13 astrazioni in forma di esperimenti visivi e sonori ispirati alla Bauhaus del pittore Josef Albers, esperto di ottica e colorimetria.
“Astratto: ritirato o separato dalla materia, dall’incarnazione materiale. Opposto a concreto”
– Oxford English Dictionary
Il foglio di sala informa con prosa asciutta che la parola deriva dal latino, abstractus, che significa “tratto via”.
Come in matematica il senso di astrarre qualcosa significa ridurlo al suo essenziale così nelle arti visive il senso della pittura astratta è una composizione indipendente dal mondo del reale e dalla sua mimesi, continua con tono convincente.
Il ragionamento si riferisce alla pièce SQUARES DO NOT (normally) appear in nature, capitolo introduttivo della Minuta retrospettiva proposta al pubblico milanese da OHT, un collettivo d’artisti sviluppatosi nel 2008 come ponte tra l’Italia, la Germania, la Spagna, l’Inghilterra e una nuova tensione delle Arti drammatiche rivolta a un Teatro a misura d’uomo – qualunque significato gli si possa attibuire oggi.
Lo spettacolo è a tutti gli effetti un no-man show, “interpretato” da un groviglio di braccia meccaniche, proiettori e fari, tubature dallo sgocciolio rigidamente controllato e un trenino elettrico scorrazzante per una cubica gabbia di metallo, capaci di tenere banco per un’oretta tenendo in scacco il pubblico del Crt, teatro d’essai della Triennale.
La rappresentazione offre infatti parecchi spunti interessanti di cui gli inanimati attori sono senza dubbio totalmente inconsapevoli e che probabilmente anche i progettisti/scenografi e il regista Filippo Andreatta, architetto e performer, non hanno pienamente preordinato. Se infatti è evidente che alla costruzione della scena e al suo armonico assemblarsi in blocchi astratti è stata dedicata una cura dalla precisione maniacale e ingegneristica, meno scientificamente prevedibile è il risultato dell’operazione nel suo complesso: molte impressioni si amalgamano sulla tavolozza, ma sempre seguendo un ordine logico.
In fondo è la razionalità ad essere messa in scena sotto forma di macchinario, un’estensione fisica e al tempo stesso il frutto di una mente matematica; anche l’evocazione (realizzata ad esempio tramite le proiezioni o l’illuminotecnica) non segue i binari dell’emotività ma del pensiero astratto. Come potrebbe essere altrimenti in una narrazione scenica che parte da due uomini, l’astrattista Albers e il designer Mies van der Rohe, per ripercorrere metaforicamente l’inevitabile e inarrestabile chiusura del Bauhaus ad opera del regime nazista nel 1933?
Potrebbe sembrare paradossale per una compagnia teatrale che pone al centro della sua opera l’uomo scelgliere di presentarsi attraverso uno spettacolo che elimina la componente umana dallo spazio scenico, per lasciarla poi fluttuare nell’aria grazie a registrazioni audio o video delle grandi menti artistiche del secolo scorso.
Ma a ben guardare questa contraddizione non è l’unica e neppure la più profonda: infatti SQUARES è tutto sommato la meno astratta delle tre opere che compongono la Minuta retrospettiva del Crt, pur essendo l’unica a dichiararsi tale. Gli elementi della scena inscritta nel cubo metallico sono in fondo molto concreti nella loro meccanicità; i capitoli successivi cambiano completamente la prospettiva in modo piuttosto rappresentativo della poetica – e in misura ancora maggiore della pratica – teatrale di OHT.
AUTORITRATTO con due amici è la prima parte di un dittico sulle deficienze: attraverso la storia di due figure – probabilmente lo stesso personaggio a diversi stadi di mancanza d’orgoglio, di riscatto o di senno – e i loro rapporti di gerarchia e di imbarazzo, si parla del “fallimento in uno spazio privato”. Uno vince e l’altro perde, uno passa inosservato in trionfo attraverso il palco e l’altro esce di scena; il tratto è quello del libro da Nobel di Heinrich Böll, Foto di gruppo con signora, un parodico pastiche di lingue e toni stilistici.
La scena è colorata, gli oggetti disposti a caso sembrano messi ad arte e sono, di fatto Arte: merda in studio d’artista, molto più interessante della recitazione impacciata sfoggiata per l’occasione da attori che anche in questo caso si limitano ad essere motore di una storia fatta di fogli, colori, ragni di plastica, tubi di gomma e suppellettili.
Lo spazio e la sua trasformazione sono gli elementi preponderanti anche in DEBOLEZZE in statu quo res erant ante bellum, la seconda parte del dittico teatrale.
Questo palco, rappresentazione di un luogo pubblico eppure inaccessibile, ospita e vive lo sviluppo assurdo delle vicende raccontate nel primo spettacolo: il vincitore dell’AUTORITRATTO incontra altri pellegrini della scena e con loro vive senza alcun edonismo. Fumando canne in un’atmosfera infusa d’ilarità e impotenza, si insiste sull’idea che la perfezione non abbia la possibilità di migliorare; un cruccio generazionale molto materiale se riferito allo stile di vita dei giovani, molto più etereo se accostato ad una poesia di Brecht, motto e stendardo della pièce
Debolezze
tu non ne avevi
io sì, amavo
Il dichiarato riferimento alla produzione accademica del sociologo americano Richard Sennett, autore di numerose teorie sulla socialità nei contesti urbani, non basta ad emendare questo sentore di facile introspezione, parzialmente mascherato dall’azione teatrale subìta dalla scenografia prima ancora che agita dagli attori, cosa ci cui ci si rende conto da una panoramica complessiva al termine della rappresentazione.
Osservando questi esiti, bisogna riconoscere che questa Minuta retrospettiva ha saputo creare tramite sottrazione e decostruendo i canoni della scena teatrale un linguaggio originale e spiazzante, ma dotato di autonomia e carico di innovazione. La parte dell’attore è marginale, anche se capace di proporre del tutto casualmente momenti molto validi a livello estetico. La verve interpretativa, al limite dell’improvvisazione autoreferenziale, è volutamente esternalizzata: è il Teatro della scenografia concettuale.
Resta da sciogliere l’ultimo interrogativo: dov’è l’Uomo in OHT?
Leggendo le note di regia ci si imbatte in una frase davvero notevole, di fronte alla quale non si può che sperare nel migliore esito possibile per un tale percorso artistico: “in maniera ellittica e autoironica, desideriamo rivitalizzare le nostre incapacità all’interno di uno spettacolo che non sarà mai un capolavoro ma, tuttavia, qualcosa di sincero”.
Buona fortuna, dunque, nella ricerca di un Teatro che sia davvero Umano!
Giulio Bellotto
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