Arte

Il lirismo punk di Christian Rosa

Ogni colore vive di una sua vita misteriosa
Vasilij Vasil’evič Kandinskij

La White Cube di Londra, con la personale Put your Eye in your Mouth, è solo l’ultima nota galleria ad aver consacrato l’astro nascente di Christian Rosa, il trentatreenne che ha rinvigorito le fila dell’astrattismo pittorico, sintetizzando nel suo tratto il cosmopolitismo culturale nel quale la scena artistica contemporanea si è da tempo tuffata. (altro…)

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Il Viaggio che ti riporta a casa

05/6/2015 – “Partecipare è condividere”. Queste parole campeggiano nell’atrio della Fondazione Riccardo Catella dove fino a domani sono esposte 80 fotografie facenti parte della mostra Il viaggio che ti riporta a casa, organizzata da alcuni giovani volontari della Fondazione Magica Cleme ONLUS. (altro…)

Invisibilia per visibilia, o l’estetica di Takis

Nell’VIII secolo all’interno dell’impero bizantino si situa la nascita dell’iconoclastia, quel movimento che vedeva nelle icone, nelle immagini sacre, il rischio per l’uomo di sfociare nell’idolatria e che quindi necessariamente andava imponendo un orientamento estetico. Esso non era unicamente una ventata di rigorismo antiartistico, ma una vera e propria polemica interna al mondo dell’arte. Adriano I, papa dal 772 al 795, seguendo le orme di Gregorio II e, prima di lui, di papa Gregorio Magno, operò in direzione di una rivalutazione teologica delle immagini, che aveva il suo principio nella formula gregoriana pictura quasi scriptura. Le immagini per Gregorio Magno, infatti, dovevano essere utilizzate dai fedeli come segni per ricordare i sacri misteri, divenendo così i libri degli illetterati. Papa Adriano I, partendo da questo punto, nella lettera diretta all’imperatrice Irene, parla di demonstrare invisibilia per visibilia, riuscire a trasmettere le cose invisibili, Dio, attraverso quelle terrene e quindi visibili.

Tentando un parallelismo quanto mai ardito e inconcludente, potrei affermare che: come gli anti-iconoclasti volevano, ai loro tempi, mostrare e dimostrare Dio e la sua energia invisibile ma presente, così in tempi più recenti un altro personaggio, storico, ma tuttora vivente, ha tentato di mostrare e dimostrare una forza invisibile, ma estremamente reale: si tratta di Panayotis Vassilakis, o, detto più semplicemente, di Takis.

Greco di nascita, ma parigino d’adozione, l’artista ha passato la sua intera carriera nel tentativo di catturare l’energia, quella forza a noi oramai sempre più necessaria, ma che non è mai direttamente visibile. In questa direzione egli ha agito concependo “l’opera d’arte come simbolo di energia”. Nel 1991, dopo un’ascesa riconosciuta e stimata in tutto il mondo, Takis riesce velocemente a racchiudere in una frase, in una piccola Bibbia, il suo credo artistico: “Come scultore non ho mai pensato in termini di estetica, di relazione con una forma, o in una chiave visiva. Ciò che mi ossessiona è il concetto di energia. I fenomeni naturali mi colpiscono.”

Il Palais de Tokyo di Parigi ha inaugurato il 18 febbraio una mostra che chiuderà il 17 maggio, volta a offrire una panoramica complessiva dell’artista greco che è stato negli ultimi anni ingiustamente oscurato e per certi versi dimenticato. Estremamente eclettico, Takis ha lavorato e espresso la sua poetica all’interno dei più disparati campi della fruizione estetica, dalla scultura alla musica, dall’installazione alla performance. Nato nel 1925 ad Atene, giunge nel 1954 a Parigi, dove trova terreno fertile per le sue sperimentazioni, fa la conoscenza di artisti come Jean Tinguely e Yves Klein, e stringe saldi rapporti con i membri della Beat Generation, come William Burroughs, Allen Ginsberg e Gregory Corso. È proprio col loro supporto che il 29 novembre 1960 Takis organizza alla Iris Clert Gallery di Parigi un evento che entrerà a far parte degli annali per la sua carica eversiva e stravagante.L’happening si intitola L’impossible, un homme dans l’espace. Il poeta beat Sinclair Beiles è sospeso per pochi secondi nello spazio – o perlomeno questo narra la leggenda – grazie ad un potente campo elettrico supportato da calamite progettate dallo stesso Takis. Beiles è munito di un casco per moto e rincuorato dalla presenza di una rete a lui sottostante nel caso l’esperimento non fosse funzionato. Durante il miracolo dell’artista, il poeta recita ai presenti, mentre è sospeso nello spazio, il Manifesto magnétique:

Io sono una scultura. Ci sono altre sculture come me. La più grande differenza è che loro non possono parlare. Quando alcune delle sculture provano a parlare esplodono. Causano la morte. Quando parlo di “Bomba” di Gregory Corso sto parlando di vita e morte e nessuno prova dolore […] Mi piacerebbe vedere tutte le bombe nucleari sulla terra trasformate in sculture.

Takis sarà così ricordato come colui che per primo spedì un uomo nello spazio, anticipando Jurij Gagarin e l’URSS di ben sei mesi.

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Come un Leonardo moderno, il greco diviene sinolo di arte e scienza, non solo inseguendo il sogno dell’uomo fluttuante nell’aria, ma rimanendo profondamente affascinato dalla “magia scientifica”, cercando di cogliere e imprigionare l’energia cosmica. Nella stessa direzione va il Mur magnétique – 4e dimension del 2004, l’installazione di un lungo pannello di color rosso sul quale è applicata una striscia ondulata in ferro. Lo spettatore è invitato a prendere in mano una delle bussole a disposizione e a passeggiare accostandola alla linea, verificando di persona la sua violenta perdita di orientamento imposta dalle forze magnetiche.

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Altra indagine è la serie che l’artista crea a partire dagli anni ’60, accostando cilindri metallici penzolanti dal soffitto a tele monocrome che nascondono magneti, lasciando sfiorare le due superficii a pochi centimetri di distanza.

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Nel 1955 è colpito da quella che definisce una “foresta” di segnali, alla stazione ferroviaria di Calais. Da questa esperienza prende l’avvio la serie di Signaux, aste verticali terminanti con elementi meccanici recuperati, volti al cielo, alcuni dei quali con luci. Nel 1988 allestisce una spianata di segnali, vera foresta metropolitana, a La Dèfense a Parigi, dove tutt’ora si trovano. Dall’esplorazione dell’energia dei campi magnetici deriva anche un’interesse per la musicalità da essi prodotta, e per l’aleatorietà, nella stessa direzione degli altri compositori d’avanguardia. Takis fuggendo l’arbitrarietà dell’artista, ricerca un’origine naturale del suono. I risultati sono estremamente innovativi tanto che nel dicembre 1966 la rivista New Scientist lo accosta a John Cage e Iannis Xenakis come i più promettenti musicisti del secolo.

D’altronde già nel 1962 Duchamp aveva colto con estrema lucidità e brio lo spirito e la missione dell’artista definendolo “gaio lavoratore dei campi magnetici e indicatore delle strade di ferro dolce”. Giunto quasi all’età di 90 anni, Takis continua la sua carriera di “sapiente intuitivo”, dopo aver combattuto durante tutta la sua vita per rendere accessibile e chiaro una delle infinite realtà che sembrano tanto astratte e vaghe, per rendere fruibile ciò che solitamente non è decodificabile nel nostro campo visivo e quindi – limitativamente – cognitivo. Con la sua arte ha mostrato il suo Dio, l’energia, i campi magnetici, enti metafisici e spesso estremamente misteriosi per noi, profani della scienza, ma che esistono ed agiscono. La leggerezza delle gravi sculture di Takis è proprio questa, il riuscire a cogliere e racchiudere una forza tanto estrema, ma, al tempo stesso, così impercettibile. Per visibilia invisibilia!

 Bernardo Follini

Daniel Buren e l’utensile visivo

Siamo nella già calda Napoli del 25 aprile, che proprio in concomitanza con la data storica e primigenia, offre ai suoi cittadini una parallela occasione liberatrice. Si tratta dell’intervento di Daniel Buren, “Come un gioco da bambini”, progettato ad hoc, o, per seguire la formula da lui stesso coniata, in situ, per la sala Re_PUBBLICA MADRE, al piano terra del Museo Madre di Napoli.

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Nata dalla collaborazione tra l’artista francese e l’architetto Patrick Bouchain, il progetto è uno spazio ludico, finalizzato alla celebrazione della “relazione tra il museo e il suo pubblico, tra l’istituzione e la sua comunità”, costituito dall’assemblaggio di un centinaio di moduli di forme geometriche, dai colori differenti ispirati ai giochi artigianali di Friedrich Fröbel. Il pedagogo tedesco aveva studiato le potenzialità conoscitive del gioco, individuando nella scoperta comunitaria della realtà l’affinamento di diverse facoltà quali la percezione, la capacità espressiva, il riconoscimento tattile, l’idea di costruzione e decostruzione. Per raggiungere questo fine, Fröbel, progettò il Kindergarten, il “Giardino dell’infanzia”, dove i bambini erano lasciati liberi di esprimersi attraverso la conoscenza ludica, e affidati a maestre-giardiniere che dovevano occuparsi della loro crescita. Parlando proprio del rapporto tra l’arte e la creatività dei bambini, Buren afferma:

“Spesso si indica qualcosa facile da fare con l’espressione ‘è un gioco da bambini’, come se non valesse nulla. A me l’idea di realizzare cose che saprebbero fare i bambini piace. Lo dicono anche alcune opere di Picasso, Pollock, Matisse. La cosa che non dicono è che i bambini tra i due e i nove anni sono artisti bravissimi, dipingono, disegnano, sono magnifici e allo stesso tempo rendono la creazione facile. Rendono naturale l’estremamente complesso. Un artista, per arrivare a questo livello, spesso impiega 40 anni di lavoro.”

Affrontando la percezione dello spazio, Buren, crea una profonda riflessione empirica, ma al tempo stesso, un divertissement sull’Arte Contemporanea. La stessa arte che, come si dice, può essere fatta da tutti, in questo caso potrebbe essere fatta anche da un bambino. Nella città in miniatura progettata da Buren i volumi colorati e i cubi forati al centro, rivestiti da ipnotici cerchi a righe larghe 8,7 cm (sua vera firma) in bianco e nero, “modificano la nostra risposta agli oggetti” in quanto la nostra retina elabora in modo differente strutture che hanno la medesima forma e grandezza. Entrando nel mondo di “Come un gioco da bambini”, si è colti da una qualche forza metafisica che rende lo spettatore consapevole della scardinante potenza della semplicità cromatica e strutturale; lo stesso Buren sostiene, infatti, che “il colore è pensiero puro e quindi inesprimibile, altrettanto astratto come una formula matematica o un concetto filosofico”. L’intervento rappresenta il primo di una serie di progetti che legheranno Buren al Museo Madre di Napoli, e sarà visitabile fino al 31 agosto. L’intervento nella sala Re_PUBBLICA MADRE fa parte di un percorso personale dell’artista, che ha elaborato a fine 1967 la nozione di opera in situ, dando fondamento teorico alla salda interrelazione tra quelli che sono i suoi interventi e i luoghi in cui sono esposti (che siano istituzionali o urbani).

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Galleria Apollinaire di Milano, 1968

Le opere di Buren, quindi, fin dagli anni ’60 invadono le strade e gli spazi pubblici, partendo da pratiche strettamente situazioniste, e inserendosi in quella riflessione storica degli artisti specifica degli anni ’60 e ’70, nota come institutional critique. I suoi lavori hanno sfidato la nozione di “installazione” che Buren ha definito come “vetrina dove tutto è fatto con finalità commerciali per allettare il passante curioso” e “messa in scena temporanea per la vendita di oggetti eterogenei o no la cui caratteristica principale, perlomeno, paradossale, è di non avere nulla a che fare con la problematica del luogo”. Il carattere polemico lo ha d’altronde accompagnato per tutta la vita, fin da quando nel 1972 Harald Szeemann accettò di pubblicare un suo articolo critico sul catalogo di Documenta 5, all’interno del quale Buren lamentava il ruolo marginale dell’artista puntando il dito contro la figura del curatore, affermando perentoriamente la sua visione della quinta manifestazione internazionale di Kassel: “L’esposizione s’impone come soggetto autonomo ed essa stessa si sostituisce all’opera d’arte”. Importanza centrale nella riflessione artistica del francese è la cosiddetta “estinzione” dello studio, l’abbandono dell’atelier, visto come luogo “nocivo e contraddittorio”, in favore di una più moderna condizione di nomadismo. Dalla fine del ’66, inizia a stampare su stoffa da tende e carta fasce verticali larghe 8,7 cm ciascuna, bianche e colorate, affini alla “piccola prigione spagnola” di Motherwell, applicandole nei luoghi più disparati, dai musei ai cartelloni pubblicitari nelle strade, e, quando riportate su tela, vi aggiunge una stesura di bianco ai lati, come ironica certificazione del carattere artigianale. Nel 1968 in occasione del Salon de Mai agisce sia all’interno sia all’esterno del Musée d’Art Moderne de La Ville de Paris, rivestendo una parete del museo con carta a strisce  bianche e verdi, e facendo circolare due uomini sandwich per le vie della città mentre esibiscono sui loro cartelloni non pubblicità, ma la stessa carta rigata. Così facendo, servendosi della dèrive situazionista, Buren focalizza la sua riflessione sulla separazione tra arte e quotidianità, con la sua provocazione itinerante, ma, al tempo stesso, gioca paradossalmente con la pubblicità museale. Lo stesso marzo tappezza gli spazi di pubblica affissione di tutta la città con la sua carta a righe di 8,7 cm. Sempre nel 1968 ha la sua prima personale alla Galleria Apollinaire di Milano dove blocca l’unico ingresso riempendo la porta d’accesso con le sue fasce bianche e verdi. Le righe di Buren, che nella loro realizzazione industriale, e quindi oggettiva e impersonale, mettono all’ordine del giorno la questione dei limiti della pittura, mostrano il desiderio che l’opera non parli o rappresenti il reale, ma sia il reale. Con estrema consapevolezza e lucidità teorica Buren definisce le sue righe come “utensili visivi”, segnali che siano in grado di richiamare e focalizzare l’attenzione dello spettatore su ciò che l’artista ritiene giusto e importante sottolineare o evidenziare. L’errore risiede nel concepire le stesse fasce colorate come lavoro in sé dell’artista, e non all’interno di una visione molto più ampia, percettiva e critica. Dagli anni ’80 si moltiplicano i suoi interventi architettonici in spazi pubblici come “Les Deux Plateaux” al Palais-Royal di Parigi nel 1986 – lo stesso anno in cui vince il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia –, l’intervento al Parco Archeologico di Scolacium, in provincia di Catanzaro o privati come “Muri Fontane a 3 colori per un esagono” alla Villa Medicea la Magia.

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Les Deux Plateaux” al Palais-Royal di Parigi

Grazie alla sua carriera monumentale, Buren è un artista che ci insegna non solo una nuova idea di opera, sorta dalla contestualizzazione, dal suo essere e vivere per un momento limitato in uno spazio e un tempo ben preciso, ma anche come guardare un’opera. Egli ci indica e ci far soffermare su quello che abbiamo. Una visione che poggi su salde basi teoriche e sull’idea dell’artista come indipendente oppositore, lo ha condotto verso il superamento e la neutralizzazione del contenuto puramente illusionistico della pittura. La sua arte, staccandosi dal chiodo della parete del museo, inonda le strade, i vicoli, l’estetica umana e urbana, nella sua quotidianità e banalità, e ci riconsegna il dono di apprezzare la complessità del semplice.

Bernardo  Follini

La Scultura Iperrealista, o il beneficio del dubbio

È del poeta il fin la meraviglia
(parlo de l’eccellente, non del goffo):
chi non sa stupir, vada alla striglia.

Giovan Battista Marino

Intorno al 1860 l’invenzione e lo sviluppo della fotografia istantanea produsse non pochi dibattiti all’interno della società moderna, soprattutto nell’ambito delle arti. Artisti e critici, infatti, vedevano il loro lavoro e la loro perizia tecnica minata dal nuovo apparecchio.
Nel 1859 quando la fotografia venne invitata al Salon di Parigi accanto alla pittura, scultura e incisione, Baudelaire tuonava: “…in questi giorni disgraziati è nata una nuova industria la quale ha contribuito non poco a confermare la stupidità del pubblico e a rovinare quanto ci poteva essere ancora di divino nello spirito francese…la fotografia…La società più immonda si è precipitata a contemplare sul metallo la sua immagine volgare!…”.
La storia che ha seguito questa svolta la conosciamo. Pittura e fotografia hanno finora convissuto, la prima ha concesso alla seconda l’indagine del reale (salvo per gli esperimenti delle avanguardie e le esperienze più recenti), e si è incamminata verso un abbandono della mimesis, che poi ha prodotto i più disparati effetti sull’estetica. Ma, se la pittura e le arti sono nate come immagine e pedissequa raffigurazione della natura, del vero e del reale, dal quale si sono poi allontanate anche grazie alla nascita della fotografia, vi è stato un momento storico all’interno del quale esse sono tornate al loro punto di partenza.
Questo coincide con la nascita di un movimento sorto verso la fine degli anni ’60, noto come “fotorealismo”. I pittori americani di questa corrente, tra i quali spiccano Chuck Close, Ralph Goings e Richard Estes, avendo assimilato l’estetica della Pop art, riportavano minuziosamente sulla tela una realtà che, se non identica, era estremamente simile a quella della fotografia.
Nel 1973 il gallerista Isy Brachot coniò il termine Hyperréalisme come titolo di una mostra che presentava molti fotorealisti.

Il termine iperrealismo così, iniziò a designare la generazione di artisti che si era ispirata e che era partita dal fotorealismo. L’esposizione delle opere di questa corrente nelle gallerie e nei musei generava la meraviglia e lo stupore degli spettatori che immediatamente si ponevano la domanda spontanea: “È un quadro o una fotografia?”.
Parallelamente all’attività di questi artisti si situa anche quella di scultori, che simulavano e tuttora simulano nelle loro opere l’essere umano, fatto e finito, all’interno della quotidianità e ripetitività dei suoi gesti. In questo caso, la domanda che sorgeva ancor più spontanea nei poveri spettatori in visita ai musei era: “È una scultura o è un essere umano?”.
Soprattutto nella scultura iperrealista, quest’illusione della realtà ha subito un processo di perfezionamento che partendo dagli anni ‘60 giunge fino a noi. Apripista di questa via è sicuramente Duane Hanson, lo scultore statunitense che, partendo dall’idea dei calchi scultorei in gesso monocromo di George Segal, crea con vari materiali (resina di polyestere, fibra di vetro, etc.) figure umane in grado di essere scambiate per reali dal pubblico. IMG_4416Posizionandole sedute su panche di musei o in piedi davanti ad un quadro, le opere di Hanson mettono in difficoltà lo spettatore che per qualche secondo non si accorge della finzione, generando in lui il dubbio e la meraviglia.
Sulla stessa linea rientra anche John De Andrea, che partendo dagli stimoli dell’arte fetish ed erotica di Allen Jones, realizza nudi femminili, per provocare nello spettatore un’ambigua eccitazione verso il feticcio che deve necessariamente essere repressa.
Queste opere d’arte, sebbene possano essere sbrigativamente lette come prodotti reazionari, come nostalgici ritorni ad una concezione pre-avanguardista, in realtà procedono in perfetta coerenza con la società postmoderna, come possiamo notare paragonando la nostra situazione a quella descritta da Jean Baudrillard, lucido teorico e aspro critico di quella società: “La simulazione non è più la simulazione di un territorio, o di un’entità referenziale, o di una sostanza. È qualcosa che attraverso modelli, genera un reale che non ha né origini né realtà: un’iperrealtà”.
Con il perfezionamento delle tecniche e l’affinamento dei materiali, la scultura iperrealista si è evoluta, diventando incredibilmente perfetta, un preciso calco dell’essere umano, e, in alcuni casi, superando se stessa.

È il caso dell’australiano Ron Mueck, al quale la Fondation Cartier di Parigi ha dedicato una mostra due anni fa. Mueck amplifica il sentimento di soggezione e insicurezza dello spettatore ampliando o restringendo le proporzioni dei soggetti e in questo senso allontanandosi dalla realtà. Lo spettatore davanti a due anziani di tre metri, brutalmente veri, che prendono il sole in spiaggia sotto un ombrellone fa una sola cosa: dubita. Mette in discussione quello che ha sempre ritenuto certo, e per un istante gli sembra cedere a quest’illusione. IMG_4415Le opere dell’artista australiano per di più sono profondamente intrise di poesia, basti pensare al suo uomo nudo in barca, traghettato verso l’ignoto, che delicatamente piega il collo per scorgere qualche misero barlume del suo futuro inconoscibile.
La scultura iperrealista è sempre più in grado di porci davanti a domande, ma soprattutto di offrirci per qualche istante la possibilità di dubitare delle conoscenze da noi acquisite e mai messe in discussione, dono quanto mai prezioso. Davanti a tali opere scopriamo quanto sia labile il confine tra vero e falso, tra originale e copia, e potremmo anche iniziare a guardare il mondo e i suoi prodotti con un altro occhio, più critico e scettico, tenendo ben presente quello che diceva Debord: “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”.

Bernardo Follini

La seconda vita del Teatro Continuo di Burri 

Siamo nel lontano, ma non troppo, 1973. A Milano, in occasione della XV Triennale, Alberto Burri, artista già da tempo noto a livello internazionale, progetta e costruisce il suo Teatro Continuo che alla fine della celebrazione viene donato ai cittadini del capoluogo lombardo.
IMG_4375L’opera è costituita da 6 quinte d’acciaio rotanti, su basamento di cemento lungo 17 m e largo 10 m, posizionata in quel polmone verde al centro della città che è il Parco Sempione, tra il Castello Sforzesco e l’Arco della Pace. L’intervento di Burri va letto anche all’interno di un processo di sensibilizzazione e di fruibilità estetica del parco – all’interno del quale si situano anche i Bagni Misteriosi di De Chirico e la Seduta di Arman – per i cittadini.

Alberto Burri, nato nel 1915 a Città del Castello in Umbria, racchiuse in questo progetto, fondendoli, due attitudini e interessi che aveva sviluppato fino a quel momento e che poi avrebbe esponenzialmente approfondito: la curiosità verso il teatro e l’installazione ambientale, che in alcuni casi sfocerà in Land Art.
Burri, ufficiale medico, durante la seconda guerra mondiale, iniziò a dipingere proprio durante il periodo di reclusionein un campo di prigionia del Texas, dopo essere stato catturato dagli americani. Nel 1947 espose nella sua prima personale a Roma e del 1952 è il Grande Sacco che presentò alla sua prima Biennale di Venezia. Artista indipendente che la critica tentò più volte di etichettare senza troppi risultati (informale, concettuale, arte povera), ospitò nel 1952 Rauschenberg nel suo studio di Roma, e ottenne il riconoscimento internazionale l’anno seguente con due mostre a Chicago e New York.

Celebri sono i suoi sacchi integrati all’interno della tela o la serie delle Combustioni che inizierà nel 1957, bruciando con una fiamma materiali differenti, dal legno alla plastica, e dimostrando quanto fosse centrale all’interno della sua poetica il tema della consunzione e del logoramento della materia, letta come metafora esistenziale. Questo indirizzo sarà confermato, poi, anche negli anni seguenti, quando inizierà i Cretti, superfici sulle quali si dipanano infinite crepature, utilizzando un impasto di caolino e colle viniliche, che ricordano terreni argillosi con crepe dovute alla siccità. Il più celebre Cretto è sicuramente quello di Gibellina, in Sicilia, realizzato tra il 1984 e il 1989. Nel 1968 la città venne drammaticamente sconvolta da un terremoto che la distrusse completamente e che provocò morte e devastazione. Il sindaco di Gibellina si prodigò perché la ricostruzione comprendesse interventi artistici che aiutassero a rendere degna memoria della strage. Tra gli altri artisti attivi in questo progetto, infatti, oltre a Burri, figuravano anche Mario Schifano, Arnaldo Pomodoro e Mimmo Paladino. Burri progettò il Cretto di Gibellina, di un’estensione di 12 ettari. Dopo aver fatto ricompattare le macerie degli edifici, fece colare su di essi cemento fresco congelando in questo modo la memoria di quella catastrofe. La superficie ha delle scanalature che la rendono una sorta di labirinto svelato, formando un cammino spaesante nel ricordo e nella privata riflessione. Per certi versi può essere visto come il padre del Memoriale della Shoah di Berlino, progettato da Peter Eisenman e inaugurato nel 2005.

Parallelamente a questa attività, Burri iniziò collaborazioni con teatri italiani, occupandosi nel 1963 delle scene e dei costumi del balletto “Spirituals” per orchestra con la coreografia di Mario Pistoni, al Teatro alla Scala di Milano. Nel 1972 lavorerà per il Teatro dell’Opera di Roma e nel 1975 per il Teatro Regio di Torino.
In linea di continuità con il suo percorso, Burri, nel 1973, come già ricordato, installerà il Teatro Continuo. La struttura, nata “per la libera espressione teatrale”, andava a formare una sorta di corrispettivo dello Speakers Corner di Hyde Park, simbolo londinese della libertà d’opinione, in chiave però più dichiaratamente estetica e contemplativa. Tuttavia, nel 1989 la giunta milanese stabilì di smantellare il Teatro Continuo a causa della condizione di degrado che aveva raggiunto, destando comprensibilmente l’ira funesta di Burri, il quale decretò che mai più avrebbe esposto a Milano.

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Nel 2014 la giunta di Milano ha stabilito di ricostruire il monumento di Burri, seguendo i disegni dell’artista, garantendo con tale azione sia il ritorno del Teatro Continuo all’interno del patrimonio dei cittadini, come luogo di scambio culturale, sia un omaggio ad Alberto Burri, morto nel 1995, per il quale quest’anno ricorre il centenario della nascita. L’annuncio ha tuttavia destato immediatamente lo sdegno di parte dei milanesi, che si dicono profondamente indignati per quella che è stata definita una “colata di cemento sul Sempione” e “il Teatro della Discordia”. Tra i dissidenti figura peraltro anche il noto Stefano Boeri.
Nonostante tutto ciò, i lavori sono iniziati e dovrebbero terminare, come molti altri, per maggio, allo scoccare dell’ora EXPO. Nonostante non voglia necessariamente immettermi nell’accesa e violenta dialettica sorta negli ultimi mesi sul caso, penso che la struttura abbia un potenziale incredibile per noi milanesi.
Oltre al valore storico e culturale che il Teatro Continuo porta con sé, esso potrebbe ritornare ad essere il piedistallo di una cultura relazionale, accessibile a tutti in modo sia attivo che passivo, riconfermando la profondità e la forza di quell’estetica relazionale di cui parla Nicolas Bourriaud e la sua importanza come stimolo emomento di aggregazione sociale. Il futuro del Teatro Continuo di Burri è ignoto, ad esso è stata fornita una seconda vita e possibilità, ora sta a noi decidere se sfruttarla o meno.

Bernardo Follini

Medardo Rosso. Il monumento alla memoria dell’attimo

Madame X (1896)

La concentrata ed intensa mostra dedicata a Medardo Rosso (1858–1928) dalla Galleria di Arte Moderna di Milano è un’ottima occasione per riscoprire quello che fu un grande ispiratore delle avanguardie storiche, un faro per le correnti poveriste degli anni ’60 e un maestro tuttora apprezzatissimo da molti artisti contemporanei. Medardo, torinese di nascita, milanese d’educazione e parigino d’adozione, d’altronde, è la personificazione stessa della rivoluzione artistica novecentesca: lo scultore che, nato nell’ambiente del verismo sociale e scapigliato fine ottocentesco, apre il novecento della sperimentazione. La sua violenta svolta stilistica è peraltro già profetizzata dal suo carattere per certi versi bellicoso. La sua caparbietà lo condusse, infatti, il 29 marzo 1883 all’espulsione dall’Accademia di Brera per indisciplina, dopo essersi messo a capo di una protesta che richiedeva mutamenti negli orari della Scuola di Nudo e lamentava la mancanza di preparati anatomici da copiare. Ma forse anche l’aver picchiato un compagno, reo di non aver firmato l’appello di protesta, produsse una risonanza negativa sulla decisione dell’Accademia. Con lo stesso spirito, nel 1885, registrò all’anagrafe il figlio Francesco Luigi Domenico con il nome di Francesco Evviva Ribelle.

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L’uomo che legge (1900–1904)

Aldilà del temperamento di Rosso, la sua poetica si dichiara con fervore in seguito ad un episodio accaduto nello stesso 1883, in un’aula dell’Accademia di Brera, quando, osservando le ombre lasciate da alcuni studenti di passaggio sul pavimento, gli si rivela la materialità della luce e dell’ombra, ma soprattutto la fugacità dell’essere. L’interesse dell’artista diviene, dunque, quello di catturare un attimo, non fotografico, ma filtrato dalla memoria. La sua scultura si può, quindi, definire come un monumento alla memoria dell’attimo. È proprio il ricordo, in questa continua resistenza dialettica con il tempo che scolpisce la materia, estraendo la forma dall’indefinitezza che la circonda. I volti di Medardo, così, sono colti timidamente dalla corrente che trascina le cose del mondo, mai strappati imperativamente, tanto che la stessa corrente sembra ancora lievemente avvolgerli.

La vita di Medardo è, per certi versi, quella di un isolato, allontanato sia dalla critica ufficiale francese che propendeva per Rodin, alfiere della nazione, con il quale l’italiano ebbe diversi screzi, sia da quella italiana che solo tardi gli perdonerà il suo espatrio a Parigi. Ed è proprio a Parigi, nel 1896, che il silenzioso rivoluzionario creerà la sua opera più audace e più pura, la Madame X. Questa non è più nemmeno il ritratto di qualcuno, è risultato della più totale astrazione. La Madame X ha come parenti più stretti le teste di Modigliani e la Musa Addormentata di Brancusi, opere del 1910, concepite e realizzate quasi quindici anni in ritardo rispetto al volto di Rosso.

La fine lo raggiungerà nel 1928, per setticemia in seguito alle gravi ferite riportate a un piede per la frantumazione di lastre fotografiche in vetro. Sulla tomba l’epigrafe: “Fine di una vita e principio di un’arte”. La mostra alla GAM, nata dalla collaborazione della Galleria milanese con il Museo Rosso di Barzio, e da una serie di prestiti nazionali e internazionali (tra i quali il Musée d’Orsay di Parigi, lo Staatliche Kunstammlungen di Dresda e il Szepmuveszeti Muzeum di Budapest), durerà fino al 30 maggio 2015.

Bernardo Follini

String art – l’Arte dei fili

Luca Ponticello è un artigiano novarese. Ma è anche un’artista, un creativo che ha fatto della propria creatività una professione.

Lo conosco da tempo e so che fin da bambino è sempre stato molto curioso, con una spiccata propensione a smontare e rimontare tutto ciò che si trovava davanti. In effetti, non ha mai smesso di farlo. A posteriori si può dire che quest’abitudine potenzialmente irritante gli abbia permesso di vedere il mondo sotto la lente di un istinto creativo particolarmente vivo. Dalla copia di fumetti – una delle sue più grandi passioni – alla manipolazione artistica della materia, a Novara tutti conoscono l’entusiasmo con cui  ha approfondito il suo rapporto con il disegno, indagando le molte pieghe delle arti grafiche.
Tra queste esperienze una delle più importanti per la sua formazione artistica è la progettazione 3D, tramite la quale acquista una capacità plastica che gli tornerà molto utile in futuro.
Nascono così, un po’ per hobby un po’ per scherzo, i primi “quadretti” secondo i dettami della String Art, di cui ora è un’esponente di spicco. L’ho incontrato in un noto pub di Novara e gli ho posto una sola domanda.

Che cosa è dunque la String Art?

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La String Art è un’arte da urlo!

Ecco cosa mi ha risposto:

String Art, o arte con chiodi e fili, è caratterizzata da una disposizione di fili colorati tesi tra punti a formare motivi geometrici astratti o disegni rappresentativi a volte con altri materiali per completare il resto del lavoro. Il filo è avvolto intorno a una griglia di chiodi piantati su una tavola di legno pitturata o coperta di tessuto. Sebbene il filo formi linee diritte, le angolazioni e posizioni leggermente diverse nella nelle quali i fili intersecano può dare l’apparenza di curve (denominate Curve di Bézier). La String Art ha le sue origini nelle attività di Curve Stitch inventate da Mary Everest Boole alla fine del sec. XIX per creare idee matematiche più accessibile ai bambini.

Questa forma d’arte si è diffusa come un mestiere decorativo alla fine del 1960 attraverso kit e libri sulla String Art, soprattutto nella fase hippie psichedelica Nordamericana.
Versatilità, apertura mentale, adattamento a qualunque richiesta sono parole d’ordine nel mio lavoro: nel corso di questi due anni ho ampliato le tecniche base di quest’arte adattandomi alle richieste più disparate e riuscendo ad accontentare i committenti sempre più numerosi ed esigenti, per i quali realizzo anche loghi commerciali.

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Questo ad esempio è il logo dell’Old Tower Pub dove ci troviamo ora

“Sta parlando l’arte al posto mio “ lo sento dire al capannello di amici riuniti intorno al suo lavoro esposto dietro il bancone. Questa spacconeria gli costerà un giro di birre, ne sono sicura.

Eliana Cianci

Keen eyes, o dell’Alzheimer

– Questo articolo è una replica a Small eyes – Walter Keane e l’arte contemporanea

Il problema dell’influenza delle figure di potere all’interno della storia dell’arte è effettivamente una questione annosa e a renderla ancora più macroscopica vi è quel mutamento radicale di rotta causato dalle avanguardie storiche e da Duchamp. L’estetica ha dovuto così modificare e ampliare le sue domande nei confronti dell’oggetto arte. Lo spettatore contemporaneo, quindi, può trovarsi oggi davanti ad una tela (sempre che essa vi sia) con una semplice linea, non più ad un profluvio ragionato e minuzioso di colori e figure, effettivamente più assimilabile e immediatamente apprezzabile. Questa enigmaticità dell’opera contemporanea porta il soggetto, che non riesce più a cogliere in modo immediato l’essenza dell’opera, a formulare il più il delle volte un’ipotesi.

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L’acuto sguardo di Munari sul mondo dell’arte

Essa, nelle occasioni più meste è quella facile del complotto perpetrato da galleristi, mercanti, e media che sfocia spesso poi nelle solite frasi perentorie e qualunquiste “questa non è arte” e “questo lo so fare anch’io”, alle quali a suo tempo aveva risposto un magnifico Bruno Munari. Ora, non nego che negli ultimi anni, come peraltro anche in quelli più antichi, fenomeni di questo tipo si siano verificati – basti pensare a quell’enorme manipolazione estetica che è stata la Transavanguardia di ABO, sorta non per altro nei “terribili anni ’80”, o a un Jeff Koons che prima di affacciarsi al mondo dell’arte aveva, in qualche modo, sondato il terreno lavorando per anni a Wall Street – ma la cosa che più rischia di fuorviare e di minare la nostra capacità cognitiva è un atteggiamento manicheo e generalista di questo tipo che tende a stigmatizzare la questione con dogmi pressapochisti.

La questione del potente e della sua influenza nell’arte, dicevo, è antica e se vogliamo semplificare, potremmo dire che vi è stato uno spostamento del suo fine, che, se in un primo momento era la gloria, in un secondo, dall’avvento di quella che è un’epoca più dichiaratamente capitalista, è il profitto. Ma in realtà i due concetti sono strettamente collegati e irrimediabilmente affini. Un tempo il potente erano i papi, gli imperatori, i signori, ma nella storiografia si usa il termine “mecenati”.  Nel ‘500 Tiziano era conteso tra la Serenissima Repubblica di Venezia, papa Paolo III, i vari signori locali, e niente meno che Carlo V, il quale aveva un impero talmente esteso che si suole definirlo “L’imperatore sul cui regno non tramontava mai il sole”, (poi peraltro anche da re Filippo II di Spagna, suo figlio). Lo stesso Tiziano aveva addirittura quello che potremmo chiamare un agente ante litteram che si occupava di pubbliche relazioni, Pietro Aretino, acuto e subdolo poeta che tramite lettere inghirlandate riusciva a richiamare l’attenzione dei potenti sul suo amico. Di  Michelangelo conosciamo tutti la fama, e come negare che avesse il “mondo dell’editoria” dalla sua parte, se Giorgio Vasari, forse primo storico dell’arte, lo inserisce con un ruolo preponderante, non per altro è l’unico artista vivente presente nell’opera, nelle sue Vite, che avevano lo scopo, nemmeno troppo celato, di glorificare la scuola fiorentina.

Compiendo un salto temporale fino al ‘900 ci rendiamo conto che molte cose cambiano, ma che la necessità di accattivarsi il gallerista, l’editorialista e il pubblico permangono. I futuristi con le celebri serate o le scazzottate nei caffè, con la pubblicazione massiccia di manifesti su giornali italiani ed europei impongono tramite questo eccentricità e narcisismo, il loro punto di vista, così i dadaisti al Cabaret Voltaire, da dove lanciano la loro provocazione. Frida Kahlo avrebbe raggiunto la notorietà, assolutamente dovuta, se non si fosse sposata Diego Rivera, il principale dei muralisti messicani, o se non avesse intessuto rapporti intimi con Andrè Breton, teorico del surrealismo? Piero Manzoni e la sua rivoluzione sono indissolubilmente legati alla provocazione della sua “merda d’artista”, così come l’affermazione di Warhol e della sua estetica alla Factory, alle feste, alle relazioni, alla mondanità e alla trasgressione.
Fresco di lettura di un articolo incontrato su un quotidiano  – dove si afferma che la Germania sembra avere la “memoria corta”, di essersi cioè dimenticata le volte in cui, nella storia recente, gli stati vincitori le avevano concesso un ridimensionamento o addirittura l’abolizione del debito da lei accumulato (ad es. nel 1953 e nel 1990), in relazione alla severità e inflessibilità odierna verso la Grecia – mi sento di poter dire che qualcuno dimostra di essere altrettanto smemorato, quando addirittura non si verificano casi di vero e proprio Alzheimer,  nel campo artistico. Con tutto ciò che l’arte ha sempre significato ed è sempre riuscita a trasmettere mi sembra impossibile che ciò al quale stiamo assistendo sia il ripetersi della storia come farsa, proprio perché la prima non fu tragedia.

Bernardo Follini

Canaday: un critico senza bloggo

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Terrence Stamp in Big eyes, nel ruolo di John Canaday

The smell of money è un romanzetto che racconta un intrigo nel mondo dell’arte dalla particolare prospettiva del giovane pittore Bill, con toni arguti ed atmosfere raffinate. Nulla di che, in definitiva.
Se questo giallo di poche pretese ha un mercato oltre le bancarelle “Tutto a un euro”, tanto da venire specificamente ricercato in rete tra decine di crime novels anni ’40 esattamente identiche per pregio narrativo e spessore letterario, la ragione è una sola: Matthew Head ne è l’autore.
Dietro questo pseudonimo si nasconde infatti il nome più noto del critico d’arte americano John Canaday (1907-1985), recentemente portato sul grande schermo dalle fattezze aguzze di Terence Stamp nel film Big eyes di Tim Burton – come abbiamo già visto, una pellicola pregna di riflessioni interessanti.

Siamo dunque di fronte ad un divertissement letterario, lo svago romanzesco di una penna che per diciassette anni è stata la colonna della rubrica d’arte del New York Times. Dal 1959 al 1976 la firma di Canaday ha avuto il potere di far nascere e declinare il mito di questo o quell’artista, favorire o ostacolare le carriere di pittori, scultori e movimenti. Non era certo condiscendente né timido, la sua posizione non glielo avrebbe permesso: il suo primo articolo, datato 6 settembre, appena pochi giorni dopo la sua nomina, scosse tutto il mondo dell’arte per la violenza con cui contestava le fila dell’Espressionismo Astratto, corrente simbolo dell’America di quegli anni, accusata di fondarsi su “incompetence and deception”, disvalori “che circondano questi artisti seri e talentuosi”. Inutile dire che si fece parecchi nemici e fu una delle persone più odiate nel mondo dell’arte fino a quando non si ritirò dalla professione per assecondare il suo estro letterario.
Eppure non credo che Big eyes gli renda giustizia quando lo ritrae un po’ altezzoso e un po’ incontentabile, sempre e comunque decisamente arcigno nelle sue stroncature dei Keane, i protagonisti del film.
La figura del giornalista (e con lui tutta la sua categoria) viene ridotta ad una caricatura, una sorta di versione in carne ed ossa del critico gastronomico represso Anton Ego, personaggio del film d’animazione Disney Ratatouille. Anche le citazioni proposte con eloquenti primi piani del volto severo di Stamp in dolcevita lo confermano: questi imbrattacarte sono dei raffinati rompipalle il cui compito principale consiste nel denigrare ciò che piace alla gente.

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Il vero John Canaday

Però nella realtà storica John Canaday non era un vecchio hipster ante-litteram; è stato invece un personaggio di spicco nel panorama artistico americano tra gli anni sessanta e settanta dello scorso secolo. In un periodo in cui gli Usa oscuravano il mondo con la loro ombra, proponendo il loro modello tanto insistentemente in qualsiasi ambito che ogni manifestazione sociale, economica e culturale non poteva che essere “americana” o “anti-americana” tout court, Canaday è stato consapevole dell’importanza del suo lavoro e ha cercato di svolgerlo al meglio seguendo le proprie più radicate convinzioni, contribuendo così a traghettare la figura professionale del critico nel mondo capitalistico.
“Non è nulla più che arte decorativa, priva di ogni sostanza” mi sembra di sentirlo tuonare a proposito di Rothko, di cui disprezzò (o quantomeno deprezzò significativamente) l’approccio “less is more”. Personalmente, ritengo che quei quadri rappresentino invece l’approssimazione più vicina all’Assoluto estetico che uomo possa plasmare; due visioni diametralmente, direi quasi visceralmente, opposte. Eppure non devo scendere ad alcun compromesso per concordare con questa imparziale osservazione di Canaday: “l’arte di Rothko stimola una sorta di auto-ricezione nell’osservatore ma i suoi estimatori viziano questo considerevole potere ponendo l’attenzione sui suoi limiti” laddove l’essenza dell’opera non può che trascendere la materia per diventare molto semplicemente, Colore.

Ecco chi era l’alter ego di Mattehw Head. Una persona intelligente, conscia delle responsabilità che la pubblicazione a mezzo stampa di un’opinione porta con sé, capace com’è di influenzare profondamente il pubblico – ciò succedeva quando per seguito e credibilità la stampa era ancora degna di questo nome.
In due parola, era onesto cioè proteso alla comprensione e interpretazione dell’arte più che alla sua categorizzazione in “bello”, “brutto”, “accettabile” e “indecente”. Sul suo essere conservatore, talvolta persino reazionario, bisogna considerare l’influenza dall’epoca in cui era nato; la passione per i classici, Rubens, Dalì e i Fauves; gli studi nella tradizionalista Yale; l’esperienza nei Marines durante la seconda guerra mondiale. In ogni caso queste contingenze non gli hanno impedito di sviluppare alcune posizioni profondamente moderne, o quantomeno molto applicabili all’attuale stato dell’arte.

Infatti al di là dell’opposizione alla New York School, la crociata per cui Canaday è conosciuto (perduta esattamente come le Crociate storiche), il critico ebbe sempre un grande rispetto per l’artista in quanto lavoratore.
Forse perché in lui rimase indelebilmente nitida la memoria di quanto la Work Projects Administration, agenzia governativa creata durante il New Deal, fece all’epoca della Depressione in favore degli artisti americani, “degli esseri umani impegnati in un’occupazione legittima”. Un sostegno che non era elemosina e sussidi, ma la giusta retribuzione per un lavoro ritenuto importante e degno di essere salvaguardato, al pari dell’industria (che comunque, ad oggi neanche quella è tanto ben messa).
Mentalità d’altri tempi – che però mi ricorda tante discussioni con coetanei alla ricerca di un impiego in campo artistico che sia riconosciuto economicamente e quindi socialmente. In questo la funzione di critico è preminente: impedire che la società si addormenti poggiando sul suo stesso addome, fare in modo che veda non solo la bellezza ma anche la sua utilità.
Canaday non vedeva la grande arte come il lavoro di filosofi stoici e intellettuali, ma di gente che lavora duro e che si guadagna da vivere col lavoro della mente. E con pennelli e tele, come è sacrosanto che sia.

Giulio Bellotto