Questi corvi dipinti due giorni prima della morte aprono alla pittura dipinta, o piuttosto alla pittura non dipinta, la porta occulta di un aldilà possibile
Antonin Artaud su Campo di grano con volo di corvi di Vincent Van Gogh
L’autore di cui vi sto per parlare, forse il più significativo e incompreso teatrante di Francia, scrisse questa frase poco prima di morire lui stesso – la sorte può essere stranamente ironica quando ci si trova sulle rive della Senna.
Per la precisione morì quattro mesi dopo, giorno più giorno meno. Fu una fine curiosa quella di Artaud, teorico del Teatro della Crudeltà e ispiratore di fondamentali esperienze artistiche secondonovecentesche come il Living Theatre o il Teatro povero di Jerzy Grotowski.
Si spense nel suo studio, solo, stringendo in mano una scarpa, probabilmente stroncato da una dose letale di chloral, nome scientifico tricloroacetaldeide, un sedativo molto in voga nei primi anni ’30 del Novecento.
Non a caso una conclusione decisamente surreale per un artista che in vita fu attivissimo, instancabile e senza pace: colpito da meningite in giovane età, nevralgico, balbuziente, indubbiamente geniale, fu più volte internato in manicomio e più volte al centro delle avanguardie che fiorirono nei primi anni del secolo. Del Surrealismo disse:
è un mezzo di liberazione totale dello spirito.
Il suo Teatro “crudele” era in questo indubbiamente surrealista; per Artaud cruauté significava infatti catarsi dall’atroce “sofferenza di esistere”, esorcizzata attraverso il magico rituale della realtà messa in scena.
In quegli stessi anni un diverso tipo di esorcismo del reale – stavolta agito attraverso la scrittura – prendeva forma e si diffondeva attraverso un altro crocevia d’acqua, non un fiume ma un mare, l’Adriatico. Sotto la bora triestina infatti Joyce discuteva con Svevo della liberazione totale delle parole e del pensiero: il flusso di coscienza.
Pochi mesi prima di morire, Artaud utilizzò un espediente letterario molto simile in Van Gogh, il suicidato della società, il testo da cui è tratta la citazione che inaugura questo articolo.
Non un romanzo ma un saggio; un’opera molte volte interessante dal momento che non parla solo del pittore olandese, ma attraverso il significato culturale e sociale di quella figura storica tratta anche di svariati artisti dell’epoca moderna.
Poe, Baudelaire, Hölderlin, Coleridge, Nietzsche e naturalmente Artaud stesso sono accomunati da un unico destino: essere stati ridotti al silenzio. Una sola frase può riassumere il destino di tutti gli artisti “silenziati”, rappresentati dal più iconico tra loro:
Van Gogh non si è suicidato in un impeto di pazzia, nel panico di non farcela, ma invece ce l’aveva appena fatta e aveva scoperto chi era quando la coscienza generale della società, per punirlo di essersi strappato ad essa, lo suicidò.
Da un punto di vista sintattico, questa frase è tanto immediata da risultare quasi scorretta, colloquiale. E’ decisamente più simile ad un’invettiva che a una tesi; è a tutti gli effetti un’accusa e necessita di un certo tempo per essere decrittata dal lettore.
Eppure si tratta di uno scritto che una volta pronunciato ha la forza del periodo che sta tutto in un fiato.
Esattamente come ohtuchemisuicidi.
E’ questo il titolo della lettura/concerto della crudeltà liberamente tratto da Van Gogh, il sucidato della società. In scena, Antonello Cassinotti alla voce e Giancarlo Locatelli a fiati e percussioni.
La loro performance non tradisce affatto il nome con cui la presentano: siamo senza dubbio di fronte ad uno dei pochi esempi moderni di scriptio continua. Il suono è ininterrotto, il senso quasi inintelleggibile, la composizione perfettamente scandita eppure evidentemente improvvisata; l’immaginario che viene proposto al pubblico è evocativo, ma non risolutivo.
E’ poesia, senza dubbio è poesia sonora. Eppure è anche poesia incerta, laddove le influenze si smarriscono. Se Henri Chopin, pioniere degli audio poèmes, diceva che “grazie all’elettronica la voce è diventata finalmente concreta”, qua siamo di fronte a una scenografia fatta di necessità e virtù; solo un tavolo di legno massello, campane e thunder drums fatti con barattoli del tè e ciò che una voce può creare destreggiandosi con grande maestrìa e perizia tra echi, riverberi e variatori di velocità.
A completare il quadro c’è anche un clarinetto contralto. O meglio, un suo cinquantaquattresimo: infatti ad ogni rappresentazione lo strumento riproduce solo uno dei 54 semitoni che può raggiungere, un limite che dà forma crudele e compiuta ad una sfida teatrale ritualizzata fino ad esaurirne le possibilità sonore.
Cinquantaquattro repliche, non di più

In rosso, i mezzi toni eseguiti finora: la rappresentazione a cui si riferisce la recensione è compresa tra F5 e F#5, terzo segno sul 4° pentagramma (30/11 @ Farolfiadi, Milano)
Nell’epoca della riproducibilità, questo volontario ritorno all’originaria finitezza dell’arte ricorda la deperibilità dei manoscritti antichi, codici miniati d’incomparabile bellezza il cui destino è effimero.
Pagine su cui si possono leggere ancora oggi i vecchi flussi di coscienza che da sempre sono stati il modo privilegiato dai poeti per esprimere le loro verità sull’Arte.
Giulio Bellotto
ARMAVIRV^QCANOTROIÆQPRIMVSABORISITALIA^FATOPFVGVSLAVINIAQVENITLITORA
Canto l’armi e l’eroe, che primo dai lidi di Troia, profugo per fato, giunse in Italia alle spiagge di Lavinio
– Virgilio
Non è comune vedere un uomo, con nel ventre una fucilata che lo uccise, ficcare su una tela corvi neri e sotto una specie di pianura livida forse, vuota in ogni caso
– Antonin Artaud
L’ha ribloggato su sergiofalcone.
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