Lo spazio dello “Shed” di Pirelli Hangar Bicocca accoglie, dopo l’epico Casino del messicano Damiàn Ortega, la prima personale in Italia di Petrit Halilaj. Inaugurata il 3 dicembre, la mostra Space Shuttle in the Garden è stata curata da Roberta Tenconi, giovane curatrice che vanta 10 anni di esperienza al fianco di Massimiliano Gioni presso la Fondazione Nicola Trussardi.
L’esposizione è concepita come un ingresso nell’universo familiare dell’artista, attraverso dispositivi che ne attivano il ricordo. L’opera di Halilaj è, infatti, estremamente correlata e dipendente dall’esperienza personale, dalla storia di una regione, dagli eventi che hanno scosso la sua terra natia, il Kosovo.
Tutto il percorso racchiude una duplicità di natura nelle cose, una componente propria, individuale, biografica, ed una collettiva. Questo perché la riflessione di Petrit Halilaj è quella di un fuggitivo, di uno straniero nella sua stessa terra. Ogni sua costruzione racchiude quindi una particolarità e un’universalità, oltre che un lato esclusivo e uno inclusivo.

Photo Agostino Osio
Esempio più emblematico è The places I’m looking for, my dear, are utopian places, they are boring and I don’t know how to make them real. Casseri in legno, usati per l’edificazione della nuova casa di famiglia a Pristina, organizzano gli ambienti della dimora ricostruendo lo spazio comune, di relazione, al centro dello “Shed” e gli spazi privati e intimi, staccati e separati ai lati. La monumentalità dislocata dell’installazione è il nucleo centrale dell’esposizione, ed essa viene utilizzata per risolvere l’arduo compito curatoriale di gestire lo “Shed”. La sua struttura di “enorme quadrato”, infatti, obbliga immediatamente lo spettatore a vedere tutto subito, rendendo difficoltosa una progressione. E sono allora le costruzioni in legno a ritmare la visione d’insieme, spezzettando l’univocità dello sguardo, creando scorci, cornici, occultamenti e punti di vista.

Photo Agostino Osio
A dare ulteriore fisicità alla dolce dialettica tra le sfere del privato e del pubblico, del dentro e del fuori, interviene They are Lucky to be Bourgeois Hens, installata all’esterno dello spazio. Un razzo spaziale in legno funge da dinamico pollaio per alcune galline. Gli animali, “metafora dei comportamenti umani”, esplorano l’interno della mostra, separati da un recinto, abituandosi, ora dopo ora, ad un nuovo ambiente pronto ad ospitarle e ad essere plasmato a loro piacimento. Il razzo delle galline, dall’interno blu Klein, diventa l’ipotesi utopica di una fuga da un ambiente, da una condizione, verso un’altra. È la fuga che ha accompagnato Halilaj per tutta la vita, rapida e rovinosa lontana dalla guerra, o leggiadra e soave, come il volo di una farfalla in un prato. Lo stesso volo di farfalla che evoca Cleopatra (lamp), la lampada sospesa a soffitto che simula gli aleatori movimenti di un insetto, o quello che si incrocia nel video Who does the earth belong to while painting the wind?!.
Quest’ultimo racconta la vita attuale della collina a Kostërc sulla quale sorgeva la casa della famiglia di Halilaj, andata distrutta. Il video segue il percorso dell’artista che si inoltra nei luoghi dell’infanzia tornati vergini e incontaminati grazie alla riappropriazione della natura. Su questa collina la madre aveva nascosto i propri gioielli, prima di allontanarsi a causa della guerra, insieme ai disegni del piccolo Petrit. Questi cimeli materni sono recuperati dall’artista che, ingrandendoli di 100 volte, li propone come It is the first time dear that you have a human shape in tre versioni: diptych I – earring, butterfly collier, bracelet. Gli ingrandimenti degli oggetti preziosi sono cosparsi con polveri colorate che provengono dalle rovine stesse della casa, inglobando la persistenza di un ricordo e la sua sopravvivenza.
Nell’ossessiva rincorsa della propria provenienza, Petrit Halilaj mostra la necessità di una ricerca sull’identità, creando un ambiente che è stato definito forse come un’utopia, ma che sicuramente comprende l’intimo e il collettivo, l’artista solo e l’artista nel suo mondo. Ma lo spazio sospeso e lirico ricreato all’Hangar non è un lamento nostalgico, né tantomeno l’elogio di un universo autoreferenziale, è solo un granello, un episodio, un gradino che affronta temi estremamente aperti e collettivi. Come ha affermato la curatrice Roberta Tenconi, Halilaj “usa la sua biografia e storia personale come materiale per parlare di temi universali”, e la sua storia parla di un’identità, di un bambino che mangia ciliege sopra un albero, di un individuo succube degli eventi, di una madre, di una realtà distrutta e ricostruita e, così, di un intimo che si fa collettivo.
Bernardo Follini
Courtesy of the artist and Pirelli Hangar Bicocca