Il buon teatro ha una ragione per tutto.
Ogni movimento, suono, parola, cambio luci, ogni elemento scenografico e ogni più piccola scelta registica concorre ad un disegno più ampio in cui ciascun tratto contribuisce ai contorni dell’opera, un fenomeno complesso che dalla platea si può percepire solo nella sua interezza.
Le componenti del mosaico si confondono tra di loro, anche per una prosaica questione di distanze; laddove lo sguardo è libero di vagare e non viene fissato su una singola pozione di scena, come avviene in tutte le forme d’arte mediate (da un’inquadratura, da una cornice, da qualsivolgia collocazione specifica e quindi non inclusiva dello spazio circostante), la capacità di distinguere i dettagli tende a venire meno a favore di un’impressione generale e immediata – in cui cioè l’interpretazione del fenomeno non è frutto di una collaborazione, un incontro a metà strada tra artista e spettatore, ma pertiene esclusivamente a quest’ultimo.
Un regista cinematografico può sfruttare molti stratagemmi per condurre il suo pubblico ad un’emozione, una riflessione, una sensazione. A teatro nessuno di questi trucchi funziona; ciò è positivo perché rende la comunicazione più equilibrata e, in definitiva, più onesta e paritetica. Nessuno può ingannare il prossimo, a teatro.
Avviene però che ci si inganni da sé, tanto come pubblico quanto come artisti. La colpa è quasi sempre di un errore nella messa a fuoco dei dettagli; guardare senza vedere o senza capire è il tipo di cattiva comunicazione che non consente di accordare gli elementi della scena tra di loro o col pubblico. Così si ritorna ad un disequilibrio che pregiudica le ragioni del teatro.
Questo caos è pericoloso da portare in scena, a meno naturalmente che non sia intenzionale e controllato; in questo caso diventa genere a sé col nome di Assurdo, o Grottesco, o molti altri. Un genere che invece ha bisogno di essere quanto più armonico possibile è sicuramente Teatro che si basa sul corpo.
In questi mesi tra MilanOltre, Danae Festival e altre programmazioni dedicate, nei teatri di Milano sta transitando moltissima danza e teatro fisico: due soli spettacoli possono bastare per dare una fugace impressione di ciò che è buon teatro e ciò che vorrebbe esserlo senza riuscirvi.
La prima coreografia è Twin cities andata in scena al Crt, opera di Shi Jing Xin e del suo collettivo Xin-Art-Lab. L’artista cinese, appena trentenne, è già stata la più giovane tra i direttori artistici della cerimonia di apertura dei XXIX Giochi Olimpici di Pechino, insegna alla Beijing Dance Accademy e nel suo campo è una delle realtà più interessanti del Paese.
Lo spettacolo affronta ricordi e immagini legate a due città in cui Xin, regista e interprete, ha vissuto: Pechino e Shangai.
Il dittico che ne risulta vede le due metropoli emergere dalla memoria collettiva attraverso un racconto innanzitutto mitico, la nascita del “Giardino dell’armonia educata” (per gli occidentali, il Palazzo d’Estate) voluto nel 1750 dall’imperatore Qianlong sul sito del più antico “Giardino dei chiari gorgoglii”, e in secondo luogo biografico: la storia personale dell’artista che si confronta tramite gli stilemi della pantomima con il difficile passato della sua famiglia e del suo Paese.
Tanto gli elementi più attinenti alla danza contemporanea quanto quelli evidentemente legati alle consuetudini del teatro si avvalgono di una tecnica ineccepibile che esalta ogni elemento della scena in un dialogo ben orchestrato. In questo modo la musica sperimentale, i quadri ambientali, le sequenze drammatiche, i suoni dei Giardini personificati, i testi e le immagini video della Cina nel pieno del fermento maoista sono preziosi componenti di un’opera sincretica e precisissima.
La seconda pièce presenta invece una riflessione sul tempo e sul destino individuale, giocata sul canone del teatro fisico e affrontata attraverso il mito di Orfeo. Der augenblick Dort in tedesco significa “quell’attimo lì”. Ma con questo tormentone sulle labbra, gli attori della compagnia piemontese Tecnologia Filosofica, con la regia di Michele Di Mauro, non riescono neanche per un attimo – neppure quello lì – a incantare o coinvolgere.
La drammaturgia è composta da una confusa moltitudine di testi e contributi provenienti dai moltissimi autori che hanno trattato il topos orfico: le parole di Rilke rincorrono le ombre di Lynch lanciate contro le note di Offenbach in uno strenuo tentativo di difendere l’assunto, discutibile e piuttosto ingenuo, che nella vita esista un unico momento decisivo, un punto di non ritorno, un luogo del tempo, dello spazio e dell’anima da cui possono dipendere molte traiettorie e prospettive e soluzioni. Il risultato però potrebbe ancora, sulla carta, essere valido: le armi dell’evocazione sono potenti e, benché sia molto difficile seguire il filo logico che unisce tra loro i quadri dello spettacolo, la pretesa di avere un’assoluta comprensione della scena spesso manca il fuoco dell’immagine proposta, costituendone un limite estetico e contenutistico.
Piuttosto, è imperdonabile il pressappochismo con cui è affrontata la messa in scena la cui qualità del movimento è minima; ciò a fronte di una partitura fisica dispendiosa, affiancata ad una pesante scenografia a pannelli, con oggetti di scena didascalici e descrittivi e l’utilizzo di maschere animali dal significato simbolico molto scoperto. Di nuovo, però, questi elementi non ne pregiudicherebbero la riuscita se la messa in scena li valorizzasse anziché appoggiarvisi sperando che qualcosa accada.
Siamo, insomma, di fronte ad uno spettacolo che altro non merita se non la lode di Ero:
mi sembra troppo bassa per un’alta lode, troppo scura per una chiara lode, e troppo piccola per una grande lode. Solo questo posso riconoscerle di buono, che se fosse diversa da com’è, non sarebbe bella, e che, essendo com’è, non mi piace
da Molto rumore per nulla – W. Shakespeare
Giulio Bellotto