (Boston), Greenwich Village (New York City) e Berkeley (San Francisco Bay). A metà anni ’60, questi sono i tre principali centri di musica folk americana, dove regolarmente si esibiscono band e artisti in uno scenario beat. Kesey, che per carattere tende a portare ogni situazione all’eccesso, proprio non riesce a farsi bastare uno soltanto di questi tre centri focali giovanili: li vuole vivere tutti. È così che, a partire dal 1964, insieme a un gruppo di amici – prenderanno il nome di Marry Pranksters – organizzano mensilmente viaggi in scuolabus da Berkeley a New York a Boston, vivendo comunitariamente. Durante la permanenza in ciascuno dei tre luoghi, organizzano dei festini, aperti al pubblico, chiamati “Acid Tests”, nel corso dei quali assistono a esibizioni di varie band locali sotto effetto di LSD. È proprio l’abituale consumo di sostanze stupefacenti che rappresenta il vero punto di rottura tra la cultura beat e quella hippie.

Non passa molto tempo prima che Kesey diventi un nome noto alla scena beat e “proto-hippie” di entrambe le “coast” e sono moltissime le persone che iniziano a imitarlo. Uno dei luoghi prescelti da Kesey per questi stravaganti festini è una famosa coffee house di Berkeley, sede di numerosissimi concerti folk e blues, la Cabale Creamery, il cui fondatore, Chandler A. Laughlin III – oggi noto come Travus T. Hipp –  diventa uno dei primi a rimanere ammaliato dalla figura di Kesey e in generale dallo stile di vita dei Marry Pranksters. Nel 1965 Laughlin, ispiratosi a Kesey, consegna alla storia quello che può essere tranquillamente considerato come il primo vero festival musicale a sfondo psichedelico di sempre, il “The Red Dog Experience”. Ospitato dal celebre Red Dog Saloon nella piccola e desolata Virginia City (Nevada), il festival attrae qualche centinaio di ragazzi da tutta la California e si svolge in maniera confusionaria, senza una vera distinzione tra pubblico e artisti, tra palco e dancefloor e, soprattutto, con un unico aspetto principale: il consumo di peyote americano. Come si può immaginare, il “The Red Dog Experience” non sarà tanto ricordato per la qualità della performance, quanto per i nomi degli artisti partecipanti, la gran parte dei quali, solo un paio di anni dopo, sarebbero diventati i nomi di punta della scena musicale californiana: Big Brother & The Holding Company, The Charlatans, Quicksilver Messenger Service, Grateful Dead e, infine, dei giovanissimi Jefferson Airplane.

I Jefferson Airplane, nel periodo del “The Red Dog Experience”, sono poco più di una neonata e sconosciuta band di San Francisco, ruotante attorno le figure di Marty Balin e Paul Kantner. Il primo è uno dei co-fondatori del “The Matrix”, nightclub dell’area di San Francisco; il secondo è un giovane e promettente musicista bazzicante per la California in cerca di fortuna: nel suo periodo da gavetta, Kantner suona con gli allora altrettanto sconosciuti Jerry Garcia, David Crosby, Janis Joplin e vive tra Los Angeles, San Francisco, Santa Clara e Berkeley.
L’incontro tra i due comporta la nascita di una band creata per essere la resident band del The Matrix e, dopo aver reclutato la cantante Signe Toly Anderson, cominciano a suonare regolarmente nel night club di Balin.
La prima vera svolta – ve ne saranno due nella carriera degli Airplane – avviene nella seconda metà del 1965. La band, ingaggiata per un paio di esibizioni all’interno della Santa Clara University, viene presentata da Kantner a una sua vecchia conoscenza: il chitarrista Jorma Kaukonen.

jormaSu Jorma Kaukonen si potrebbe aprire un capitolo a parte lungo pagine intere dato che, a 25 anni ancora da compiere, può vantare una vita che sarebbe ricca di esperienze persino agli occhi di un cinquantenne. Nato a Washington, D.C. da una famiglia di origini finlandesi e russe, a causa del lavoro del padre, cresce dapprima nella capitale, poi nelle Filippine, dove entra in contatto con la musica folcloristica locale e comincia a suonare la chitarra. Torna nella sua città natale a 14 anni, dove incontra colui che sarà suo partner musicale a vita: il bassista Jack Casady. Con Casady fonda la band blues-rock The Triumphs, con cui perfeziona la sua conoscenza del blues. A 18 anni si trasferisce in Ohio per frequentare l’Antioch College, periodo in cui viene iniziato dall’amico Ian Buchanan – da non confondere con l’omonimo attore di “General Hospital” – all’arte del finger-picking. Dopo 3 anni si sposta in California, a San Jose, dove insegna chitarra in una scuola di musica e si esibisce dal vivo saltuariamente, accompagnando una giovanissima Janis Joplin e facendo la conoscenza di numerosi aspiranti musicisti locali, tra cui il nostro Paul Kantner.
Quando però nell’autunno del ’65 viene invitato dallo stesso Kantner a partecipare a una jam session con i nascenti Jefferson Airplane alla Santa Clara University, a diretta domanda se voglia unirsi in pianta stabile alla band la risposta è decisa: “no”. Lui?! Un purista del blues in una psych-rock band? No, meglio di no! E sarebbe anche un rifiuto definitivo se Ken Kesey, lì presente, non tirasse fuori dal suo scuolabus un delay che utilizzava per i suoi “Acid Tests”. Una volta collegato alla chitarra, Jorma scopre un mondo nuovo, il mondo delle meraviglie musicali della California, di cui i Jefferson Airplane saranno tra i principali portabandiera per i 5 anni successivi.

Con l’ingresso di Kaukonen, che nel frattempo ha fatto pressione su Balin e Kantner per accogliere in gruppo anche il fedele Casady, gli Airplane non solo diventano una band completa, ma anche e soprattutto una band unica. L’aspetto del sound che li caratterizza è lo stesso aspetto che caratterizza tutte le altre band dell’area di San Francisco nello stesso periodo storico: la componente psichedelica. Ciò però che li differenzia dalle altre è il fatto che mentre band come i Grateful Dead, i Big Brother & The Holding Company o i Quicksilver Messenger Service utilizzano il blues come genere di riferimento per comunicare l’aspetto psichedelico (Acid Blues), gli Airplane scelgono il folk (Psychedelic Folk-Rock). Ovviamente non mancano anche in loro le fondamenta blues – non dimentichiamoci che la loro chitarra principale è quella di Jorma Kaukonen – ma, a differenza dei “colleghi” sopra citati, è un blues utilizzato per colorare gli arrangiamenti e non proprio per aiutarsi nel processo compositivo, che infatti avviene soprattutto per mano di Balin e Kantner, non di Kaukonen e Casady.
Nel giro di un anno dalla loro formazione, la gente comincia lentamente a rendersi conto che nessuno, ma proprio nessuno, ha il sound dei Jefferson Airplane. Se ne accorge anche Matthew Katz, il più lesto tra gli addetti ai lavori ad aggiudicarsi la firma di Balin su un contratto. Katz, divenuto ufficialmente manager della band, li porta in studio con il produttore Tommy Oliver, per registrare un album sotto la RCA Victor Records, un album che prenderà il nome di “Jefferson Airplane Takes Off”.

Pubblicato nel settembre del 1966, “Takes Off” è un LP che unisce alla perfezione il folk e il blues alla componente psichedelica, ovvero quel tipico sound che già da qualche mese spopola tra migliaia di ragazzi californiani. L’album riscuote un considerevole successo negli Stati Uniti: le 15 mila copie vendute nella prima settimana (di cui più della metà soltanto a San Francisco) spingono la RCA a riprendere con grande urgenza le stampe. Come andava di moda in quegli anni, l’etichetta decide di omettere dalle ristampe il brano “Runnin’ Round This World” a causa di un testo con espliciti riferimenti al consumo di acidi. Tutt’ora a San Francisco e dintorni potreste trovare una delle 15 mila copie originali dell’album, il problema è il prezzo: dai 3 mila dollari a salire.
Jefferson Airplane - Takes Off - FrontSi può dire che con “Takes Off” i Jefferson Airplane prendono effettivamente il volo. Eppure, la seconda vera e definitiva svolta, deve ancora compiersi.

Il 15 Ottobre 1966, a pochi giorni dalla pubblicazione del disco, Signe Anderson lascia la band per partorire la sua prima figlia. Così Balin prende la palla al balzo per allontanare anche il batterista Skip Spence, una cui vacanza in Messico non preannunciata durante le registrazioni di “Takes Off” non è mai andata giù al resto del gruppo. In quell’occasione Spence venne sostituito dal batterista “jazz-oriented” Spencer Dryden, amico di Jack Casady, e anche questa volta a Dryden viene chiesto di sostituire Spence, in via definitiva però. Per il ruolo di cantante gli Airplane optano per la già nota Grace Slick – fino ad allora cantante dei The Great Society – per non alterare la peculiarità vocale della band, fortemente basata sull’intreccio di voci maschili e femminili.
L’alchimia musicale che si crea tra i membri dei “nuovi” Jefferson Airplane è qualcosa destinato a entrare di prepotenza tra le pagine più importanti della musica americana del XX secolo. Al suo interno si possono identificare tre anime (o coppie, se preferite) ben distinte: il duo storico Balin/Kantner, che dimostrò già in “Takes Off” di avere tutte le carte in regola per confermarsi una delle coppie più prolifiche sotto il profilo della composizione del panorama californiano; in grado di unire melodie fresche e incalzanti a una base musicale tradizionalmente folk, i due presentano regolarmene ai restanti membri del gruppo canzoni tanto meravigliose, quanto perfette per essere arrangiate in chiave “Airplane”. L’accoppiata Casady/Dryden, bassista e batterista di elevato spessore tecnico, è il motore del gruppo: le complesse linee di basso del primo si intrecciano perfettamente con le ritmiche semplici, marcate, talvolta tribali del secondo. La terza anima del gruppo è quella dal mood più “bluesy” e psichedelico: la chitarra blues stravolta dal delay di Jorma Kaukonen si alterna alla incredibile voce di Grace Slick, il cui contributo compositivo sarà di vitale importanza. Questi Jefferson Airplane danno vita in breve tempo a un album destinato a rivoluzionare per sempre la scena musicale americana, a influenzare per i decenni seguenti intere generazioni di musicisti e, soprattutto, a ricoprire il ruolo di “colonna sonora” di uno dei bienni più movimentati della storia recente dell’umanità.

Nel Novembre del ’66 la band entra negli studi della RCA per registrare il suo capolavoro. Nel frattempo però, per le strade di San Francisco c’è la netta sensazione che stia per succedere qualcosa di importante. Siamo all’inizio del 1967 e la Guerra del Vietnam sta vivendo l’apice della sua drammaticità: le forze statunitensi raggiungono il numero di 500 mila unità e le perdite superano le 70 mila, senza tuttavia che vi sia l’impressione di ottenere veri e propri successi. Il malcontento in patria comincia a lievitare, soprattutto nella fascia di popolazione tra i 18 e i 30 anni. In California – centro nevralgico del fermento giovanile – migliaia di ragazzi organizzano quotidiane manifestazioni, occupazioni e proteste contro la politica interventista del governo americano. La controcultura hippie, che negli ultimi anni si è notevolmente espansa, si schiera fermamente contro la guerra, tanto da diventare nell’immaginario collettivo uno dei maggiori simboli anti-interventisti di quegli anni. A Gennaio del 1967 Michael Bowen organizza un gigantesco “Human Be-In” all’aperto per le strade di San Francisco: è questo l’evento che introduce il movimento hippie all’intera nazione e al mondo. Nei giorni successivi, infatti, un evento simile verrà poi organizzato anche per le strade di New York. Il consumo di marijuana e di LSD – divenuto illegale dal 1965 – entra prepotentemente nella cultura di migliaia di giovani, parte di una collettività sempre più in crescita. Nel giugno dello stesso anno San Francisco, e in particolare il quartiere di Haight-Ashbury, è nettamente la capitale culturale più all’avanguardia degli Stati Uniti e non solo. La reinterpretazione del grande classico “San Francisco” da parte di Scott McKenzie raggiunge la top 50 americana e si posiziona addirittura al primo posto in quella britannica, trasmettendo, in un’era senza internet, ulteriori messaggi oltreoceano sul periodo di grande fermento che stava attraversando la California intera: “If you’re going to San Francisco be sure to wear some flowers in your hair”.

240px-JeffersonAirplaneSurrealisticÈ immerso in questo contesto che viene pubblicato, nel Febbraio del ’67, il capolavoro dei Jefferson Airplane: Surrealistic Pillow – nome preso da una frase di Jerry Garcia il quale, ascoltando il mix definitivo del disco dei suoi amici, se ne uscì con: “It sounds good. It sounds like a surrealistic pillow.” Il disco è una fusione totale tra folk-rock e psichedelia, qualcosa che in passato non è mai stato sentito, né inciso, neppure immaginato. Il lato A è composto da cinque brani che potrebbero essere tutti tranquillamente da “top chart”. L’incalzante “She Has Funny Cars”, scritta da Balin con la supervisione di Jorma Kaukonen, è una canzone totale: al riff di Kaukonen si accompagna una marcia tribale di Dryden, con il sostegno di una linea di basso tanto complessa quanto non invadente. Le voci di Slick e Balin si intrecciano meravigliosamente e sono uno dei punti di forza del brano. “Somebody to Love”, uno dei due pezzi che Grace Slick si portò dietro dai The Great Society, è il singolo di lancio dell’album, nonché uno dei maggiori inni generazionali, con un testo esplicitamente riferito al clima che si respira in quel periodo in Haigh Street, dove cinque “Airplane” su sei hanno la residenza. “My Best Friend”, un’eredità lasciata da Skip Spence, è la prima ballata presente sul disco, con complessi e meravigliosi intrecci vocali tra Slick, Balin e Kantner. “Today” è a mio avviso uno dei due capolavori dell’album: frutto del lavoro di composizione di Balin e Kantner, è una ballata malinconica con atmosfere psichedeliche e un testo enigmatico. Il lato A si chiude con l’introspettiva “Comin’ Back To Me”, composta ed eseguita quasi totalmente dall’ispiratissimo Marty Balin, in solitaria. Il lato B è probabilmente meno incisivo ma con all’interno qualche variazione degna di nota, rispetto al lato A. “3/5 of a Mile in 10 Seconds” è una piccola “She Has Funny Cars”; “D.C.B.A. – 25” è una meravigliosa mezza ballata con un fantastico arrangiamento di chitarra, ad opera di Jorma Kaukonen. Scritta ed eseguita dallo stesso Kaukonen troviamo poi “Embryonic Journey”, un pezzo strumentale di 2 minuti scarsi, con una chitarra acustica effettata suonata in finger picking. “White Rabbit” è il secondo singolo estratto dall’album: scritto da Grace Slick, è un altro di quei pezzi risalenti al suo periodo con i The Great Society ed è una marcetta psichedelica con un testo dagli espliciti riferimenti all’altro aspetto della controcultura hippie: l’acido. Slick si immagina “Alice nel paese delle meraviglie”: “One pill makes you larger and one pill makes you small / and the one that mama gives you don’t do anything at all / go ask Alice when she’s 10 feet tall”. A chiudere l’album ci pensa il pezzo che, a mio modo di vedere, è il secondo capolavoro del disco: “Plastic Fantastic Lover”. Composta da Marty Balin, si basa su un accordo di settima martellante per tutta la strofa, con una melodia vocale incalzante, rapida, fresca, quasi parlata. A far da contorno spiccano i soliti arrangiamenti figli del genio di Kaukonen.
Con un album del genere appena pubblicato, trascinato commercialmente dai due singoli “Somebody to Love” e “White Rabbit” (rispettivamente quinto e ottavo nella “Billboard Pop Singles Chart”) i Jefferson Airplane si impongono sul panorama musicale occidentale come una delle band più in voga del momento, tanto da essere indiscutibilmente una delle attrazioni principali dell’imminente Monterey Pop Festival. Insieme ai The Mamas & The Papas, Ravi Shankar, Otis Redding, The Animals, Janis Joplin, The Jimi Hendrix Experience, The Grateful Dead e The Who, gli Airplane danno vita a uno dei festival musicali più memorabili del secolo. Oltre ad essere considerato il punto di apice del movimento hippie – più anche di Woodstock, durante cui si intravedono già i primi segni di declino – il festival di Monterey è importante soprattutto perché segna ufficialmente l’ingresso della musica nella cultura giovanile, tanto da diventare uno dei principali mezzi di espressione del libero pensiero e, conseguentemente, vittima di persecuzione alla pari degli organi di stampa (ci si documenti sul “caso Lennon” a riguardo)

Tornando ai Jefferson Airplane e a Surrealistic Pillow, si potrebbero iniziare decine di riflessioni. Si potrebbe dire che pochi album nella storia della musica possono vantare un legame tanto prorompente con l’ambiente circostante. Si potrebbe aggiungere che trattasi assolutamente di uno di quegli innumerevoli casi in cui arte, musica e cultura si sviluppano parallelamente agli eventi storici contemporanei. Si potrebbe quasi considerare Surrealistic Pillow come un vero e proprio documento storico, in grado di consegnare ai postumi un assaggio di una cultura che si è sviluppata velocemente ed è scomparsa al doppio della velocità. Il movimento hippie si è praticamente estinto, o comunque ha perso completamente ogni significato socio-politico, già nel 1971. Invece, per Surrealistic Pillow quello fu solo l’inizio del viaggio verso l’immortalità. Non è necessario citare i centinaia di artisti che nei decenni successivi si sono ispirati direttamente o indirettamente al disco dei Jefferson Airplane per averne conferma. È sufficiente trovare mezz’ora per ascoltarlo e prendere consapevolezza che quanto accaduto in quegli anni non ha portato solo utopia e illusione, ma ha dato vita anche a pietre miliari nella storia della musica, perché dove c’è fermento, c’è creatività.

Edoardo Grimaldi

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Sympathy for the Devil & One plus One di Godard

Una settimana fa la nostra pagina Fb è arrivata a 666 Mi Piace e noi ci siamo illuminati pensando alla storica Sympathy for the Devil della one band standing (tra le leggende del rock) The Rolling Stones. È una delle canzoni che ha segnato la storia del rock’n’roll, una delle più citate, una delle più controverse ed una delle più scandalistiche.

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Band #3: The Red Roosters

Ormai li conoscete. Si definiscono “A true rock’n’roll band from Milan, Italy”.
Sono un giovane quintetto italiano devoto al più puro rock ’n’ roll di stampo anglosassone. Nascono a Milano nel 2010 e nei primi anni d’attività cominciano a macinare esperienza suonando in giro per Milano e dintorni e sperimentando un vario numero di formazioni e musicisti.
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Band #2: The Remington

Il loro debutto discografico è avvenuto come trio nel 2011 su 7”, un bel singolo di chiara ispirazione folk-rock con arrangiamenti crudi e molto efficaci che riportano alla mente i Byrds di fine anni 60. Successivamente nel loro primo album, Italian Market, hanno introdotto le tastiere come elemento fisso del sound, fatto che ha contribuito a forgiare un disco da atmosfere senza precedenti in Italia: un perfetto connubio tra i suoni degli Wilco nell’era A.M./Being There e quelli britpop dello stesso periodo storico. Stiamo parlando dei The Remington.
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#1 Record. La stella che non riuscì a brillare

Sapete in quale aspetto i Big Star possono davvero considerarsi imbattibili?
Come vi ho raccontato nel mio reportage su di loro, l’unicità di questa band è il culto che ben presto ne nacque.
E’ come se i Big Star rappresentassero un patrimonio personale di pochi, quasi come se #1 Record fosse il rifugio segreto di ciascuno di noi, il luogo dove andiamo a rifugiarci se ci sentiamo giù di morale o se dobbiamo riflettere o se dobbiamo esultare per una buona notizia.

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Fronte e retro della copertina

Il merito di questo alone mitico che circonda questa band è in gran parte del loro album d’esordio, #1 Record che, oltre ad essere uno dei dieci, massimo quindici dischi pop/rock (lasciamo perdere la definizione di power pop per il momento) migliori degli anni ’70, è altresì uno dei lavori più incompresi, sottovalutati e decaduti di tutto il decennio. Rimasto sugli scaffali dei negozi di dischi di Memphis, invenduto, per oltre dieci anni e oscurato dall’avvento dell’hard rock, guadagnò la notorietà che avrebbe meritato (e comunque non abbastanza!) soltanto a partire da metà anni ’80 quando note band quali i REM, Teenage Fanclub e Weezer cominciarono a citare Chilton/Bell tra le loro massime influenze.

Com’è possibile che un album tanto meraviglioso quanto innovativo abbia girato per dieci anni soltanto su qualche misero centinaio di giradischi? Eppure la critica musicale lo accolse con entusiasmo! Billboard scrisse: “ogni canzone potrebbe essere un singolo”; Rolling Stone, invece, lo valutò “incredibilmente bello”; Record World annunciò: “ci troviamo in presenza di quello che, senza alcun dubbio, è l’album dell’anno”. Bud Scoppa, famoso critico musicale, fece un’ analisi interessante: “anche le melodie più dolci sono circondate da una particolare tensione e da una sottile energia, dovute al suono di chitarra tagliente, potente e pieno”. Anche Cashbox evidenziò difficoltà a esprimere ciò che sentiva: “Questo album segna una di quelle date memorabili dove assistiamo alla fusione di ogni elemento all’interno di un unico grande sound”.

Per me i Big Star sono una lettera spedita nel 1971 e arrivata nel 1983 – Robyn Hitchcock

#1 Record, dal punto di vista musicale, per quanto mi riguarda, è tra le massime espressioni d’ogni epoca di Power Pop, genere nato appunto a cavallo tra i 60’s e i 70’s la cui caratteristica principale è quella di fondere gli elementi “power” del più genuino rock & roll britannico e le melodie più “pop” dei Beatles o dei Byrds (rieccoli spuntare).
In particolar modo, all’interno di #1 Record, le influenze sono tanto precise quanto svariate: Led Zeppelin, The Byrds, The Who e The Beatles in primis. Il lato A di #1 Record è devastante!
Basta appoggiare la puntina sul disco per essere pervasi, dopo appena qualche secondo di “chitarristica tensione” introduttiva, da pura energia “Led Zeppeliana” che va dritta a colpire il petto di chiunque si trovi nel raggio d’azione delle onde sonore. Feel, la traccia d’apertura, è questo e altro: l’instabilità su cui poggia tale energia è resa evidente dal brusco passaggio al ritornello, fatto di armonie vocali soffici e leggere, che può essere paragonato, al primo ascolto, a un gancio destro in pieno volto.
Lo zampino di Bell nel brano si sente ovunque, sia dal punto di vista compositivo sia dal punto di vista dello scientifico arrangiamento avvenuto in studio di registrazione. Anche il testo è partorito dalla mente contorta di Bell e si incastra perfettamente con la struttura instabile del pezzo; si passa così dal primo cantato della strofa molto intenso, dove Bell sfoggia una prestazione canora degna dei migliori Steve Marriot e Robert Plant – “girlfriend what are you doing? You’re driving me to ruin” – al ritornello molto pop, dolce e struggente – “I feel like I’m dying, I’m never gonna live again, you just ain’t been trying, is getting very near the end”. Il pezzo termina con l’ultimo power chord sfumato e il respiro accelerato: non ci si può più stupire di niente.
Sbagliato: The Ballad Of El Godo non solo stupisce, sciocca! I dolci arpeggi di chitarra introduttivi riportano alla mente buona parte della discografia dei Byrds e il folk rock dell’immaginario americano di cui sopra. Entrambe composizione e cantato, questa volta, sono ad opera di Chilton, ma ciò non vieta a Bell di intervenire pesantemente in studio di registrazione, aggiungendo quelle armonie vocali che rendono il ritornello qualcosa di indescrivibile, commovente: “And there ain’t no one going to turn me ‘round”. Si passa a un’altra perla firmata Chilton (ma cantata da Bell stavolta), In The Street. Il brano si apre con un riff di chitarra potente al quale si aggiungono l’incalzante batteria di Stephens e la straordinaria linea di basso di Hummels. Il tipo di struttura è simile a quella di Feel ma tanto è meno complesso l’arrangiamento armonico, tanto sono più complessi gli intrecci di chitarra (sempre più in stile Byrds) a far da congiunzione tra ritornello e special.
Chiudono il lato A Thirteen, Don’t Lie To Me e The India Song. La prima, composta e cantata da Chilton, è forse la ballad principale di #1 Record eprende il titolo dall’età che il suo autore aveva nel giorno in cui egli vide dal vivo i Beatles per la prima volta, in un live a Memphis, appunto tredici; il testo, tuttavia, non fa cenno a questo evento e, anzi, decolla più verso cieli romantico-adolescenziali: “Would you let me walk you home from school?” oppure “maybe friday I can get tickets for the dance and take you”. La seconda invece è un puro ed energico rock & roll duettato da Chilton e Bell, dove la sezione ritmica fa da sovrana quasi tutto il tempo e la chitarra selvaggia di Bell riempie gli spazi vuoti con tanto grezzi quanto efficaci assoli.
La terza, The India Song, è la prima e unica traccia dell’album composta da Andy Hummel. Cantata da Chilton, è forse il brano meno omogeneo tra tutti, complici anche le tastiere di Terry Manning che conferiscono un’atmosfera a tratti quasi esoterica. Il lato B è sicuramente calante dal punto di vista musicale, ma non affatto da sottovalutare per ciò che concerne il campo emozionale: la malinconia della musica e dei testi creano un connubio ad alta emotività dove l’ascoltatore è libero di sentirci ciò che sente. La traccia d’apertura, When My Baby’s Beside Me, ad ogni modo, è comunque sulla linea dei pezzi precedenti, ossia un Power Pop ritmicamente incalzante ma melodicamente soave. In My Life Is Right e Give Me Another Chance, Chris Bell da il meglio di sé sugli arrangiamenti: chitarre acustiche arpeggiate che si intrecciano con la potenza della componente elettrica, armonie vocali complesse a condire i ritornelli e strutture sempre più instabili, con repentini passaggi da strofe più aggressive a ritornelli più morbidi e bridge strumentali (My Life Is Right).
Try Again è un gioiellino firmato sempre Bell che anticipa di qualche anno, a livello musicale, il suo album solista I Am The Cosmos, con un testo al sapore di rimpianto, composto da una frase in loop: “Lord I’ve been trying to be what I should, Lord I’ve been trying to do what I could, but each time it gets a little harder I feel the pain, but I’ll try again”.Watch The Sunrise è l’ultima vera canzone del disco, firmata Alex Chilton, con forti spunti folk e influenze americane – forse uno dei pezzi che scrisse pensando a un’eventuale carriera da duo Chilton & Bell? – con un arrangiamento semplice e azzeccato e le armonie vocali sempre impeccabili.
La traccia conclusiva del lavoro è, più che una canzone, un inno di speranza o di sogni infranti, lunga pochi secondi, ma comunque sufficienti a lasciare l’ascoltatore con l’amaro in bocca e con il tempo di deglutire l’ultimo sorso prima di alzarsi e sollevare la puntina dal disco. #1 Record è così, un album di appena 35 minuti durante i quali l’ascoltatore viene accompagnato da un’orgia di suoni, quasi religiosi, in un viaggio interiore lungo ore e ore. E’ come se al suo interno i Big Star avessero predetto il proprio fallimentare futuro commerciale, con annesse le sofferenze e le difficoltà che ciò comportò, e ne avessero descritto il percorso interiore per filo e per segno.
Un disco fantastico, eppure un fallimento clamoroso: questo fu #1 Record. Resta però da dire una cosa, un pensiero in grado di dare senso a questo bizzarro scherzo del mercato discografico.
Resta il significato che una band come i Big Star ha assunto nella storia della musica, un dato di fatto che vale più di qualunque disco venduto.

Love me again, be my friend, I need you now, I’ll show you somehow – da St 100/6

Edoardo Grimaldi

Big Star. La stella che non riuscì a brillare

E’ vero, possono piacere o non piacere.
Non si può tuttavia negare che gli Stati Uniti d’America in quanto a grandezza dell’immaginario collettivo culturale e nello specifico musicale, siano tra i paesi più sorprendenti in assoluto – le numerose e affascinanti leggende metropolitane a riguardo hanno contribuito non poco.
Sarebbe impagabile, ad esempio, farsi un giro per South Michigan Avenue nella Chicago anni 50 e impalarsi davanti agli studi della Chess Records. Nell’arco di un decennio entrarono da quella leggendaria porta centinaia di contadini di colore del Mississippi, con nomi tipo McKinley Morganfield o Chester Arthur Burnett. Persone che ne uscirono un paio di ore dopo trasformate in Muddy Waters e Howlin’ Wolf, puliti, vestiti, lavati (ma non troppo) e a bordo di una Cadillac.
Così come, personalmente, non disdegnerei di assistere al momento in cui un certo Robert Leroy Johnson consegnò la sua anima a Satana in cambio di un po’ di blues. E poi abbiamo tutte le storie che circondano il country di Nashville, il blues di Detroit, il jazz di New Orleans; scene e città che compongono quella linea di congiunzione astratta tra la frenetica, grigia, snob New York della Factory di Wahrol col sound proto-punk dei Velvet Underground e la colorata, solare, lisergica California hippie del Whiskey a go-go – Jack Kerouac e la sua banda di amici fulminati hanno percorso questa strada giusto un paio di volte.
Proprio in California spiccò una band che, in particolare nella seconda metà degli anni ’60, si caratterizzò per descrivere l’immaginario della West Coast tramite chitarre Rickenbacker a 12 corde e melodie soffici, leggere, col dichiarato intento di trasportare l’ascoltatore in alto nel cielo, quasi come se fossi veramente un Byrd, ossia un Bird un po’ sconvolto dall’acido. A proposito, i The Byrds teneteveli bene in mente perché più avanti torneranno.

Tuttavia, di tutte le città americane che hanno profondamente contribuito allo sviluppo della musica contemporanea a stelle e strisce, ce n’è una in particolare che lo ha fatto cogliendo la vera peculiarità della nazione: Memphis, Tennessee. Cosa intendo per “vera peculiarità”? La multietnicità.
Gli Stati Uniti nella loro storia, infatti, avrebbero anticipato una tendenza, ora diffusa su tutto il pianeta: la formazione di società multietniche, miscelando e sintetizzando elementi eterogenei in un unico calderone culturale. Ora, senza stare ad approfondire i vari passaggi di questo processo, anche perché non sarebbe sufficiente un libro intero, è però abbastanza ovvio credere o almeno immaginare che tale melting pot sia stato uno degli elementi fondamentali per la nascita della musica contemporanea mondiale così come la conosciamo oggigiorno. Gli USA, con i suoi circa 60 milioni di cittadini con origini britanniche, 50 milioni con almeno uno zio o un nonno tedesco/polacco, 40 milioni di afroamericani, 30 milioni di messicani e 18 milioni di italoamericani, sono stati oggetto, nel corso degli anni, di una vera e propria invasione di culture differenti.
Detto questo, se è vero che l’arte si nutre da secoli di innovazione e sperimentalismi e, ancora, se è altrettanto vero che la musica è arte, non poteva esserci un nido più allettante per la nascita e lo sviluppo del suo ramo contemporaneo rispetto al contesto multietnico in cui gli Stati Uniti, volenti o nolenti, si sono ben presto ritrovati. Bene, Memphis è una città specchio di questo scenario: al 1960, nella città del Tennessee, abitavano afroamericani e bianchi in una percentuale più o meno del (quasi) 2 a 1. In armonia? Bè, dal punto di vista sociale, che poi è l’aspetto veramente importante, no (basti pensare all’assassinio di Martin Luther King avvenuto nel 1968 al Lorraine Motel di Mulberry Street) ma dal punto di vista musicale, decisamente sì.
Per quanto riguarda la componente “bianca” negli anni 50 la città sfornò grazie alla Sun Records il cosiddetto Milion Dollar Quartet, nome con il quale vennero definiti quattro musicisti solisti che, come si può facilmente desumere dal nome, oltre ad aver condotto la Sun Records a ribalta internazionale, contribuì a portare un certo quantitativo di ricchezza (diciamo nell’ordine dell’ “inimmaginabile”) a Sam Phillips che di tale etichetta ne era il fondatore. Stiamo parlando di Elvis Presley, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis e Carl Perkins.
Tralasciando non con poca difficoltà il capitolo infinito sul Rockabillye affini, e facendo un balzo sull’altra sponda di Memphis, quella “nera”, si giunge al cospetto di una serie di artisti immortali, tutti con un comun denominatore piuttosto preciso, il nome della Stax Records. E’ proprio da questa etichetta o, meglio, dal suo fallimento artistico di fine anni 60 che la nostra storia, quella dei Big Star, affonda le proprie radici. La morte di Otis Redding, avvenuta nel 1967, segnò la svolta storica della Stax. Questa non solo perse la star di spicco del proprio roster ma cominciò un rapido e inesorabile declino che la ridusse, dopo la separazione dall’Atlantic Records che venne inglobata dalla Warner, a una quasi totale assenza di roster nel 1969 e a toccare definitivamente il fondo all’alba del nuovo decennio.
E’ a questo punto che la situazione venne presa in mano da Al Bell, uno dei produttori della nuova cordata che acquisì l’etichetta in crisi. Bell rinfrescò l’immagine decaduta della Stax e cominciò a mettere sotto contratto volti completamente nuovi nel panorama musicale, come Frederick Knight e i The Soul Children. E’ questo anche il periodo dove gli artisti della Stax cominciarono a registrare in studi esterni, ad esempio gli Ardent Studios di Memphis, e con produttori esterni, come accade nelle case discografiche moderne, cancellando perciò definitivamente il controllo artistico e sonoro che caratterizzò tutte le pubblicazioni Stax dei vent’anni precedenti: da Don Covay a Wilson Pickett, da Aretha Franklin a Otis Redding, passando per William Bell, Albert King e Eddie Floyd. Oltre al tentativo di rinascita della Stax, a Memphis, verso la fine degli anni 60, spopolò la moda delle teen band locali, fenomeno strettamente collegato alla nascita oltreoceano della British Invasion. Così, da un giorno all’altro, tutti i garage di Memphis vennero improvvisati a sala prove e tutti i teenagers della zona, per essere veramente cool, dovevano avere la propria band di musica beat.
Tutto ciò ebbe come conseguenza che a Memphis il music business cominciò a muoversi anche in questa direzione e alcune etichette/produttori misero sotto contratto quelle teen band che spiccassero su tutte per potenziale commerciale. I produttori Chips Moman e Dan Penn nel 1966 ne individuarono una in particolare: i The Devilles, poi diventati The Box Tops, la migliore blue eyed soul band di tutto lo Shelby. Moman e Penn spremettero la band ai limiti dell’inverosimile per i quattro anni successivi contribuendo a far diventare i sedicenni The Box Tops un fenomeno quasi planetario: oltre 4 milioni di 45 giri venduti, tre singoli nella top tenamericana, due album e più di 300 concerti in giro per il mondo.
All’interno dei The Box Tops si mise in evidenza su tutti un membro in particolare (guarda a caso il lead vocalist) con un’innata propensione verso la musica nera – il padre Sidney era un maestro di musica jazz – e una voce come non si sentivano da tanti anni dal lato “bianco” di Memphis: il suo nome era William Alexander Chilton, da tutti chiamato semplicemente Alex.

Alex-Chilton Alex Chilton aveva appena sedici anni quando, da un giorno all’altro, dovette assentarsi dalle lezioni del proprio liceo a tempo indeterminato, lasciando i suoi compagni di classe, giorno dopo giorno, nell’apprensione più totale. Un pomeriggio dopo scuola poi molti degli stessi compagni trovarono risposta accendendo la televisione e sintonizzandosi sul programma The Big Five Show, noto anche come Upbeat, dove spesso facevano apparizione le band più in voga del periodo, americane e non. Passarono per quello studio i The Who, The Rolling Stones, The Monkees, gli Yardbirds e, una sera del 1967, anche i The Box Tops con il loro singolo più famoso, The Letter – andiamo! Chi non ha mai ballato sulle note di questa canzone ad un party? – che Chilton interpretò con una maturità inquietante per un diciassettenne semi-sbarbato.
Un bel giorno poi nel febbraio 1970, per un motivo o per l’altro, anche se l’eccessivo sfruttamento da parte dei produttori giocò un ruolo determinante nella decisione finale, la band si sciolse o, meglio, la formazione originale si sciolse, dal momento che invece il brand The Box Tops andò avanti per anni. Bill Cunningham, il bassista, apportò come versione ufficiale il fatto che dovesse tornare a scuola, mentre Chilton e Talley si sentirono pronti per intraprendere dei progetti artistici differenti. Così, all’alba del 1971 l’appena ventenne Alex Chilton era già un mostro della discografia americana e trascorreva le sue giornate un po’ a casa dei genitori a comporre nuove canzoni, un po’ in giro per i garage di Memphis a fare delle jam session con altre teen band locali.
Ben diversi (e meno entusiasmanti) sono i preamboli che servono ad annunciare l’altro protagonista della storia.

chris-bell Christopher Branford Bell, meglio noto come ChrisBell, infatti, era un timido e introverso ragazzotto con una passione quasi maniacale per la musica bianca d’oltreoceano (Beatles, Led Zeppelin, Rolling Stones, Yardbirds, The Who e Kinks la sua religione) e per la musica in generale, comprendente anche gli aspetti più tecnici del suono, dalla registrazione alla tecnologia al suo servizio. Studente nella media, Bell aveva in realtà soltanto due hobby che gli interessassero veramente: bazzicare per gli Ardent Studios (con lo spirito di Pinocchio nel “paese dei balocchi”) e suonare in una band. Dal 1964 Bell suonò in decine di teen band diverse, in particolare nei The Jynx, una delle band liceali migliori per il Rhythm & Blues di stampo britannico. E’ grazie all’esperienza The Jynx che, per la prima volta nel 1966, prima ancora dei The Box Tops, Bell e Chilton suonarono insieme per un paio di settimane: il secondo accettò la richiesta del primo di entrare a far parte della band come lead vocalist. Due settimane dopo poi Chilton mollò tutto per dedicarsi a tempo pieno ai Box Tops ma intanto tra i due cominciava a nascere sempre più intesa e ammirazione reciproca.
Siccome nella vita in generale funziona quasi sempre che “dopo il danno la beffa”, Bell ed i suoi Jynx non solo persero il cantante appena reclutato, ma anche il bassista che guarda a caso suonava pure lui nei Box Tops, vale a dire quel Bill Cunningham che nel 70 lasciò tutto per tornare a scuola, ricordate?
Bell rimase così senza una band stabile ma con molti sogni (e canzoni) nel cassetto. Poco male, l’occasione per rifarsi si presentò quasi subito, nel 1969, quando Bell, insieme con il batterista Jody Stephens e il bassista Andy Hummel, formò gli Icewater.

Bene, all’alba del 1971, mentre un veterano Alex Chilton stava sondando il terreno per nuove avventure musicali, un giovane di belle speranze Chris Bell continuava a dilettarsi con la sua band locale.
Tuttavia, Alex Chiltonnon non si era dimenticato della sua controparte, affatto! Dopo aver rispedito al mittente una peraltro invidiabile offerta come lead vocalist da parte dei Blood, Sweat & Tears, Chilton bussò alla porta di casa Bell per chiedere se Chrisfosse interessato a formare con lui una sorta di duo sul modello Simon & Garfunkel. Al momento della proposta, sono sicuro che Chilton si aspettasse qualunque risposta meno che un secco “no”. Ad ogni modo Bell ci tenne a specificare che, nel caso Chilton volesse presenziare ed eventualmente suonare a qualche prova degli Icewater, sarebbe stato di certo il benvenuto. Ovviamente, Chilton ci andò e sarebbe scontato nonché noioso stare qui a raccontarvi di come questo incontro comportò la nascita, in breve periodo, di una band dal potenziale enorme: i Big Star (nome e logo presi entrambi in prestito dalla catena di supermercati che spopolava nel Tennessee negli anni 60, Big Star Markets).
In un lampo, i neonati Big Star si ritrovarono all’interno degli studi di registrazione Ardent (avevate dubbi?) a registrare un album sotto produzione della mitica Stax Records, al quale diedero il titolo – successivamente visto come una maledizione – di #1 Record.

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La copertina di Number One Record, esordio dei Big Star

Questo album è senza dubbio una delle massime espressioni del Power Pop, genere nato appunto a cavallo tra i 60’s e i 70’s la cui caratteristica principale è quella di fondere gli elementi “power” del più genuino rock & roll britannico e le melodie più “pop” dei Beatles o dei Byrds (rieccoli spuntare). Ci troviamo di fronte a uno dei dieci, massimo quindici dischi pop/rock migliori degli anni ’70 ma #1 Record è anche uno dei lavori più incompresi, sottovalutati e decaduti di tutto il decennio. Rimasto sugli scaffali dei negozi di dischi di Memphis, invenduto, per oltre dieci anni e oscurato dall’avvento dell’hard rock, guadagnò la notorietà che avrebbe meritato (e comunque non abbastanza!) soltanto a partire da metà anni ’80.

Intanto i Big Star non stavano certo con le mani in mano: due anni dopo pubblicarono un secondo EP, Radio City, e nel ’78 arrivò Third. La band aveva sfiorato la fortuna, ma il successo non arrivò mai. Quello che resta ai fan, oltre a un album reunion del 2005 intitolato In Space e a qualche live degli anni ’90, è la loro incredibile musica; alla storia che vi ho raccontato però manca un lieto fine.

Chris Bell morì giovane e infelice, 15 giorni prima del suo ventottesimo compleanno, dopo aver regalato al mondo altri capolavori di assoluto valore, come l’album solista I Am The Cosmos.
Alex Chilton, invece, registrò altri due album con i Big Star (Radio City e Third) per poi dedicarsi alla produzione – i The Cramps tra le sue migliori scoperte, dici poco? – sempre e comunque non rinnegando mai i Big Star, anche se, talvolta, fu inevitabile che ne parlasse come una sorta di incidente di percordo.
Andy Hummel, invece, al termine del periodo promozionale, anch’esso fallimentare, di Third, decise di laurearsi e intraprese un’ inaspettata carriera accademica come professore di letteratura inglese.
Jody Stephens, infine, dopo la morte avvenuta nel 2010 di entrambi Chilton e Hummel, è l’unico Big Star rimasto a potersi godere la crescente fama postuma accumulata dalla sua ex-band, chissà con quali pensieri per la testa a riguardo.

In un aspetto però i Big Star possono considerarsi imbattibili, e cioè nel culto che ben presto ne nacque. E’ come se i Big Star rappresentassero un patrimonio personale di pochi, quasi come se #1 Record fosse il rifugio segreto di ciascuno di noi, il luogo dove andiamo a rifugiarci se ci sentiamo giù di morale o se dobbiamo riflettere o se dobbiamo esultare per una buona notizia. Non vorrei essere frainteso: #1 Record non è l’unico album a trasmettere determinate emozioni, ma sulla mia pelle, opinione personale, il fatto che gli altri album con simili qualità li stiano contemporaneamente ascoltando milioni di persone nel mondo ne diminuisce il fascino generale. Per Chilton, Bell, Stephens e Hummel questa mia considerazione sarebbe semplicemente una piccola e amara soddisfazione ma, considerando il mostro in cui si è trasformato il mercato musicale, fatto di artisti e canzoni creati a tavolino, il significato che una band come i Big Star ha assunto nel tempo vale più di qualunque disco venduto.

Edoardo Grimaldi

– la seconda parte del reportage, con la recensione di #1 Record, si trova qui

Canaday: un critico senza bloggo

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Terrence Stamp in Big eyes, nel ruolo di John Canaday

The smell of money è un romanzetto che racconta un intrigo nel mondo dell’arte dalla particolare prospettiva del giovane pittore Bill, con toni arguti ed atmosfere raffinate. Nulla di che, in definitiva.
Se questo giallo di poche pretese ha un mercato oltre le bancarelle “Tutto a un euro”, tanto da venire specificamente ricercato in rete tra decine di crime novels anni ’40 esattamente identiche per pregio narrativo e spessore letterario, la ragione è una sola: Matthew Head ne è l’autore.
Dietro questo pseudonimo si nasconde infatti il nome più noto del critico d’arte americano John Canaday (1907-1985), recentemente portato sul grande schermo dalle fattezze aguzze di Terence Stamp nel film Big eyes di Tim Burton – come abbiamo già visto, una pellicola pregna di riflessioni interessanti.

Siamo dunque di fronte ad un divertissement letterario, lo svago romanzesco di una penna che per diciassette anni è stata la colonna della rubrica d’arte del New York Times. Dal 1959 al 1976 la firma di Canaday ha avuto il potere di far nascere e declinare il mito di questo o quell’artista, favorire o ostacolare le carriere di pittori, scultori e movimenti. Non era certo condiscendente né timido, la sua posizione non glielo avrebbe permesso: il suo primo articolo, datato 6 settembre, appena pochi giorni dopo la sua nomina, scosse tutto il mondo dell’arte per la violenza con cui contestava le fila dell’Espressionismo Astratto, corrente simbolo dell’America di quegli anni, accusata di fondarsi su “incompetence and deception”, disvalori “che circondano questi artisti seri e talentuosi”. Inutile dire che si fece parecchi nemici e fu una delle persone più odiate nel mondo dell’arte fino a quando non si ritirò dalla professione per assecondare il suo estro letterario.
Eppure non credo che Big eyes gli renda giustizia quando lo ritrae un po’ altezzoso e un po’ incontentabile, sempre e comunque decisamente arcigno nelle sue stroncature dei Keane, i protagonisti del film.
La figura del giornalista (e con lui tutta la sua categoria) viene ridotta ad una caricatura, una sorta di versione in carne ed ossa del critico gastronomico represso Anton Ego, personaggio del film d’animazione Disney Ratatouille. Anche le citazioni proposte con eloquenti primi piani del volto severo di Stamp in dolcevita lo confermano: questi imbrattacarte sono dei raffinati rompipalle il cui compito principale consiste nel denigrare ciò che piace alla gente.

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Il vero John Canaday

Però nella realtà storica John Canaday non era un vecchio hipster ante-litteram; è stato invece un personaggio di spicco nel panorama artistico americano tra gli anni sessanta e settanta dello scorso secolo. In un periodo in cui gli Usa oscuravano il mondo con la loro ombra, proponendo il loro modello tanto insistentemente in qualsiasi ambito che ogni manifestazione sociale, economica e culturale non poteva che essere “americana” o “anti-americana” tout court, Canaday è stato consapevole dell’importanza del suo lavoro e ha cercato di svolgerlo al meglio seguendo le proprie più radicate convinzioni, contribuendo così a traghettare la figura professionale del critico nel mondo capitalistico.
“Non è nulla più che arte decorativa, priva di ogni sostanza” mi sembra di sentirlo tuonare a proposito di Rothko, di cui disprezzò (o quantomeno deprezzò significativamente) l’approccio “less is more”. Personalmente, ritengo che quei quadri rappresentino invece l’approssimazione più vicina all’Assoluto estetico che uomo possa plasmare; due visioni diametralmente, direi quasi visceralmente, opposte. Eppure non devo scendere ad alcun compromesso per concordare con questa imparziale osservazione di Canaday: “l’arte di Rothko stimola una sorta di auto-ricezione nell’osservatore ma i suoi estimatori viziano questo considerevole potere ponendo l’attenzione sui suoi limiti” laddove l’essenza dell’opera non può che trascendere la materia per diventare molto semplicemente, Colore.

Ecco chi era l’alter ego di Mattehw Head. Una persona intelligente, conscia delle responsabilità che la pubblicazione a mezzo stampa di un’opinione porta con sé, capace com’è di influenzare profondamente il pubblico – ciò succedeva quando per seguito e credibilità la stampa era ancora degna di questo nome.
In due parola, era onesto cioè proteso alla comprensione e interpretazione dell’arte più che alla sua categorizzazione in “bello”, “brutto”, “accettabile” e “indecente”. Sul suo essere conservatore, talvolta persino reazionario, bisogna considerare l’influenza dall’epoca in cui era nato; la passione per i classici, Rubens, Dalì e i Fauves; gli studi nella tradizionalista Yale; l’esperienza nei Marines durante la seconda guerra mondiale. In ogni caso queste contingenze non gli hanno impedito di sviluppare alcune posizioni profondamente moderne, o quantomeno molto applicabili all’attuale stato dell’arte.

Infatti al di là dell’opposizione alla New York School, la crociata per cui Canaday è conosciuto (perduta esattamente come le Crociate storiche), il critico ebbe sempre un grande rispetto per l’artista in quanto lavoratore.
Forse perché in lui rimase indelebilmente nitida la memoria di quanto la Work Projects Administration, agenzia governativa creata durante il New Deal, fece all’epoca della Depressione in favore degli artisti americani, “degli esseri umani impegnati in un’occupazione legittima”. Un sostegno che non era elemosina e sussidi, ma la giusta retribuzione per un lavoro ritenuto importante e degno di essere salvaguardato, al pari dell’industria (che comunque, ad oggi neanche quella è tanto ben messa).
Mentalità d’altri tempi – che però mi ricorda tante discussioni con coetanei alla ricerca di un impiego in campo artistico che sia riconosciuto economicamente e quindi socialmente. In questo la funzione di critico è preminente: impedire che la società si addormenti poggiando sul suo stesso addome, fare in modo che veda non solo la bellezza ma anche la sua utilità.
Canaday non vedeva la grande arte come il lavoro di filosofi stoici e intellettuali, ma di gente che lavora duro e che si guadagna da vivere col lavoro della mente. E con pennelli e tele, come è sacrosanto che sia.

Giulio Bellotto