Quando ogni risata è un angelo che fa teatro

Ridere fa bene, perciò loro vogliono che oggi vi sbellichiate!

Purtroppo, e questo non è per niente divertente, di questi tempi (tanto distanti dai benefici influssi comici di Karl Valentin) bisogna prendere atto di una dura realtà: è difficile che a teatro si rida tanto quanto si ride guardando Frankenstein Junior. Eppure questo paragone può essere il giusto metro per la riuscita di uno spettacolo.
Non era forse lo stesso Brecht ad esaltare il benefico effetto della risata sul pensiero? Capita spesso che il movimento del diaframma arrivi a scuotere la mente, facendola arrivare là dove ogni drammatica seriosità ha già gettato la spugna da un pezzo.

E’ senza dubbio questo il caso di Karmafulminien, sottotitolo “Figli di puttini”. In questa commedia teatrale, gli Igor sono tre e ciascuno di loro è il fiero erede della statura comica che fu di Marty Feldman; e, bisogna proprio dirlo, ciascuno di loro è altrettanto brutto.
Eppure si tratta pur sempre di creature celesti, benché cadute su un palcoscenico. Forse sono i cugini poltergeist e casinisti degli sfigati alati immaginati da Wenders in Il cielo sopra Berlino. Senza alcun dubbio siamo di fronte ad “angeli da petardi nel culo”; lo si capisce dal fatto che, in effetti, hanno davvero tre fiammeggianti mortaretti tra le chiappe. La cosa è resa ancora più evidente dalla loro totale nudità; osservandoli sgambettare per il palco, affiora il dubbio che siano costretti a sorreggersi le parti intime per un’ora e mezza, subito infranto dal goffo tentativo di coprisi con delle piume piovute dal cielo.
Un ingresso del genere, si capisce, non è cosa di tutti i giorni. Così come, nella routine dello spettatore di teatro, è assai raro spogliarsi del proprio telefono silenziato per affidarlo allo sconosciuto seduto nella poltrona accanto; ciononostante, ipnotizzati dalla situazione tra l’onirico e la risata isterica che gli attori vanno creando, lo si fa. Stupendosene, ovviamente, e partecipando così ad un rito di socialità basato sulla reciproca smart-responsabilità, una sorta di patto di sangue 2.0. Il legame, sul palco come in platea, è ormai indissolubile.

La solennità dei momenti clou dello spettacolo è adeguatamente sottolineata da toni importanti e aulici: si tratta del barese stretto parlato dall’angelo riccio, quello che sfoggia un casco corvino che nella realtà appartiene all’attore Graziano Sirressi. Gli altri due interpreti, Enrico Pittaluga e Luca Mammoli, si uniscono al coro di lamentazioni.
Pare infatti che il lavoro delle celesti schiere sia alquanto gravoso da quando se ne è perduta la dimensione artigianale: giacché non ci troviamo più di fronte a custodi, angeli per la vita, ma a semplici consolatori. Una pacca sulla spalla e via, ci lasceranno con tutto il nostro carico di umanità; a loro resterà solo il dolore di tanta infelicità e frustrazione, assorbita attraverso i pensieri di un pubblico ogni sera diverso, da intrattenere per un po’ e abbandonare appena possibile.
Non troppo diversi da attori professionisti, capocomici itineranti o giullari d’altri tempi, questi tre personaggi grotteschi e comici – ma anche terribilmente inquietanti e fragili – sono letteralmente lo specchio del nostro stesso spaesamento. Al punto che quando dalle profondità della scena emerge uno scandaglio di anime, di quelli da toilette che le signore usano per truccarsi, il timore è proprio quello di essere colpiti dal raggio di luce riflessa. Non è bello vedersi mentre si ride di sé stessi, ma d’altra parte è anche difficile ignorarlo.

E’ facile ritrovare stampato sul foglio di sala il proprio ritratto, inclemente ma onesto: anche noi siamo “irrequieti, nostalgici estimatori dell’Empireo, della contemplazione e della pace dei sensi […] spugne del mal di vivere, angioletti che trasformano correnti avverse in good vibrations, stati ansiosi in tisane e infusi, malesseri in materassi, complessi in amplessi”, difficili giochi di parole barocco-postmoderni dietro cui nascondersi e illudersi.
Ebbene, questi clown (più consapevoli di quanto possa sembrare) che già avevano stupito il pubblico e spiazzato la critica con Generazione Disagio – Dopodiché stasera mi butto, tornano a sovvertire e smascherare tutto e tutti attraverso il loro teatro fisico co ribaltamento della quarta parete.
1412665250_10478357_10154653619705066_3793353002069721340_nChi è l’attore e chi lo spettatore?
Da che parte sta l’azione e da dove viene la reazione?
E’ una vera e propria invasione di campo, tra partite a badminton e rituali catartici, esorcismi e derisioni!

Un carrozzone impegnativo e denso, dalla comicità travolgente e strabordante. Si ride e si continua a ridere anche una volta che si è usciti dalla sala.
Il merito va certamente alla recitazione, totalmente asservita e generosamente abnegata alla causa, serissima e concentrata fino alla fine.
Ma non dimentichiamo che tra gli ingredienti di questo successo ci sono anche un testo stringente e serratissimo che vede la collaborazione del regista Riccardo Pippa, maestro del ritmo teatrale; ci sono le scenografie pop in trasparenza tendenti al kitsch della neo-diplomata Anna Maddalena Cingi, ottima prova d’esordio e dico sul serio; ci sono i (molto minimal) costumi di Daniela De Blasio, dalla simploche vedo-non vedo semplicemente semi-oscena e proprio per questo tantopiù godibile.
E infine c’è un patron d’eccezione, pienamente meritato e sfruttato, il genovese Teatro della Tosse e la sua Fondazione Luzzati.
Tanto sforzo, dunque, per tanto sano e ponderato riso. Che se ci si pensa bene, quasi vien da piangere al pensiero che Mel Brooks stavolta non c’entra niente.

Giulio Bellotto

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