’50s

Jefferson Airplane: il viaggio verso Surrealistic Pillow

Sesso, droga, rock n roll, libertà, arte, poesia, Haight Street: era il paradiso terrestre

Non c’è molto altro da aggiungere alle parole del compianto Paul Kantner – tornerà protagonista in seguito – per descrivere cosa realmente rappresentasse agli occhi di una generazione la San Francisco Bay di metà anni ’60.
Questo è il periodo storico che si frappone tra il movimento beat degli anni ’50 e il nascente movimento hippie di fine anni ’60; un periodo di transizione generazionale e culturale, nel quale i ragazzi che a loro tempo vissero direttamente l’esperienza della Beat Generation  cominciano a superare la quarantina,  mentre le centinaia di migliaia di ragazzi che prenderanno parte al movimento hippie sono ancora adolescenti. L’atmosfera che si respira nell’area di San Francisco durante questo interregno generazionale viene immortalata perfettamente dalla figura di Ken Kesey, scrittore – anche se definirlo tale è sminuente –  e autore del romanzo capolavoro “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (1962).
È proprio su questo background di trait d’union culturale che la nostra storia può cominciare.

Ero troppo giovane per essere un beatnik, ma troppo vecchio per essere un hippie – Ken Kesey

ken_keseySe anche voi foste vissuti in questo periodo e anche voi foste stati, come Kesey, “troppo giovani beatnik, ma troppo vecchi hippie”, ci sarebbero stati solo tre luoghi negli Stati Uniti d’America dove avreste voluto stare giorno e notte: Cambridge (Boston), Greenwich Village (New York City) e Berkeley (San Francisco Bay). A metà anni ’60, questi sono i tre principali centri di musica folk americana, dove regolarmente si esibiscono band e artisti in uno scenario beat. Kesey, che per carattere tende a portare ogni situazione all’eccesso, proprio non riesce a farsi bastare uno soltanto di questi tre centri focali giovanili: li vuole vivere tutti. È così che, a partire dal 1964, insieme a un gruppo di amici – prenderanno il nome di Marry Pranksters – organizzano mensilmente viaggi in scuolabus da Berkeley a New York a Boston, vivendo comunitariamente. Durante la permanenza in ciascuno dei tre luoghi, organizzano dei festini, aperti al pubblico, chiamati “Acid Tests”, nel corso dei quali assistono a esibizioni di varie band locali sotto effetto di LSD. È proprio l’abituale consumo di sostanze stupefacenti che rappresenta il vero punto di rottura tra la cultura beat e quella hippie.

Non passa molto tempo prima che Kesey diventi un nome noto alla scena beat e “proto-hippie” di entrambe le “coast” e sono moltissime le persone che iniziano a imitarlo. Uno dei luoghi prescelti da Kesey per questi stravaganti festini è una famosa coffee house di Berkeley, sede di numerosissimi concerti folk e blues, la Cabale Creamery, il cui fondatore, Chandler A. Laughlin III – oggi noto come Travus T. Hipp –  diventa uno dei primi a rimanere ammaliato dalla figura di Kesey e in generale dallo stile di vita dei Marry Pranksters. Nel 1965 Laughlin, ispiratosi a Kesey, consegna alla storia quello che può essere tranquillamente considerato come il primo vero festival musicale a sfondo psichedelico di sempre, il “The Red Dog Experience”. Ospitato dal celebre Red Dog Saloon nella piccola e desolata Virginia City (Nevada), il festival attrae qualche centinaio di ragazzi da tutta la California e si svolge in maniera confusionaria, senza una vera distinzione tra pubblico e artisti, tra palco e dancefloor e, soprattutto, con un unico aspetto principale: il consumo di peyote americano. Come si può immaginare, il “The Red Dog Experience” non sarà tanto ricordato per la qualità della performance, quanto per i nomi degli artisti partecipanti, la gran parte dei quali, solo un paio di anni dopo, sarebbero diventati i nomi di punta della scena musicale californiana: Big Brother & The Holding Company, The Charlatans, Quicksilver Messenger Service, Grateful Dead e, infine, dei giovanissimi Jefferson Airplane.

I Jefferson Airplane, nel periodo del “The Red Dog Experience”, sono poco più di una neonata e sconosciuta band di San Francisco, ruotante attorno le figure di Marty Balin e Paul Kantner. Il primo è uno dei co-fondatori del “The Matrix”, nightclub dell’area di San Francisco; il secondo è un giovane e promettente musicista bazzicante per la California in cerca di fortuna: nel suo periodo da gavetta, Kantner suona con gli allora altrettanto sconosciuti Jerry Garcia, David Crosby, Janis Joplin e vive tra Los Angeles, San Francisco, Santa Clara e Berkeley.
L’incontro tra i due comporta la nascita di una band creata per essere la resident band del The Matrix e, dopo aver reclutato la cantante Signe Toly Anderson, cominciano a suonare regolarmente nel night club di Balin.
La prima vera svolta – ve ne saranno due nella carriera degli Airplane – avviene nella seconda metà del 1965. La band, ingaggiata per un paio di esibizioni all’interno della Santa Clara University, viene presentata da Kantner a una sua vecchia conoscenza: il chitarrista Jorma Kaukonen.

jormaSu Jorma Kaukonen si potrebbe aprire un capitolo a parte lungo pagine intere dato che, a 25 anni ancora da compiere, può vantare una vita che sarebbe ricca di esperienze persino agli occhi di un cinquantenne. Nato a Washington, D.C. da una famiglia di origini finlandesi e russe, a causa del lavoro del padre, cresce dapprima nella capitale, poi nelle Filippine, dove entra in contatto con la musica folcloristica locale e comincia a suonare la chitarra. Torna nella sua città natale a 14 anni, dove incontra colui che sarà suo partner musicale a vita: il bassista Jack Casady. Con Casady fonda la band blues-rock The Triumphs, con cui perfeziona la sua conoscenza del blues. A 18 anni si trasferisce in Ohio per frequentare l’Antioch College, periodo in cui viene iniziato dall’amico Ian Buchanan – da non confondere con l’omonimo attore di “General Hospital” – all’arte del finger-picking. Dopo 3 anni si sposta in California, a San Jose, dove insegna chitarra in una scuola di musica e si esibisce dal vivo saltuariamente, accompagnando una giovanissima Janis Joplin e facendo la conoscenza di numerosi aspiranti musicisti locali, tra cui il nostro Paul Kantner.
Quando però nell’autunno del ’65 viene invitato dallo stesso Kantner a partecipare a una jam session con i nascenti Jefferson Airplane alla Santa Clara University, a diretta domanda se voglia unirsi in pianta stabile alla band la risposta è decisa: “no”. Lui?! Un purista del blues in una psych-rock band? No, meglio di no! E sarebbe anche un rifiuto definitivo se Ken Kesey, lì presente, non tirasse fuori dal suo scuolabus un delay che utilizzava per i suoi “Acid Tests”. Una volta collegato alla chitarra, Jorma scopre un mondo nuovo, il mondo delle meraviglie musicali della California, di cui i Jefferson Airplane saranno tra i principali portabandiera per i 5 anni successivi.

Con l’ingresso di Kaukonen, che nel frattempo ha fatto pressione su Balin e Kantner per accogliere in gruppo anche il fedele Casady, gli Airplane non solo diventano una band completa, ma anche e soprattutto una band unica. L’aspetto del sound che li caratterizza è lo stesso aspetto che caratterizza tutte le altre band dell’area di San Francisco nello stesso periodo storico: la componente psichedelica. Ciò però che li differenzia dalle altre è il fatto che mentre band come i Grateful Dead, i Big Brother & The Holding Company o i Quicksilver Messenger Service utilizzano il blues come genere di riferimento per comunicare l’aspetto psichedelico (Acid Blues), gli Airplane scelgono il folk (Psychedelic Folk-Rock). Ovviamente non mancano anche in loro le fondamenta blues – non dimentichiamoci che la loro chitarra principale è quella di Jorma Kaukonen – ma, a differenza dei “colleghi” sopra citati, è un blues utilizzato per colorare gli arrangiamenti e non proprio per aiutarsi nel processo compositivo, che infatti avviene soprattutto per mano di Balin e Kantner, non di Kaukonen e Casady.
Nel giro di un anno dalla loro formazione, la gente comincia lentamente a rendersi conto che nessuno, ma proprio nessuno, ha il sound dei Jefferson Airplane. Se ne accorge anche Matthew Katz, il più lesto tra gli addetti ai lavori ad aggiudicarsi la firma di Balin su un contratto. Katz, divenuto ufficialmente manager della band, li porta in studio con il produttore Tommy Oliver, per registrare un album sotto la RCA Victor Records, un album che prenderà il nome di “Jefferson Airplane Takes Off”.

Pubblicato nel settembre del 1966, “Takes Off” è un LP che unisce alla perfezione il folk e il blues alla componente psichedelica, ovvero quel tipico sound che già da qualche mese spopola tra migliaia di ragazzi californiani. L’album riscuote un considerevole successo negli Stati Uniti: le 15 mila copie vendute nella prima settimana (di cui più della metà soltanto a San Francisco) spingono la RCA a riprendere con grande urgenza le stampe. Come andava di moda in quegli anni, l’etichetta decide di omettere dalle ristampe il brano “Runnin’ Round This World” a causa di un testo con espliciti riferimenti al consumo di acidi. Tutt’ora a San Francisco e dintorni potreste trovare una delle 15 mila copie originali dell’album, il problema è il prezzo: dai 3 mila dollari a salire.
Jefferson Airplane - Takes Off - FrontSi può dire che con “Takes Off” i Jefferson Airplane prendono effettivamente il volo. Eppure, la seconda vera e definitiva svolta, deve ancora compiersi.

Il 15 Ottobre 1966, a pochi giorni dalla pubblicazione del disco, Signe Anderson lascia la band per partorire la sua prima figlia. Così Balin prende la palla al balzo per allontanare anche il batterista Skip Spence, una cui vacanza in Messico non preannunciata durante le registrazioni di “Takes Off” non è mai andata giù al resto del gruppo. In quell’occasione Spence venne sostituito dal batterista “jazz-oriented” Spencer Dryden, amico di Jack Casady, e anche questa volta a Dryden viene chiesto di sostituire Spence, in via definitiva però. Per il ruolo di cantante gli Airplane optano per la già nota Grace Slick – fino ad allora cantante dei The Great Society – per non alterare la peculiarità vocale della band, fortemente basata sull’intreccio di voci maschili e femminili.
L’alchimia musicale che si crea tra i membri dei “nuovi” Jefferson Airplane è qualcosa destinato a entrare di prepotenza tra le pagine più importanti della musica americana del XX secolo. Al suo interno si possono identificare tre anime (o coppie, se preferite) ben distinte: il duo storico Balin/Kantner, che dimostrò già in “Takes Off” di avere tutte le carte in regola per confermarsi una delle coppie più prolifiche sotto il profilo della composizione del panorama californiano; in grado di unire melodie fresche e incalzanti a una base musicale tradizionalmente folk, i due presentano regolarmene ai restanti membri del gruppo canzoni tanto meravigliose, quanto perfette per essere arrangiate in chiave “Airplane”. L’accoppiata Casady/Dryden, bassista e batterista di elevato spessore tecnico, è il motore del gruppo: le complesse linee di basso del primo si intrecciano perfettamente con le ritmiche semplici, marcate, talvolta tribali del secondo. La terza anima del gruppo è quella dal mood più “bluesy” e psichedelico: la chitarra blues stravolta dal delay di Jorma Kaukonen si alterna alla incredibile voce di Grace Slick, il cui contributo compositivo sarà di vitale importanza. Questi Jefferson Airplane danno vita in breve tempo a un album destinato a rivoluzionare per sempre la scena musicale americana, a influenzare per i decenni seguenti intere generazioni di musicisti e, soprattutto, a ricoprire il ruolo di “colonna sonora” di uno dei bienni più movimentati della storia recente dell’umanità.

Nel Novembre del ’66 la band entra negli studi della RCA per registrare il suo capolavoro. Nel frattempo però, per le strade di San Francisco c’è la netta sensazione che stia per succedere qualcosa di importante. Siamo all’inizio del 1967 e la Guerra del Vietnam sta vivendo l’apice della sua drammaticità: le forze statunitensi raggiungono il numero di 500 mila unità e le perdite superano le 70 mila, senza tuttavia che vi sia l’impressione di ottenere veri e propri successi. Il malcontento in patria comincia a lievitare, soprattutto nella fascia di popolazione tra i 18 e i 30 anni. In California – centro nevralgico del fermento giovanile – migliaia di ragazzi organizzano quotidiane manifestazioni, occupazioni e proteste contro la politica interventista del governo americano. La controcultura hippie, che negli ultimi anni si è notevolmente espansa, si schiera fermamente contro la guerra, tanto da diventare nell’immaginario collettivo uno dei maggiori simboli anti-interventisti di quegli anni. A Gennaio del 1967 Michael Bowen organizza un gigantesco “Human Be-In” all’aperto per le strade di San Francisco: è questo l’evento che introduce il movimento hippie all’intera nazione e al mondo. Nei giorni successivi, infatti, un evento simile verrà poi organizzato anche per le strade di New York. Il consumo di marijuana e di LSD – divenuto illegale dal 1965 – entra prepotentemente nella cultura di migliaia di giovani, parte di una collettività sempre più in crescita. Nel giugno dello stesso anno San Francisco, e in particolare il quartiere di Haight-Ashbury, è nettamente la capitale culturale più all’avanguardia degli Stati Uniti e non solo. La reinterpretazione del grande classico “San Francisco” da parte di Scott McKenzie raggiunge la top 50 americana e si posiziona addirittura al primo posto in quella britannica, trasmettendo, in un’era senza internet, ulteriori messaggi oltreoceano sul periodo di grande fermento che stava attraversando la California intera: “If you’re going to San Francisco be sure to wear some flowers in your hair”.

240px-JeffersonAirplaneSurrealisticÈ immerso in questo contesto che viene pubblicato, nel Febbraio del ’67, il capolavoro dei Jefferson Airplane: Surrealistic Pillow – nome preso da una frase di Jerry Garcia il quale, ascoltando il mix definitivo del disco dei suoi amici, se ne uscì con: “It sounds good. It sounds like a surrealistic pillow.” Il disco è una fusione totale tra folk-rock e psichedelia, qualcosa che in passato non è mai stato sentito, né inciso, neppure immaginato. Il lato A è composto da cinque brani che potrebbero essere tutti tranquillamente da “top chart”. L’incalzante “She Has Funny Cars”, scritta da Balin con la supervisione di Jorma Kaukonen, è una canzone totale: al riff di Kaukonen si accompagna una marcia tribale di Dryden, con il sostegno di una linea di basso tanto complessa quanto non invadente. Le voci di Slick e Balin si intrecciano meravigliosamente e sono uno dei punti di forza del brano. “Somebody to Love”, uno dei due pezzi che Grace Slick si portò dietro dai The Great Society, è il singolo di lancio dell’album, nonché uno dei maggiori inni generazionali, con un testo esplicitamente riferito al clima che si respira in quel periodo in Haigh Street, dove cinque “Airplane” su sei hanno la residenza. “My Best Friend”, un’eredità lasciata da Skip Spence, è la prima ballata presente sul disco, con complessi e meravigliosi intrecci vocali tra Slick, Balin e Kantner. “Today” è a mio avviso uno dei due capolavori dell’album: frutto del lavoro di composizione di Balin e Kantner, è una ballata malinconica con atmosfere psichedeliche e un testo enigmatico. Il lato A si chiude con l’introspettiva “Comin’ Back To Me”, composta ed eseguita quasi totalmente dall’ispiratissimo Marty Balin, in solitaria. Il lato B è probabilmente meno incisivo ma con all’interno qualche variazione degna di nota, rispetto al lato A. “3/5 of a Mile in 10 Seconds” è una piccola “She Has Funny Cars”; “D.C.B.A. – 25” è una meravigliosa mezza ballata con un fantastico arrangiamento di chitarra, ad opera di Jorma Kaukonen. Scritta ed eseguita dallo stesso Kaukonen troviamo poi “Embryonic Journey”, un pezzo strumentale di 2 minuti scarsi, con una chitarra acustica effettata suonata in finger picking. “White Rabbit” è il secondo singolo estratto dall’album: scritto da Grace Slick, è un altro di quei pezzi risalenti al suo periodo con i The Great Society ed è una marcetta psichedelica con un testo dagli espliciti riferimenti all’altro aspetto della controcultura hippie: l’acido. Slick si immagina “Alice nel paese delle meraviglie”: “One pill makes you larger and one pill makes you small / and the one that mama gives you don’t do anything at all / go ask Alice when she’s 10 feet tall”. A chiudere l’album ci pensa il pezzo che, a mio modo di vedere, è il secondo capolavoro del disco: “Plastic Fantastic Lover”. Composta da Marty Balin, si basa su un accordo di settima martellante per tutta la strofa, con una melodia vocale incalzante, rapida, fresca, quasi parlata. A far da contorno spiccano i soliti arrangiamenti figli del genio di Kaukonen.
Con un album del genere appena pubblicato, trascinato commercialmente dai due singoli “Somebody to Love” e “White Rabbit” (rispettivamente quinto e ottavo nella “Billboard Pop Singles Chart”) i Jefferson Airplane si impongono sul panorama musicale occidentale come una delle band più in voga del momento, tanto da essere indiscutibilmente una delle attrazioni principali dell’imminente Monterey Pop Festival. Insieme ai The Mamas & The Papas, Ravi Shankar, Otis Redding, The Animals, Janis Joplin, The Jimi Hendrix Experience, The Grateful Dead e The Who, gli Airplane danno vita a uno dei festival musicali più memorabili del secolo. Oltre ad essere considerato il punto di apice del movimento hippie – più anche di Woodstock, durante cui si intravedono già i primi segni di declino – il festival di Monterey è importante soprattutto perché segna ufficialmente l’ingresso della musica nella cultura giovanile, tanto da diventare uno dei principali mezzi di espressione del libero pensiero e, conseguentemente, vittima di persecuzione alla pari degli organi di stampa (ci si documenti sul “caso Lennon” a riguardo)

Tornando ai Jefferson Airplane e a Surrealistic Pillow, si potrebbero iniziare decine di riflessioni. Si potrebbe dire che pochi album nella storia della musica possono vantare un legame tanto prorompente con l’ambiente circostante. Si potrebbe aggiungere che trattasi assolutamente di uno di quegli innumerevoli casi in cui arte, musica e cultura si sviluppano parallelamente agli eventi storici contemporanei. Si potrebbe quasi considerare Surrealistic Pillow come un vero e proprio documento storico, in grado di consegnare ai postumi un assaggio di una cultura che si è sviluppata velocemente ed è scomparsa al doppio della velocità. Il movimento hippie si è praticamente estinto, o comunque ha perso completamente ogni significato socio-politico, già nel 1971. Invece, per Surrealistic Pillow quello fu solo l’inizio del viaggio verso l’immortalità. Non è necessario citare i centinaia di artisti che nei decenni successivi si sono ispirati direttamente o indirettamente al disco dei Jefferson Airplane per averne conferma. È sufficiente trovare mezz’ora per ascoltarlo e prendere consapevolezza che quanto accaduto in quegli anni non ha portato solo utopia e illusione, ma ha dato vita anche a pietre miliari nella storia della musica, perché dove c’è fermento, c’è creatività.

Edoardo Grimaldi

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Ave, Cesare! Lo stereotipo che rievoca gli stereotipi

Ancora una volta i fratelli Coen tornano al cinema con una commedia sottile e ironica. Riprendono la tematica della “macchina di Hollywood” per ricreare un cinema che parla del cinema stesso. Lo fanno con una mente lucida e creativa per poter donare ad un lontano passato una patina brillante e mai banale.

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Band #3: The Red Roosters

Ormai li conoscete. Si definiscono “A true rock’n’roll band from Milan, Italy”.
Sono un giovane quintetto italiano devoto al più puro rock ’n’ roll di stampo anglosassone. Nascono a Milano nel 2010 e nei primi anni d’attività cominciano a macinare esperienza suonando in giro per Milano e dintorni e sperimentando un vario numero di formazioni e musicisti.
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Band #2: The Remington

Il loro debutto discografico è avvenuto come trio nel 2011 su 7”, un bel singolo di chiara ispirazione folk-rock con arrangiamenti crudi e molto efficaci che riportano alla mente i Byrds di fine anni 60. Successivamente nel loro primo album, Italian Market, hanno introdotto le tastiere come elemento fisso del sound, fatto che ha contribuito a forgiare un disco da atmosfere senza precedenti in Italia: un perfetto connubio tra i suoni degli Wilco nell’era A.M./Being There e quelli britpop dello stesso periodo storico. Stiamo parlando dei The Remington.
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#2, Glenn Miller, il Re dello Swing

Eccoci al secondo appuntamento con la rubrica sugli artisti il cui copyright è prescritto dal primo gennaio di quest’anno: oggi vi presentiamo Glenn Miller!
Direttore d’orchestra d’oltreoceano e padre della musica Swing anni 40 e 50, Glenn Miller non è solo un grande musicista e compositore ma, insieme di poco sotto a istituzioni come Gershwin e Duke Ellington, certamente tra i più grandi musicisti americani di tutti i tempi.

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Con la sua musica non solo fece ballare un intera generazione di persone nel periodo 1935-1945, ma, arruolatosi come volontario durante la WWII, organizzò concerti e serate per gli stanchi battaglioni di soldati al fronte. In the mood, Moonlight Serenade e Sunrise Serenade alcuni dei più grandi successi. Grazie a lui si deve la propagazione in Europa del Jazz e dello Swing. Fu il primo a ricevere l’ambitissimo premio Disco d’Oro (premio che si riconosce a chi vende un certo numero di copie, generalmente 1 milione) per il singolo Chattanooga Choo Choo nel 1942. Il suo lascito fu immenso, la Glenn Miller Orchestra suono per diversi anni dopo l’improvvisa e beffarda scomparsa del Dicembre del 1944, avvenuta in circostanze molto strane su un volo militare per Parigi dove avrebbe dovuto suonare per un battaglione.

Questi aspetti molto commerciali del musicista non vi traggano in inganno, Glenn Miller è paragonabilissimo ai grandi musicisti della storia. Non compose “molto”, la sua attività principale era registrare, secondo lo stile delle Big Bands, ciò che gli veniva proposto o scritto, rendendo questi pezzi degli autentici capolavori. Fu capace di innovare il jazz e di incanalarlo verso nuovi orizzonti, lo swing, mettendo le basi addirittura su quello che sarà poi negli anni 50-60 il Rock’nRoll. La profondità (ascoltate Moonlight Serenade), il ritmo (ascoltate In The Mood )e l’atmosfera creata dalla sua musica penetrano all’interno dell’ascoltare proprio come possono fare i grandi pezzi dei grandi maestri classici del passato, si Glenn Miller è tra i più grandi.

Sebastiano Totta

Canaday: un critico senza bloggo

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Terrence Stamp in Big eyes, nel ruolo di John Canaday

The smell of money è un romanzetto che racconta un intrigo nel mondo dell’arte dalla particolare prospettiva del giovane pittore Bill, con toni arguti ed atmosfere raffinate. Nulla di che, in definitiva.
Se questo giallo di poche pretese ha un mercato oltre le bancarelle “Tutto a un euro”, tanto da venire specificamente ricercato in rete tra decine di crime novels anni ’40 esattamente identiche per pregio narrativo e spessore letterario, la ragione è una sola: Matthew Head ne è l’autore.
Dietro questo pseudonimo si nasconde infatti il nome più noto del critico d’arte americano John Canaday (1907-1985), recentemente portato sul grande schermo dalle fattezze aguzze di Terence Stamp nel film Big eyes di Tim Burton – come abbiamo già visto, una pellicola pregna di riflessioni interessanti.

Siamo dunque di fronte ad un divertissement letterario, lo svago romanzesco di una penna che per diciassette anni è stata la colonna della rubrica d’arte del New York Times. Dal 1959 al 1976 la firma di Canaday ha avuto il potere di far nascere e declinare il mito di questo o quell’artista, favorire o ostacolare le carriere di pittori, scultori e movimenti. Non era certo condiscendente né timido, la sua posizione non glielo avrebbe permesso: il suo primo articolo, datato 6 settembre, appena pochi giorni dopo la sua nomina, scosse tutto il mondo dell’arte per la violenza con cui contestava le fila dell’Espressionismo Astratto, corrente simbolo dell’America di quegli anni, accusata di fondarsi su “incompetence and deception”, disvalori “che circondano questi artisti seri e talentuosi”. Inutile dire che si fece parecchi nemici e fu una delle persone più odiate nel mondo dell’arte fino a quando non si ritirò dalla professione per assecondare il suo estro letterario.
Eppure non credo che Big eyes gli renda giustizia quando lo ritrae un po’ altezzoso e un po’ incontentabile, sempre e comunque decisamente arcigno nelle sue stroncature dei Keane, i protagonisti del film.
La figura del giornalista (e con lui tutta la sua categoria) viene ridotta ad una caricatura, una sorta di versione in carne ed ossa del critico gastronomico represso Anton Ego, personaggio del film d’animazione Disney Ratatouille. Anche le citazioni proposte con eloquenti primi piani del volto severo di Stamp in dolcevita lo confermano: questi imbrattacarte sono dei raffinati rompipalle il cui compito principale consiste nel denigrare ciò che piace alla gente.

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Il vero John Canaday

Però nella realtà storica John Canaday non era un vecchio hipster ante-litteram; è stato invece un personaggio di spicco nel panorama artistico americano tra gli anni sessanta e settanta dello scorso secolo. In un periodo in cui gli Usa oscuravano il mondo con la loro ombra, proponendo il loro modello tanto insistentemente in qualsiasi ambito che ogni manifestazione sociale, economica e culturale non poteva che essere “americana” o “anti-americana” tout court, Canaday è stato consapevole dell’importanza del suo lavoro e ha cercato di svolgerlo al meglio seguendo le proprie più radicate convinzioni, contribuendo così a traghettare la figura professionale del critico nel mondo capitalistico.
“Non è nulla più che arte decorativa, priva di ogni sostanza” mi sembra di sentirlo tuonare a proposito di Rothko, di cui disprezzò (o quantomeno deprezzò significativamente) l’approccio “less is more”. Personalmente, ritengo che quei quadri rappresentino invece l’approssimazione più vicina all’Assoluto estetico che uomo possa plasmare; due visioni diametralmente, direi quasi visceralmente, opposte. Eppure non devo scendere ad alcun compromesso per concordare con questa imparziale osservazione di Canaday: “l’arte di Rothko stimola una sorta di auto-ricezione nell’osservatore ma i suoi estimatori viziano questo considerevole potere ponendo l’attenzione sui suoi limiti” laddove l’essenza dell’opera non può che trascendere la materia per diventare molto semplicemente, Colore.

Ecco chi era l’alter ego di Mattehw Head. Una persona intelligente, conscia delle responsabilità che la pubblicazione a mezzo stampa di un’opinione porta con sé, capace com’è di influenzare profondamente il pubblico – ciò succedeva quando per seguito e credibilità la stampa era ancora degna di questo nome.
In due parola, era onesto cioè proteso alla comprensione e interpretazione dell’arte più che alla sua categorizzazione in “bello”, “brutto”, “accettabile” e “indecente”. Sul suo essere conservatore, talvolta persino reazionario, bisogna considerare l’influenza dall’epoca in cui era nato; la passione per i classici, Rubens, Dalì e i Fauves; gli studi nella tradizionalista Yale; l’esperienza nei Marines durante la seconda guerra mondiale. In ogni caso queste contingenze non gli hanno impedito di sviluppare alcune posizioni profondamente moderne, o quantomeno molto applicabili all’attuale stato dell’arte.

Infatti al di là dell’opposizione alla New York School, la crociata per cui Canaday è conosciuto (perduta esattamente come le Crociate storiche), il critico ebbe sempre un grande rispetto per l’artista in quanto lavoratore.
Forse perché in lui rimase indelebilmente nitida la memoria di quanto la Work Projects Administration, agenzia governativa creata durante il New Deal, fece all’epoca della Depressione in favore degli artisti americani, “degli esseri umani impegnati in un’occupazione legittima”. Un sostegno che non era elemosina e sussidi, ma la giusta retribuzione per un lavoro ritenuto importante e degno di essere salvaguardato, al pari dell’industria (che comunque, ad oggi neanche quella è tanto ben messa).
Mentalità d’altri tempi – che però mi ricorda tante discussioni con coetanei alla ricerca di un impiego in campo artistico che sia riconosciuto economicamente e quindi socialmente. In questo la funzione di critico è preminente: impedire che la società si addormenti poggiando sul suo stesso addome, fare in modo che veda non solo la bellezza ma anche la sua utilità.
Canaday non vedeva la grande arte come il lavoro di filosofi stoici e intellettuali, ma di gente che lavora duro e che si guadagna da vivere col lavoro della mente. E con pennelli e tele, come è sacrosanto che sia.

Giulio Bellotto

Big eyes – è pur sempre Tim Burton, eppure..

Che il tocco magico di Tim Burton sia davvero svanito, non sta a me dirlo.
Ma gli ultimi suoi film hanno perso qualcosa, questo penso l’abbiano notato tutti.
Con Sweeney Todd, il regista aveva lasciato l’animazione musicale per tuffarsi nel musical recitato, riuscendo a creare ancora una volta, una atmosfera fantastica.
Poi, con Alice in Wonderland, Dark Shadows, Frankenweenie (anche se, devo ammettere, la prima mezz’ora era stupenda), Burton ha perso quota insieme alla sua lucida visionarietà, che non riesce a recuperare nemmeno con la sua ultima opera, Big Eyes.

Big eyes

La locandina del film, al cinema dal 1 gennaio

L’ambientazione nel secondo dopoguerra americano non è nuova ed è molto cara al regista: quello che resta probabilmente il suo miglior film, Edward mani di forbice, è ambientato in un contesto simile – lo stesso vale per Ed Wood.
La cornice c’è, manca però il dipinto e poiché si parla di arte, non è un difetto da poco: è come se mancasse proprio la principale e più personale connotazione del surreale regista.
Le situazioni stranianti che Burton crea restano sempre divertenti; non c’è che dire, l’autore è sempre riuscito a farci sorridere col suo umorismo stravagante. Ma il suo più importante registro è sempre stato quello della sensibilità, senza cadere mai nel banale o nel melodrammatico.
Questo registro sembra disperso.
Big Eyes ricorda piuttosto una di quelle commedie o fiction che si vedevano un tempo la domenica pomeriggio su Rete 4.
Il film narra una vicenda senza dubbio interessante: il successo (immeritato) di Walter Keane, che si è in realtà appropriato delle opere della moglie Margareth sfruttando la sua insicurezza.
La pittrice impiegherà più di dieci anni per raccogliere il coraggio di emanciparsi dal brusco marito, riprendendosi ciò che a lei è più caro, la sua vita, oltre che la sua arte.

Protagonista indiscussa è una Amy Adams versione bionda, meglio inquadrata da Burton rispetto a quanto non abbia fatto David O’ Russel che qualche anno fa l’ha incoronata suo feticcio e musa. L’attrice non è più oggetto di una contemplazione registica adorante e assoluta come invece accade in film come American Hustle e The Fighter.
Invece Burton nasconde le imperfezioni della mezza età e ce la presenta nel modo a lei più confacente: una fatina dagli occhi blu (come l’avevamo vista in Come d’incanto, una delle sue prime apparizioni sul grande schermo), perfetta per il ruolo di donna timorata di Dio che non riesce a farsi spazio nella relazione con un uomo dall’ego molto più forte del suo.
La Adams è stata, per adesso, già premiata con il Golden Globe.
Ad affiancarla c’è Christoph Waltz, che, anche a detta della critica, risulta sotto tono nella recitazione.
A mio avviso sembra che invece sia fatto apposta per questa parte: rende benissimo il personaggio di Walter, squallido e fastidioso sin dal primo momento, tanto da non consentire allo spettatore di trovare in lui alcuna nota positiva. Riesce insomma ad essere odioso come già fu in Quella sporca dozzina di Tarantino.

Nel film, oltre alla figlia, ad aiutare la povera Margareth sono anche i Testimoni di Geova con cui la pittrice viene in contatto per caso, facendo entrare nella sua nuova residenza alle Hawaii due donne che stanno cercando proseliti – il porta a porta è un altro elemento ricorrente nei film di Burton, come per esempio in Edward mani di forbice.
Non è però chiaro quale ruolo il regista dia ai Testimoni di Geova: se si limiti solamente a narrare i fatti o se voglia, invece, mostrare come persone deboli e sole come Margaret possano essere risucchiate in ambienti e contesti, da cui poi non riescono ad uscire facilmente.

Alcuni grandi sognatori ed esteti del cinema col tempo hanno visto affievolire la propria vena creativa; è capitato ad Antonioni ed allo stesso Fellini, i quali, ad un certo punto della loro vicenda artistica, non hanno saputo rinnovarsi e hanno finito col produrre opere non più originali.
Lo stesso Wenders, forse accorgendosi che il suo tocco rischiava di non essere più lo stesso, è passato al documentario. A mio modo di vedere una scelta saggia.
Per quanto lo stile di Tim Burton sia ben diverso da quello degli autori appena citati (in realtà si tratta di uno stile effettivamente unico), l’impressione è che quel che il regista poteva e doveva dare all’arte cinematografica, lo abbia già dato.
E che ora rischi di inaridire la sua vena senza riuscire più a toccare più mete così alte come quelle dei suoi film degli anni ’90 e del primo decennio di questo secolo.
Ma sia chiaro: Edward mani di forbice è e resta uno dei più bei film di sempre!

Tommaso Frangini