Nel proseguire della ricerca sulla contemporaneità e sui futuri del mondo, il Padiglione Centrale presso i Giardini assume un tono estremamente più istituzionale. Qui il rischio e la presa di posizione che si respirava nelle Corderie viene meno o, meglio, si edulcora nella selezione di grandi artisti, definiti dai più critici l’ “usato sicuro”.
Il clima angosciante riprende l’avvio attraverso Fabio Mauri, il cui Muro occidentale o del pianto riesce sempre a sublimare i gretti trascorsi umani.
Roof Off di Thomas Hirschhorn occupa la sua stanza, dichiarando che la città futurista non sarà mai quella descritta dai disegni di Sant’Elia, bensì la sua distopia: la fitta giungla di liane di scotch, di tubi in alluminio, di cartone disegnato con linee nere, di cavi elettrici multicolori. Nella casa del futuro di Hirschhorn tutto è pregno di una verticalità avvolgente che punta alla luce zenitale proveniente oltre il tetto. L’unico contatto che permane con il passato sono i fogli sparsi, sui quali sono stampate opere greche, come l’Apologia di Socrate. Il solo collegamento con la storia è manipolato dalla sua riproducibilità tecnica.
Vicino, il thailandese Rirkrit Tiravanija, dagli anni ’90 uno degli artisti più affermati sulla scena mondiale, espone i Demonstration Drawings che ha commissionato ad artisti della sua terra. I disegni riproducono fotografie pubblicate sull’ “International Herald Tribune” ed hanno come soggetti popoli, studenti, persone di differenti mondi che si uniscono per ribellarsi al potere e alla condizione prestabilita. Questi racchiudono in funzione di critica sociale quell’arte relazionale, quella globalità e quell’impegno che Tiravanija vede come antidoto al rischio angosciante del futuro profetizzato da Okwui Enwezor. In Biennale il thailandese ha presentato anche Untitled 2015 (14,086): una macchina per cuocere mattoni ne sforna appunto 14,086, numero necessario per costruire in Cina una casa standard per una piccola famiglia. I mattoni sono lasciati essiccare e poi offerti al pubblico, aprendo le porte dell’intimità domestica a tutti. Sui mattoni è stato stampato a caratteri cinesi lo slogan situazionista “non lavorate mai”, volto a rovesciare l’alienante condizione dei lavoratori schiavi della società dello spettacolo.
Nell’esposizione, poi, l’analisi del futuro passa per altri mostri sacri, primo fra tutti il belga Marcel Broothears con il suo celebre Un Jardin d’hiver del 1974. il settantanovenne Hans Haacke, dal canto suo, è richiamato ad analizzare le posizioni degli spettatori della Biennale con il suo World Poll effettuato attraverso l’utilizzo volontario di Ipad.
Abbastanza chiara è la scelta di presentare un fotografo oramai classico, Walker Evans. L’americano, morto nel 1975, è globalmente noto per le fotografie anni ’30 della Grande Depressione americana. Riproporre i volti dei contadini americani, scavati dalla loro condizione, altro non significa che interpretare la storia dei drammi del mondo come un eterno ritorno dell’uguale al quale bisognerebbe oramai arrendersi.
Isaac Julien in Kapital, video di 31′, affronta una conversazione con David Harvey sull’opera di Marx, massima auctoritas della Biennale. Adrian Piper è ulteriormente apocalittica nella serie Everything, dove 15 fotografie fotocopiate su carta millimetrata sono state scartavetrate unicamente sopra i volti dei soggetti, sui quali è sovrastampata con inchiostro la frase “Everything will be taken away”. L’artista è stata tra l’altro premiata con il leone d’oro dalla giuria.
Nel finale i 35 Skulls di Marlene Dumas terminano la riflessione della Biennale sui patimenti umani con la più certa iconografia della morte.
La seconda parte della mostra esposta presso i Giardini riconduce quindi il tema capitale nelle mani di figure irreprensibili, di artisti dall’estremo valore che, nel dominare sulle personalità più emergenti, lasciano trasparire, in alcuni casi, la prevedibilità della loro selezione. É nelle mani degli autorevoli, attraverso una loro nuova interpretazione o manipolazione che Okwui Enwezor mostra i futuri del mondo nel Padiglione Centrale.
Tuttavia, come si potrebbe criticare questa manipolazione che è già scontata e dichiarata nel momento in cui vengono chiamati i situazionisti a presenziare come struttura teorica? Il loro détournement era quell’ “appropriazione indebita”, quel “frammento strappato dal suo contesto, dal suo movimento, e in definitiva dalla sua epoca in quanto riferimento globale”. Il détournement che porterà i situazionisti a rifiutare l’ideologia del diritto d’autore è una delle tecniche curatoriali utilizzate da Enwezor per la Biennale. Proprio perché, come scrive Debord nella società dello spettacolo: “Le idee migliorano. Il senso delle parole vi partecipa. Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Esso stringe da presso la frase di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella un’idea falsa, la sostituisce con l’idea giusta.”
il détournement curatoriale dell’autorità proposto da Enwezor moltiplica i significati delle opere passate, facendo scorrere per le stanze del Padiglione Centrale una nuova linfa estetica e tematica con la quale completare la sua idea di All The World’s Futures.
Bernardo Follini