Una settimana fa la nostra pagina Fb è arrivata a 666 Mi Piace e noi ci siamo illuminati pensando alla storica Sympathy for the Devil della one band standing (tra le leggende del rock) The Rolling Stones. È una delle canzoni che ha segnato la storia del rock’n’roll, una delle più citate, una delle più controverse ed una delle più scandalistiche.
Prende liberamente ispirazione da Il maestro e Margherita di Bulgakov dove Satana viene descritto come un raffinato gentiluomo. Jagger, forse per qualche bagordo di troppo, dichiarò di aver preso spunto da Baudelaire, anche se di Lucifero, tra i testi dello scrittore francese, non si trovano tracce.
Il brano dell’album Beggars Banquet avviene tramite la narrazione in prima persona di Lucifero che cita coltamente vari drammi nella storia dell’umanità. Parte dalla Guerra dei Cent’Anni, passa dall’uccisione dei Kennedy, alla Rivoluzione Russa d’Ottobre, alla Seconda Guerra Mondiale per presentarsi davanti al suo pubblico. Il suo essere può essere metaforicamente interpretato come l’essenza della malignità dell’essere umano, dato che tutti gli eventi citati sono causa degli uomini.
La produzione e lo sviluppo di Sympathy è stata documentata dal grande regista della Nouvelle Vague Jean-Luc Godard. In quell’anno (1968) Godard venne chiamato in Inghilterra per fare un documentario sulla legalizzazione dell’aborto. Come arrivò nella terra di Elisabetta le leggi sull’aborto si ammorbidirono, rendendo il documentario inutile. Così Godard decise di rimanere a Londra a patto che potesse filmare i Beatles o gli Stones. I Beatles rifiutarono mentre gli Stones, suoi grandi fan, accettarono di primo acchito.
Il risultato sullo schermo è un misto tra fiction e non-fiction, dove allo sviluppo della canzone si alternano delle mise en scène. Si intervallano i Black Panthers che leggono testi di stampo rivoluzionario in una discarica di auto mentre si passano fucili, per poi uccidere donne vestite in bianco; una donna che passeggia in un bosco che risponde a domande di alto livello culturale con semplici “si” e “no”; persone che scrivono sui muri parole che fanno riferimento al marxismo e al cinema; un uomo in una libreria di fumetti e riviste porno che legge il Mein Kampf. Ed il tutto è seguito da una voce fuori campo che promuove il Marxismo e la necessità di una rivoluzione.
One plus one o Sympathy for the Devil (quest’ultima è la versione del produttore) diventa così un misto tra realtà e finzione dove Godard, tramite lo sviluppo della canzone, porta sullo schermo le sue idee politico-sociali. Diviene un miscuglio che spesso e volentieri si aggroviglia su se stesso senza dare spazio vitale a tutti i suoi componenti narrativi, o per meglio dire, a quelli più importanti.
Godard si vuole mettere al centro dell’attenzione dando più spazio alla sua produzione che a quella degli Stones. Riempie le sue mise en scène di concetti che faticano ad esprimersi in uno spazio così breve. Forse vien da pensare che tutto ciò l’avrebbe potuto esprimere in maniera estesa e compiuta all’interno di un altro lungometraggio.
Neanche l’aspetto tecnico è dei migliori: il suono si perde con i movimenti della camera, il microfono compare nel frame, e le luci mal posizionate rivelano i movimenti di camera. Ma soprattuto il documentario resta distaccato poiché le riprese sono sempre limitate a lunghi piani sequenza. Non vengono quasi mai proposti primi piani e questo fattore lascia lo spettatore a indebita distanza.
One plus One diviene così un eccesso intellettualistico che non lascia respiro alla vera essenza del documentario. Sarebbe stato più interessante vedere una completa e dettagliata evoluzione della canzone. Sympathy for the Devil è una canzone articolata sotto ogni aspetto e il fatto che sia passata per vari generi, e per varie versioni, la rende unica. Tralasciarla a degli intermezzi ha sminuito la sua vera essenza, la quale ha influenzato generazioni su generazioni di amanti del rock’n’roll.
Giovanni Busnach