Il Figlio di Saul: un primo piano su Auschwitz

Il Figlio di Saul è il feature film di esordio dell’ungherese László Nemes. Sviluppato al Jerusalem Film Lab, è interamente di produzione ungherese. Rifiutato da produzioni di Francia, Germania, Austria e Israele, si è preso la sua rivincita conquistando il Grand Prix, il Fipresci e il premio Fraçois-Chalais a Cannes; il Golden Globe, ed è attualmente in competizione come miglior film straniero agli Oscar.

Si svolge ad Auschwitz e narra di Saul Ausländer, membro del Sonderkommando (il gruppo di ebrei obbligati a collaborare con i nazisti nell’opera di sterminio), che dopo una sessione di camera a gas trova un ragazzo che sorprendentemente è sopravvissuto. Il ragazzo in seguito verrà definitivamente soffocato. Dichiarando che questi è suo figlio, Saul decide di donargli una degna sepoltura anziché riservagli la crudele cremazione. Il suo scopo finale sarà di trovare un rabbino che reciti, alla sepoltura, il Kaddish.

László Nemes verte l’intera vicenda sulla claustrofobia e sull’imprigionamento di Saul dentro ad Auschwitz. Lo fa utilizzando degli espedienti tecnici molto contemporanei che si pongono al servizio dell’impatto visivo ed emotivo. Riduce il rapporto d’aspetto, ovvero il rapporto matematico tra la larghezza e l’altezza di un’immagine ad 1.37 : 1 (solitamente si impiegano 16 : 9, 1.85 : 1  o  2.39 : 1), utilizza principalmente una sola lente standard da 40mm e tutto il film ha come punto di vista il primo piano di Saul.

Lo spazio circostante diviene così una prigione, sia per il protagonista che per l’audience. Si affoga dentro un ambiente inquietante, ansiogeno, che opprime i sensi. Si esce dalla sala disorientati come se per più di due ore non fossimo stati uomini che guardano un film, ma uomini che non vengono trattati come tali; come se fossimo stati noi alla ricerca della dignitosa sepoltura del “figlio” di Saul.

Il film permette una profonda immersione non solo grazie alla fotografia, ma soprattutto grazie al sound design. Non si hanno precisi riferimenti visivi dell’ambiente circostante, e il suono si rende principale fautore della narrazione. La post-produzione del suono è durata circa cinque mesi nei quali sono riusciti a rappresentare perfettamente l’ambiente di un campo di concentramento. Ciò che colpisce maggiormente è la capacità del suono di diventare inoltre oggetto dei turning points. Raggiunge la sua massima raffinatezza, è l’elemento caratterizzante dei beats della narrazione, e soprattuto è suono puro, non parole e/o dialoghi.

Ad accompagnare una ricercata tecnica c’è la prodigiosa interpretazione di Géza Röhrig nei panni di Saul. Poeta ungherese trapiantato a New York da 16 anni, lo si vede per la prima volta sullo schermo con Figlio di Saul.  Con serrate espressioni facciali ricrea un personaggio misterioso e determinato. Il suo personaggio, a detta di Nemes, non è realmente religioso poiché commette degli errori nella sepoltura; nella cultura ebraica non c’è bisogno di un rabbino ma di dieci persone che recitino il Kaddish. Ma questo è l’escamotage per il protagonista per poter fuggire, per poter avere un fine ora che la sua vita sembra non averne.

Il film si dimostra di una complessità tale che è stato paragonato all’Antigone di Sofocle. Antigone, quasi come Saul, si scontra con la volontà di Creonte pur di poter dare sepoltura a suo fratello Polinice. Ciò che giustifica le azioni dei due protagonisti è l’anteposizione di un decreto umano, e divino, ad una volontà tirannica. Certamente i finali delle due storie prendono strade diverse, ma lo scopo è propriamente quello di, parlando in termini hegeliani, anteporre la legge della famiglia alla legge dello Stato. Hegel non sarebbe molto d’accordo, ma sicuramente riposerà in pace lo stesso.

László Nemes propone un cinema ermetico dove le parole vengono ridotte all’osso. La superficialità di una parola viene sostituita da un suono naturale, l’eloquenza di una frase da una specifica azione. Porta sullo schermo un cinema che segue la più innovativa corrente odierna, quella dell’est Europa. È un cinema fatto da minimalismo di dialoghi, cinematografie sperimentali, e storie di vita narrate con crudezza. Nemes si affianca a registi come il polacco Pawlikowski (Ida, 2013), il russo Zvyagintsev (Leviathan, 2014), l’ucraino Slaboshpitsky (The Tribe, 2014) o il russo Volobuev (Cold Front, 2016). È un cinema fatto di registi emergenti che stanno anche cominciando a riscuotere un grande successo ad occidente. È un cinema che oggi ha molto da insegnare al magniloquente e ridondante cinema Hollywoodiano, che quest’anno, agli Oscar, si dimostra carente di grande originalità.

Giovanni Busnach

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