La mostra ospitata a Palazzo Reale riprende una modalità concettuale cara al curatore, la stessa che aveva razionalizzato per dirigere la 55a Biennale di Venezia: l’Enciclopedia.
Partendo da questo presupposto, quella della Fondazione Trussardi si pone come l’Enciclopedia di un’importante iconografia, quella della madre, in grado di elencare le sue oscillazioni del gusto durante il XX secolo. Più di cento artisti sono chiamati in adunanza da Gioni per dare la propria definizione della figura femminile, determinata dal loro tempo e dalla loro sensibilità artistica, andando a comporre un grande libro-mosaico visivo attraverso le stanze di Palazzo Reale.
Trattandosi di Enciclopedia, due sono i problemi che si sarebbero potuti presentare, minando il compito del curatore. Il primo, che è intrinseco al termine adottato, è l’eccesso di una visione didascalica. Il secondo, dipendente per cert versi dal primo, il rischio di creare una mostra noiosa.
Se quest’ultimo problema può essere accantonato immediatamente, grazie a un attento Gioni che è riuscito a districarsi nella gincana espositiva creando continui dialoghi e ribaltamenti, il discorso sul primo appare più complesso o, meglio, ci porta a dividere la mostra in due parti. La prima parte de La Grande Madre, infatti, soffre di un’eccesso didascalico. Questa è rappresentata dalle sale che avviano un percorso cronologico, che passa per le scuole e le avanguardie (Futurismo, Dadaismo, Surrealismo), smembrandole e riconsegnando anche le voci femminili di queste, troppo spesso soffocate. La seconda parte invece, appare più dinamica, stretta dai flussi caotici della contemporaneità, e ordina le sue espressioni per temi o affinità. Punto di snodo tra i due momenti, uno più istituzionale e uno più propulsivo, è l’opera senz’altro più sconvolgente presente in mostra: Amazing Grace di Nari Ward.
Entrati in una sala dall’atmosfera grave si espande una costellazione di passeggini malandati, abbandonati a loro stessi, resuscitati e cullati dalla profonda voce della madre nera, la cantante gospel Mahalia Jackson che intona Amazing Grace. Grovigli di liane urbane circondano i passeggini vuoti, penetrando e abbracciando la loro tristezza, nel legarli gli uni agli altri. La loro condizione squallida e desolata, però, non repelle, conferisce anzi un significato più denso, un abisso di storia, come l’organo di sottofondo. Maniche antincendio schiacciate per terra guidano il percorso in questo dolce cimitero, attraverso le strutture che con sgomento ci osservano.
L’opera, del 1993, era stata installata dall’artista, giamaicano trasferitosi giovane a New York, in un’abbandonata caserma dei pompieri di Harlem. E i 280 passeggini presentati sono stati raccolti dall’artista per le strade del quartiere, abbandonati alla loro sorte, e uniti per generare un lamento non più individuale.
Superato lo smarrimento provato, incontriamo i grandi nomi femminili della contemporaneità, come Sarah Lucas, Joan Jonas, Barbara Kruger, Louise Bourgeois, Rosemarie Trockel, Cindy Sherman, Sherrie Levine e molte altre.
Il successo e la risonanza della mostra è anche dovuta alla collezione che ha garantito la possibilità dell’esposizione, la fondazione Trussardi. Questa si innesta nell’oceano di istituzioni private che hanno dato l’avvio ad un processo di ammodernamento della nostra Milano attraverso collaborazioni con altre realtà, come la partnership tra UBS art collection e la Gam, o agendo indipendentemente, come il caso della novella Fondazione Prada. In una situazione storica, non nuova, all’interno della quale lo Stato e le istituzioni pubbliche sono ammorbate da inefficienza nel settore artistico, sono proprio questi grandi nomi di privati, veri mecenati contemporanei, a dover risollevare le sorti, le proposte e la qualità dell’ambiente culturale. Nella speranza che la loro azione incalzi le realtà che dovrebbero essere per indole attive e reattive, ci conviene e siamo obbligati a sostare in luoghi che ci gratificano attraverso il loro invito, ma nei quali, per forza di cose, storciamo il naso annusando profumo di doppio fine.
Bernardo Follini
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