Non esiste paese più superstizioso della Cina. E anche la letteratura, dagli insegnamenti di Confucio al taoismo, al buddismo, è, per così dire, infestata dagli spiriti, che come ci racconta Confucio stesso negli Anacleta bisogna riverirli, ma anche starne a debita distanza. I miti della tradizione abbondano di queste entità, le quali però fanno parte della normalità e quotidianità delle persone, questi prodigi non vengono ritenuti né inverosimili, né irreali e vengono letti come se fossero veri e realmente accaduti. Jorge Luis Borges descrive così la superstizione cinese : “per la loro immaginazione l’ordine superiore è uno specchio di quello inferiore, come dicono i cabalisti”
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Month: aprile 2015
Daniel Buren e l’utensile visivo
Siamo nella già calda Napoli del 25 aprile, che proprio in concomitanza con la data storica e primigenia, offre ai suoi cittadini una parallela occasione liberatrice. Si tratta dell’intervento di Daniel Buren, “Come un gioco da bambini”, progettato ad hoc, o, per seguire la formula da lui stesso coniata, in situ, per la sala Re_PUBBLICA MADRE, al piano terra del Museo Madre di Napoli.
Nata dalla collaborazione tra l’artista francese e l’architetto Patrick Bouchain, il progetto è uno spazio ludico, finalizzato alla celebrazione della “relazione tra il museo e il suo pubblico, tra l’istituzione e la sua comunità”, costituito dall’assemblaggio di un centinaio di moduli di forme geometriche, dai colori differenti ispirati ai giochi artigianali di Friedrich Fröbel. Il pedagogo tedesco aveva studiato le potenzialità conoscitive del gioco, individuando nella scoperta comunitaria della realtà l’affinamento di diverse facoltà quali la percezione, la capacità espressiva, il riconoscimento tattile, l’idea di costruzione e decostruzione. Per raggiungere questo fine, Fröbel, progettò il Kindergarten, il “Giardino dell’infanzia”, dove i bambini erano lasciati liberi di esprimersi attraverso la conoscenza ludica, e affidati a maestre-giardiniere che dovevano occuparsi della loro crescita. Parlando proprio del rapporto tra l’arte e la creatività dei bambini, Buren afferma:
“Spesso si indica qualcosa facile da fare con l’espressione ‘è un gioco da bambini’, come se non valesse nulla. A me l’idea di realizzare cose che saprebbero fare i bambini piace. Lo dicono anche alcune opere di Picasso, Pollock, Matisse. La cosa che non dicono è che i bambini tra i due e i nove anni sono artisti bravissimi, dipingono, disegnano, sono magnifici e allo stesso tempo rendono la creazione facile. Rendono naturale l’estremamente complesso. Un artista, per arrivare a questo livello, spesso impiega 40 anni di lavoro.”
Affrontando la percezione dello spazio, Buren, crea una profonda riflessione empirica, ma al tempo stesso, un divertissement sull’Arte Contemporanea. La stessa arte che, come si dice, può essere fatta da tutti, in questo caso potrebbe essere fatta anche da un bambino. Nella città in miniatura progettata da Buren i volumi colorati e i cubi forati al centro, rivestiti da ipnotici cerchi a righe larghe 8,7 cm (sua vera firma) in bianco e nero, “modificano la nostra risposta agli oggetti” in quanto la nostra retina elabora in modo differente strutture che hanno la medesima forma e grandezza. Entrando nel mondo di “Come un gioco da bambini”, si è colti da una qualche forza metafisica che rende lo spettatore consapevole della scardinante potenza della semplicità cromatica e strutturale; lo stesso Buren sostiene, infatti, che “il colore è pensiero puro e quindi inesprimibile, altrettanto astratto come una formula matematica o un concetto filosofico”. L’intervento rappresenta il primo di una serie di progetti che legheranno Buren al Museo Madre di Napoli, e sarà visitabile fino al 31 agosto. L’intervento nella sala Re_PUBBLICA MADRE fa parte di un percorso personale dell’artista, che ha elaborato a fine 1967 la nozione di opera in situ, dando fondamento teorico alla salda interrelazione tra quelli che sono i suoi interventi e i luoghi in cui sono esposti (che siano istituzionali o urbani).
Le opere di Buren, quindi, fin dagli anni ’60 invadono le strade e gli spazi pubblici, partendo da pratiche strettamente situazioniste, e inserendosi in quella riflessione storica degli artisti specifica degli anni ’60 e ’70, nota come institutional critique. I suoi lavori hanno sfidato la nozione di “installazione” che Buren ha definito come “vetrina dove tutto è fatto con finalità commerciali per allettare il passante curioso” e “messa in scena temporanea per la vendita di oggetti eterogenei o no la cui caratteristica principale, perlomeno, paradossale, è di non avere nulla a che fare con la problematica del luogo”. Il carattere polemico lo ha d’altronde accompagnato per tutta la vita, fin da quando nel 1972 Harald Szeemann accettò di pubblicare un suo articolo critico sul catalogo di Documenta 5, all’interno del quale Buren lamentava il ruolo marginale dell’artista puntando il dito contro la figura del curatore, affermando perentoriamente la sua visione della quinta manifestazione internazionale di Kassel: “L’esposizione s’impone come soggetto autonomo ed essa stessa si sostituisce all’opera d’arte”. Importanza centrale nella riflessione artistica del francese è la cosiddetta “estinzione” dello studio, l’abbandono dell’atelier, visto come luogo “nocivo e contraddittorio”, in favore di una più moderna condizione di nomadismo. Dalla fine del ’66, inizia a stampare su stoffa da tende e carta fasce verticali larghe 8,7 cm ciascuna, bianche e colorate, affini alla “piccola prigione spagnola” di Motherwell, applicandole nei luoghi più disparati, dai musei ai cartelloni pubblicitari nelle strade, e, quando riportate su tela, vi aggiunge una stesura di bianco ai lati, come ironica certificazione del carattere artigianale. Nel 1968 in occasione del Salon de Mai agisce sia all’interno sia all’esterno del Musée d’Art Moderne de La Ville de Paris, rivestendo una parete del museo con carta a strisce bianche e verdi, e facendo circolare due uomini sandwich per le vie della città mentre esibiscono sui loro cartelloni non pubblicità, ma la stessa carta rigata. Così facendo, servendosi della dèrive situazionista, Buren focalizza la sua riflessione sulla separazione tra arte e quotidianità, con la sua provocazione itinerante, ma, al tempo stesso, gioca paradossalmente con la pubblicità museale. Lo stesso marzo tappezza gli spazi di pubblica affissione di tutta la città con la sua carta a righe di 8,7 cm. Sempre nel 1968 ha la sua prima personale alla Galleria Apollinaire di Milano dove blocca l’unico ingresso riempendo la porta d’accesso con le sue fasce bianche e verdi. Le righe di Buren, che nella loro realizzazione industriale, e quindi oggettiva e impersonale, mettono all’ordine del giorno la questione dei limiti della pittura, mostrano il desiderio che l’opera non parli o rappresenti il reale, ma sia il reale. Con estrema consapevolezza e lucidità teorica Buren definisce le sue righe come “utensili visivi”, segnali che siano in grado di richiamare e focalizzare l’attenzione dello spettatore su ciò che l’artista ritiene giusto e importante sottolineare o evidenziare. L’errore risiede nel concepire le stesse fasce colorate come lavoro in sé dell’artista, e non all’interno di una visione molto più ampia, percettiva e critica. Dagli anni ’80 si moltiplicano i suoi interventi architettonici in spazi pubblici come “Les Deux Plateaux” al Palais-Royal di Parigi nel 1986 – lo stesso anno in cui vince il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia –, l’intervento al Parco Archeologico di Scolacium, in provincia di Catanzaro o privati come “Muri Fontane a 3 colori per un esagono” alla Villa Medicea la Magia.
Grazie alla sua carriera monumentale, Buren è un artista che ci insegna non solo una nuova idea di opera, sorta dalla contestualizzazione, dal suo essere e vivere per un momento limitato in uno spazio e un tempo ben preciso, ma anche come guardare un’opera. Egli ci indica e ci far soffermare su quello che abbiamo. Una visione che poggi su salde basi teoriche e sull’idea dell’artista come indipendente oppositore, lo ha condotto verso il superamento e la neutralizzazione del contenuto puramente illusionistico della pittura. La sua arte, staccandosi dal chiodo della parete del museo, inonda le strade, i vicoli, l’estetica umana e urbana, nella sua quotidianità e banalità, e ci riconsegna il dono di apprezzare la complessità del semplice.
Bernardo Follini
La Scultura Iperrealista, o il beneficio del dubbio
È del poeta il fin la meraviglia
(parlo de l’eccellente, non del goffo):
chi non sa stupir, vada alla striglia.
Giovan Battista Marino
Intorno al 1860 l’invenzione e lo sviluppo della fotografia istantanea produsse non pochi dibattiti all’interno della società moderna, soprattutto nell’ambito delle arti. Artisti e critici, infatti, vedevano il loro lavoro e la loro perizia tecnica minata dal nuovo apparecchio.
Nel 1859 quando la fotografia venne invitata al Salon di Parigi accanto alla pittura, scultura e incisione, Baudelaire tuonava: “…in questi giorni disgraziati è nata una nuova industria la quale ha contribuito non poco a confermare la stupidità del pubblico e a rovinare quanto ci poteva essere ancora di divino nello spirito francese…la fotografia…La società più immonda si è precipitata a contemplare sul metallo la sua immagine volgare!…”.
La storia che ha seguito questa svolta la conosciamo. Pittura e fotografia hanno finora convissuto, la prima ha concesso alla seconda l’indagine del reale (salvo per gli esperimenti delle avanguardie e le esperienze più recenti), e si è incamminata verso un abbandono della mimesis, che poi ha prodotto i più disparati effetti sull’estetica. Ma, se la pittura e le arti sono nate come immagine e pedissequa raffigurazione della natura, del vero e del reale, dal quale si sono poi allontanate anche grazie alla nascita della fotografia, vi è stato un momento storico all’interno del quale esse sono tornate al loro punto di partenza.
Questo coincide con la nascita di un movimento sorto verso la fine degli anni ’60, noto come “fotorealismo”. I pittori americani di questa corrente, tra i quali spiccano Chuck Close, Ralph Goings e Richard Estes, avendo assimilato l’estetica della Pop art, riportavano minuziosamente sulla tela una realtà che, se non identica, era estremamente simile a quella della fotografia.
Nel 1973 il gallerista Isy Brachot coniò il termine Hyperréalisme come titolo di una mostra che presentava molti fotorealisti.
Il termine iperrealismo così, iniziò a designare la generazione di artisti che si era ispirata e che era partita dal fotorealismo. L’esposizione delle opere di questa corrente nelle gallerie e nei musei generava la meraviglia e lo stupore degli spettatori che immediatamente si ponevano la domanda spontanea: “È un quadro o una fotografia?”.
Parallelamente all’attività di questi artisti si situa anche quella di scultori, che simulavano e tuttora simulano nelle loro opere l’essere umano, fatto e finito, all’interno della quotidianità e ripetitività dei suoi gesti. In questo caso, la domanda che sorgeva ancor più spontanea nei poveri spettatori in visita ai musei era: “È una scultura o è un essere umano?”.
Soprattutto nella scultura iperrealista, quest’illusione della realtà ha subito un processo di perfezionamento che partendo dagli anni ‘60 giunge fino a noi. Apripista di questa via è sicuramente Duane Hanson, lo scultore statunitense che, partendo dall’idea dei calchi scultorei in gesso monocromo di George Segal, crea con vari materiali (resina di polyestere, fibra di vetro, etc.) figure umane in grado di essere scambiate per reali dal pubblico. Posizionandole sedute su panche di musei o in piedi davanti ad un quadro, le opere di Hanson mettono in difficoltà lo spettatore che per qualche secondo non si accorge della finzione, generando in lui il dubbio e la meraviglia.
Sulla stessa linea rientra anche John De Andrea, che partendo dagli stimoli dell’arte fetish ed erotica di Allen Jones, realizza nudi femminili, per provocare nello spettatore un’ambigua eccitazione verso il feticcio che deve necessariamente essere repressa.
Queste opere d’arte, sebbene possano essere sbrigativamente lette come prodotti reazionari, come nostalgici ritorni ad una concezione pre-avanguardista, in realtà procedono in perfetta coerenza con la società postmoderna, come possiamo notare paragonando la nostra situazione a quella descritta da Jean Baudrillard, lucido teorico e aspro critico di quella società: “La simulazione non è più la simulazione di un territorio, o di un’entità referenziale, o di una sostanza. È qualcosa che attraverso modelli, genera un reale che non ha né origini né realtà: un’iperrealtà”.
Con il perfezionamento delle tecniche e l’affinamento dei materiali, la scultura iperrealista si è evoluta, diventando incredibilmente perfetta, un preciso calco dell’essere umano, e, in alcuni casi, superando se stessa.
È il caso dell’australiano Ron Mueck, al quale la Fondation Cartier di Parigi ha dedicato una mostra due anni fa. Mueck amplifica il sentimento di soggezione e insicurezza dello spettatore ampliando o restringendo le proporzioni dei soggetti e in questo senso allontanandosi dalla realtà. Lo spettatore davanti a due anziani di tre metri, brutalmente veri, che prendono il sole in spiaggia sotto un ombrellone fa una sola cosa: dubita. Mette in discussione quello che ha sempre ritenuto certo, e per un istante gli sembra cedere a quest’illusione. Le opere dell’artista australiano per di più sono profondamente intrise di poesia, basti pensare al suo uomo nudo in barca, traghettato verso l’ignoto, che delicatamente piega il collo per scorgere qualche misero barlume del suo futuro inconoscibile.
La scultura iperrealista è sempre più in grado di porci davanti a domande, ma soprattutto di offrirci per qualche istante la possibilità di dubitare delle conoscenze da noi acquisite e mai messe in discussione, dono quanto mai prezioso. Davanti a tali opere scopriamo quanto sia labile il confine tra vero e falso, tra originale e copia, e potremmo anche iniziare a guardare il mondo e i suoi prodotti con un altro occhio, più critico e scettico, tenendo ben presente quello che diceva Debord: “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”.
Bernardo Follini

Il Derby dei poveri
Eccoci al terzo appuntamento con la rubrica “miti dello sport”. Questa settimana non parleremo proprio di miti, ma sfruttiamo la partita tra Inter e Milan di questa sera per parlare del penoso stato e fascino che la stracittadina milanese ha raggiunto. Questa sera a Milano andrà in scena il 214esimo derby ufficiale. Nonostante la stagione delle due squadre meneghine non abbia più molto da dire, il derby rappresenta sempre un palcoscenico interessante per entrambe le formazioni, ma l’atmosfera non sarà certo quella dei grandi derby del passato, dove una vittoria voleva dire scudetto, o passaggio in finale di Champions League. Questa sera una vittoria non conta (quasi) nulla a livello di classifica, ma conta per l’onore.
L’Inter arriva al derby dopo una stagione altalenante, un cambio di allenatore e un mercato di Gennaio che ha portato nuovi nomi e ha cambiato l’entusiasmo, ma che non ha portato in termini di risultato quel cambiamento che era stato auspicato.
Il Milan invece, che si trova 1 punto sopra l’Inter, ha vissuto per ora una stagione al di sotto delle aspettative, tanto che Filippo Inzaghi, l’allenatore, più volte è stato messo in discussione.
Lontano dai fasti degli anni ’60, 90’ e della decade 2000-2010, dove furono giocati grandi derby, è già da un paio di stagioni che le due formazioni arrivano alla stracittadina povere di risultati e, cosa grave, di obbiettivi. Senza nominare la parola scudetto, che non si vede a Milano dal 2011 (vinto dal Milan di Allegri, Ibra e Thiago Silva) e che non viene combattuto dal 2012 (ve lo ricordate il “gol-no gol di Muntari”? ), le due formazioni di Milano addirittura si sono allontanate dalla massima competizione europea, la Champions League, e, questa la cosa più triste, non si trovano in corsa per un posto oramai da circa metà stagione. L’ambiente dunque manca di entusiasmo non solo da parte del Milan ma anche dalla parte dell’Inter. Non è un caso che a Milano in questi anni sia tornato di moda il basket, con Olimpia Milano che invece è riuscita a vincere lo scudetto l’anno scorso, essere strafavorita quest’anno e fare un grande cammino europeo. Il forum di Assago, casa dell’Olimpia, molte volte ha raggiunto il tutto esaurito e di media, in Eurolega, la capienza coperta del palazzetto è stata superiore al 70% (8400 di media). I numeri sono inferiori perché comunque il movimento cestistico ha molta meno risonanza e seguito del movimento calcistico (ad esempio: il forum tiene 12000 spettatori, San Siro 80000), però a Milano in questi anni, se si vogliono vedere successi, belle partite, palcoscenici importanti e vittorie bisogna andare ad Assago, e non allo stadio Giuseppe Meazza.
Pensare che 10 anni fa, Inter e Milan in questo periodo si scontravano nei quarti di finale di Champions League, e il Milan poi sarebbe stato eliminato solo in finale a Istanbul, sembra una cosa assurda. Non c’è solo una differenza di palcoscenico, ma anche di tasso tecnico delle rispettive squadre. L’ultimo derby giocato, il 23 Novembre 2014, pareggiato 1 a 1, è stato forse il più brutto derby della storia recente dei derby, non tanto perché la partita giocata è stata tremenda, ma perché le squadre in campo hanno mostrato un tasso tecnico imbarazzante: azioni piene di errori, poche emozioni e poco gioco. Speriamo che la partita di questa sera ci possa regalare almeno delle emozioni, del risultato, penso, poco interessi a entrambe, perché la stagione è già compromessa.
Concludo, citando, Massimo Sconcerti che, in un editoriale sul Corriere, affermava di come una Milano calcistica povera non solo nuoce alla salute della città, ma addirittura alla salute del campionato italiano in generale. Oramai surclassato da molto tempo dal campionato tedesco, in molti in Europa equiparano il nostro campionato a quello francese o portoghese o, addirittura, turco. Solo la Juventus, oramai riesce a competere ad alti livelli. Un tempo, nel calcisticamente lontano 2003, 3 (Inter, Milan e Juve) delle 4 semifinaliste di Champions erano squadre italiane, e le formazioni italiane erano capaci di trattenere giocatori importanti, senza dover vendere all’arrivo della prima maxi offerta milionaria. Le ultime due squadre ad aver vinto quella competizione sono proprio Inter (2010) e Milan (2007), da quando queste non sono più competitive i risultati e il ranking piangono. Una Milano piccola e povera è un’Italia perdente e trascurata. Mi duole però dire, che stando cosi le situazioni societarie delle rispettive squadre, ancora per alcuni anni non vedremo una Milano importante a livello calcistico. Senza stare a pensare ai palcoscenici europei, anche in Italia le cose vanno male. Peccato. L’anno prossimo poi, il 28 maggio 2016, la finale di Champions si disputerà proprio a Milano, peccato che né Inter né Milan prenderanno parte alla competizione. Tanto oramai ci siamo abituati a fare da spettatori.
Sebastiano Totta

Giselle, un classico sempre valido
Tra i balletti classici, Giselle sicuramente si posiziona tra i miei preferiti. Andato in scena per la prima volta nel 1841 a Parigi, il balletto è fin da subito entrato nell’immaginario collettivo come un capolavoro indiscusso dell’arte della danza. Le musiche sono di Adolph-Charles Adam, famosissimo compositore di musica per balletto francese. La coreografia invece è, ufficialmente di Jean Coralli, che si è occupato dei passi comuni, mentre invece, i passi di Giselle sono stati ideati dal Jules Perrot, amante della ballerina che per prima interpretò questo balletto Carlotta Grisi. Il libretto invece è di Theophile Gautier, romanziere francese, che trasse ispirazione per quest’opera dal libro di Heinrich Heine “De l’Allemagne”. Nel balletto vengono fuori cosi tanti aspetti legati al romanticismo da farne la bandiera del balletto classico romantico del 1800. In primis la sinossi. Molto brevemente: Giselle è una contadinella che si innamora di uno sconosciuto. Quando Giselle viene a sapere che il suo amato è in realtà un principe (principe Albrecht) già promesso sposo ad una principessa muore. Nel secondo atto Giselle, divenuta una willi, spiriti simili agli elfi, concede la grazia al suo principe salvandolo dalla punizione divina di dover ballare fino allo sfinimento, ballando con lui e aiutandolo. In secondi le musiche. Leggere ma allo stesso tempo profonde, come il tema centrale di Giselle. Non mancano momenti drammatici, ma la musicalità di base è quella di un’opera che seppur infelice, in termini di trama, lascia spazio alla bellezza e alla forza dell’amore.
Alla Scala va in scena proprio in questi giorni Giselle. La produzione è tradizionale, paesaggio fiabesco nel primo atto e cimitero paludoso nel secondo. Trattandosi dunque del balletto classico per eccellenza, sia per sinossi che per musiche che per coreografia, non vi è spazio per adattamenti moderni e costumi stravaganti. A differenza infatti di molti balletti, Giselle negli anni non è mai stata ritoccata e la originalità dell’opera rimane intaccata. La scena è pulita, le luci fiabesche e la direzione musicale del francese Patrick Fournillier giusta. Essendo dunque un’opera classica ben nota al mondo del balletto, Giselle è il palcoscenico ideale per la consacrazione di un ballerino. Dopo infatti le prime 5 rappresentazioni dove ad interpretare Giselle e il Principe Albrecht sono stati gli etoile Zakharova e Bolle, la coppia sublime del balletto dei nostri giorni, nelle altre rappresentazioni si sono alternati vari artisti di fama internazionale: Maria Eichwald, Natalia Osipova e Sergei Polunin, oltre che a Antonino Sutera, Lusmay Di Stefano e Claudio Coviello. Io ho avuto il piacere di vedere la coppia Eichwald-Coviello che proprio mi è piaciuta. Voglio però sottolineare anche la prestazione di Alessandra Vassallo nel ruolo di regina delle Willi: magnifica. Piacevole sia da vedere che da sentire, Giselle potrebbe essere una prima esperienza per chi al mondo del teatro e del balletto non è abituale. Per una breve parte della vostra giornata infatti, rimarreste incantati dalle musiche e dai passi del balletto che ha fatto la storia di quest’arte.
Sebastiano Totta
La seconda vita del Teatro Continuo di Burri
Siamo nel lontano, ma non troppo, 1973. A Milano, in occasione della XV Triennale, Alberto Burri, artista già da tempo noto a livello internazionale, progetta e costruisce il suo Teatro Continuo che alla fine della celebrazione viene donato ai cittadini del capoluogo lombardo.
L’opera è costituita da 6 quinte d’acciaio rotanti, su basamento di cemento lungo 17 m e largo 10 m, posizionata in quel polmone verde al centro della città che è il Parco Sempione, tra il Castello Sforzesco e l’Arco della Pace. L’intervento di Burri va letto anche all’interno di un processo di sensibilizzazione e di fruibilità estetica del parco – all’interno del quale si situano anche i Bagni Misteriosi di De Chirico e la Seduta di Arman – per i cittadini.
Alberto Burri, nato nel 1915 a Città del Castello in Umbria, racchiuse in questo progetto, fondendoli, due attitudini e interessi che aveva sviluppato fino a quel momento e che poi avrebbe esponenzialmente approfondito: la curiosità verso il teatro e l’installazione ambientale, che in alcuni casi sfocerà in Land Art.
Burri, ufficiale medico, durante la seconda guerra mondiale, iniziò a dipingere proprio durante il periodo di reclusionein un campo di prigionia del Texas, dopo essere stato catturato dagli americani. Nel 1947 espose nella sua prima personale a Roma e del 1952 è il Grande Sacco che presentò alla sua prima Biennale di Venezia. Artista indipendente che la critica tentò più volte di etichettare senza troppi risultati (informale, concettuale, arte povera), ospitò nel 1952 Rauschenberg nel suo studio di Roma, e ottenne il riconoscimento internazionale l’anno seguente con due mostre a Chicago e New York.
Celebri sono i suoi sacchi integrati all’interno della tela o la serie delle Combustioni che inizierà nel 1957, bruciando con una fiamma materiali differenti, dal legno alla plastica, e dimostrando quanto fosse centrale all’interno della sua poetica il tema della consunzione e del logoramento della materia, letta come metafora esistenziale. Questo indirizzo sarà confermato, poi, anche negli anni seguenti, quando inizierà i Cretti, superfici sulle quali si dipanano infinite crepature, utilizzando un impasto di caolino e colle viniliche, che ricordano terreni argillosi con crepe dovute alla siccità. Il più celebre Cretto è sicuramente quello di Gibellina, in Sicilia, realizzato tra il 1984 e il 1989. Nel 1968 la città venne drammaticamente sconvolta da un terremoto che la distrusse completamente e che provocò morte e devastazione. Il sindaco di Gibellina si prodigò perché la ricostruzione comprendesse interventi artistici che aiutassero a rendere degna memoria della strage. Tra gli altri artisti attivi in questo progetto, infatti, oltre a Burri, figuravano anche Mario Schifano, Arnaldo Pomodoro e Mimmo Paladino. Burri progettò il Cretto di Gibellina, di un’estensione di 12 ettari. Dopo aver fatto ricompattare le macerie degli edifici, fece colare su di essi cemento fresco congelando in questo modo la memoria di quella catastrofe. La superficie ha delle scanalature che la rendono una sorta di labirinto svelato, formando un cammino spaesante nel ricordo e nella privata riflessione. Per certi versi può essere visto come il padre del Memoriale della Shoah di Berlino, progettato da Peter Eisenman e inaugurato nel 2005.
Parallelamente a questa attività, Burri iniziò collaborazioni con teatri italiani, occupandosi nel 1963 delle scene e dei costumi del balletto “Spirituals” per orchestra con la coreografia di Mario Pistoni, al Teatro alla Scala di Milano. Nel 1972 lavorerà per il Teatro dell’Opera di Roma e nel 1975 per il Teatro Regio di Torino.
In linea di continuità con il suo percorso, Burri, nel 1973, come già ricordato, installerà il Teatro Continuo. La struttura, nata “per la libera espressione teatrale”, andava a formare una sorta di corrispettivo dello Speakers Corner di Hyde Park, simbolo londinese della libertà d’opinione, in chiave però più dichiaratamente estetica e contemplativa. Tuttavia, nel 1989 la giunta milanese stabilì di smantellare il Teatro Continuo a causa della condizione di degrado che aveva raggiunto, destando comprensibilmente l’ira funesta di Burri, il quale decretò che mai più avrebbe esposto a Milano.
Nel 2014 la giunta di Milano ha stabilito di ricostruire il monumento di Burri, seguendo i disegni dell’artista, garantendo con tale azione sia il ritorno del Teatro Continuo all’interno del patrimonio dei cittadini, come luogo di scambio culturale, sia un omaggio ad Alberto Burri, morto nel 1995, per il quale quest’anno ricorre il centenario della nascita. L’annuncio ha tuttavia destato immediatamente lo sdegno di parte dei milanesi, che si dicono profondamente indignati per quella che è stata definita una “colata di cemento sul Sempione” e “il Teatro della Discordia”. Tra i dissidenti figura peraltro anche il noto Stefano Boeri.
Nonostante tutto ciò, i lavori sono iniziati e dovrebbero terminare, come molti altri, per maggio, allo scoccare dell’ora EXPO. Nonostante non voglia necessariamente immettermi nell’accesa e violenta dialettica sorta negli ultimi mesi sul caso, penso che la struttura abbia un potenziale incredibile per noi milanesi.
Oltre al valore storico e culturale che il Teatro Continuo porta con sé, esso potrebbe ritornare ad essere il piedistallo di una cultura relazionale, accessibile a tutti in modo sia attivo che passivo, riconfermando la profondità e la forza di quell’estetica relazionale di cui parla Nicolas Bourriaud e la sua importanza come stimolo emomento di aggregazione sociale. Il futuro del Teatro Continuo di Burri è ignoto, ad esso è stata fornita una seconda vita e possibilità, ora sta a noi decidere se sfruttarla o meno.
Bernardo Follini

Preparatevi, la quinta stagione di Games Of Thrones sta arrivando!
Era il lontano 17 Aprile 2011 quando per la prima volta negli USA la rete televisiva HBO trasmise la serie tv Games Of Thrones, ispirata ai romanzi “Le cronache del ghiaccio e del fuoco” di George R.R Martin; e fu allora che divenne un fenomeno virale. Non solo spopolano i meme su internet, tra i quali ricordiamo quello liberamente tratto dal motto di Casa Stark: “Brace yourself, finals are coming”, immagine del mio gruppo universitario su WhatsApp; ma addirittura sono apparsi all’anagrafe nuovi nomi ispirati ai personaggi del fantasy, immaginatevi l’appello in una scuola piena di Khaleesi, Arya e Tyrion!
E finalmente stasera alle 22.10 su SKY Atlantic verrà mandata in onda la prima puntata della attesissima quinta stagione, anche se già da ieri sera online giravano- per i più impazienti- le prime quattro puntate in inglese. La quarta stagione ci ha regalato grandi emozioni come la battaglia tra la Vipera Rossa, Oberyn, e la Montagna, che ritengo essere una delle scene più sorprendenti e concitate (insieme alle Nozze Rosse nella terza stagione) non solo della serie televisiva ma anche dei libri. Inoltre è stato allora che ho capito che non dovevo affezionarmi troppo a nessun personaggio (meglio tardi che mai), perché più mi piacciono più sono destinati ad una morte orribile.
L’ultima puntata della stagione ci ha lasciato con diversi interrogativi: cosa succederà adesso che Stannis è arrivato alla barriera? Daenerys riuscirà a gestire la forza e la pericolosità dei suoi draghi? La Montagna vivrà (speriamo anche di no)? Dove è fuggito Tyrion? Ma sopratutto, quando capiremo qualcosa di più su chi sono questi estranei?
Per chi ha letto i libri è stato difficile non dare le risposte a queste domande, tenersi per sé tutto e non macchiarsi del delitto di spoiler. Anche se i registi hanno dichiarato che la serie tenderà a scostarsi sempre di più dai libri e come se non bastasse lo stesso George R.R. Martin ha detto: << Moriranno alcuni personaggi che nei libri sono ancora vivi; David e Daniel, Benioff e Weiss, i responsabili della serie, stanno diventando più cruenti di me >>. Nessuno è al sicuro.
L’imprevedibilità della trama rimane comunque uno dei fattori che hanno maggiormente contribuito al successo della serie ed è anche su questo principio che è nato il Fanta-Games of Thrones: scegli la tua squadra di personaggi e acquisisci punti in base alle loro azioni in ogni episodio, un misto tra Fantacalcio e Risiko. Per la prima volta potreste essere contenti di conoscere qualcuno portatore sano di spoiler che abbia letto i libri.
E adesso preparatevi che la quinta stagione sta arrivando!
Valentina Villa
Miti dello Sport #2: Johan e Franz, gli anni ’70
Con oggi, cari lettori, voglio scostarmi momentaneamente dal cinema di cui abitualmente scrivo per raccontarvi altre vicende a me care e di cui son sempre stato appassionato.
Son stato cresciuto da mio padre nel mito di O Rey e Maradona, più che, come la maggior parte dei miei coetanei, nel mito del grande Ronaldo.
Il calcio di oggi è ovviamente diverso: si segnano più goal, si gioca un calcio più veloce e spettacolare, ma certe personalità che il passato ha visto non le si trovano più.
In ogni era calcistica c’è stato un campione che è riuscito adessere simbolo dei suoi anni; se pensiamo agli anni’ 50, pensiamo a Puskas, se pensiamo anni ’60 a Pelè (e a metà tra gli anni’50 e ’60, a Di Stefano), se pensiamo agli anni ’80 a Maradona, in mezzo (ma sopra) a Platini, Zico, Van Basten, e così via.
Tuttavia ci son stati momenti, come quello che stiamo vivendo in questi anni, in cui non vi è un personaggio che si eleva così decisamente sugli altri, ma si creano rivalità tra personalità diverse, spesso anzi contrapposte.
Tra queste, una delle più accese, è senza dubbio stata quella tra il “Kaiser” Franz Beckenbauer, capitano del Bayern Monaco e della nazionale di calcio della Germania dell’Ovest, e Johan Cruijff – “Pelè Bianco”, “Olandese Volante” o, come in un documentario di Sandro Ciotti, “Il Profeta del Gol” – capitano dei Lancieri di Amsterdam e degli Orange del calcio totale.
Questo scontro vede il suo culmine nel 1974, quando i due campioni si scontrano nella finale dei mondiali di calcio, a Monaco, in casa dei tedeschi, nell’Olympiastadion, costruito due anni prima per le tristemente famose Olimpiadi dell’attentato terroristico contro gli atleti israeliani.
Franz Beckenbauer è stato, assieme a davvero pochi nella storia, uno dei casi rari di difensori a vincere il pallone d’oro, nel 1972 e nel 1976; la sua carriera calcistica è una delle più vincenti ed avvincenti nella storia: ha già disputato la finale del ’66, persa contro l’Inghilterra, ed è stato uno dei protagonisti della la semifinale del mondiale di Messico ’70 – la “Partita del Secolo” – contro l’Italia (dove lo ricordiamo, eroico, con un braccio fasciato per via di una lussazione alla spalla procuratasi in uno scontro con Cera).
La sfortuna sembra sin lì aver perseguitato i poveri tedeschi, che però hanno appena vinto, quasi con la stessa formazione del mondiale messicano, il campionato d’Europa del 1972 e, come campioni continentali, affrontano il mondiale in casa.
Beckenbauer, ha vinto anche, oltre agli svariati campionati tedeschi, anche 3 coppe dei campioni di fila, dal ’74 al ’76, ed è stato l’allenatore della Germania vincitrice del Mondiale in Italia nel ’90.
Chapeau insomma!
Possiamo tranquillamente dire che Franz non abbia alcun rimpianto.
Cruijff invece è ritenuto, dopo Pelè e Maradona, uno dei più grandi talenti mai visti nella storia del calcio, forse il più grande, sicuramente uno dei più temuti.
Figlio di una inserviente della lavanderia dell’Ajax, il giovane Johan si fa notare dal grande calcio internazionale per la prima volta nel ’69, arrivando con i Lancieri in finale contro il Milan di Rocco, che vincerà 4 a 1 e vedrà il proprio regista, il grande Gianni Rivera, vincere il pallone d’oro.
L’Ajax probabilmente era ancora troppo giovane; non passerà però molto tempo prima che si affermi come forza europea incontrastata, vincendo dal ’71 al’73 tre Coppe dei Campioni di fila, una contro il Panathenaicos, allenati dal mitico Ferenc Puskas, una contro l’Inter, e l’ultima contro la Juventus (povere italiane!).
Dopo tutti questi trofei, proprio nel 1974 il campione Olandese si trasferisce a Barcellona, e la sua uscita dalla squadra si nota: persa la sua chiave di volta, l’Ajax non riesce più a ripetere i grandi successi, passando il testimone proprio al Bayern di Beckenbauer.
I due campioni non si sono quasi mai incontrati.
È forse un caso che ciò avvenga proprio nella finale dei mondiali di quell’anno?
Io non penso … La storia – anche quella calcistica – ha disegni che a noi sembrano imperscrutabili, ma che rispondono invece a logiche ineluttabili.
La nazionale Olandese è alla prima apparizione al campionato mondiale e si presenta come diretta contendente al titolo, con, in panchina, Rinus Michels.
Ha condotto l’Ajax alla vittoria nella Coppa dei Campioni nel ’71 e poi condurrà gli olandesi a conquistare l’Europeo, con Van Basten al centro dell’attacco, nell’88.
Michels è ritenuto l’allenatore del secolo, uno dei più grandi promotori del cosiddetto calcio totale.
È un innovatore, un visionario, insomma, un rivoluzionario.
L’Olanda, in Germania, insomma non solo porta un calcio nuovo e spettacolare, dove la squadra si muove a zona e non si marca a uomo, dove si corre di più e si attacca e si difende tutti insieme (un calcio molto simile a quello odierno), ma scardina anche molte delle tradizioni nazionali, ad esempio quella dei numeri di maglia.
Cruijff, che infatti non indossa, come tutti i grandi campioni del suo ruolo, il mitico 10, ma ha il 14 (che da lì in poi diventa anche un simbolo), è l’interprete perfetto di tale concezione di calcio: un Di Stefano 15 anni dopo, che corre, ancora più veloce, spaziando su tutto il fronte centrale e d’attacco!
Ma l’Olanda è una novellina al mondiale, dove, come si sa, contano moltissimo tradizione ed esperienza … e l’Olanda non ne ha.
La Germania invece, allenata da Helmut Schön, è costruita sul blocco del Bayern Monaco, che ha appena vinto la Coppa dei Campioni, contro l’Atletico Madrid, succedendo proprio alla squadra di Cruijff: ha già sulla maglia una stella, vinta nel ’54 contro i grandi magiari di Puskas, e ha ormai moltissima esperienza internazionale, visti anche i risultati raggiunti negli ultimi due mondiali (finale e semifinale).
Non è dunque un semplice scontro tra i due più grandi campioni degli anni’70 (dal ’71 al ‘76 i due si spartirono 5 palloni d’oro, quando ancora l’assegnazione avveniva sulla base del merito, 3 all’olandese e, come già detto, 2 al tedesco), ma è un confronto ideologico tra due filosofie calcistiche; quella del calcio totale, che era ritenuto quasi infallibile e che sino alla semifinale aveva incantato tutti e messo tutti in difficoltà (compreso il Brasile, campione del Mondo in carica, pressoché umiliato in semifinale, assai più di quanto il 2 a 0 finale a favore degli Olandesi non dica) e quella di un calcio più tradizionale, che invece si rivelò vincente.
La finale inizia “col botto”.
Dopo appena un minuto di gioco Cruijff, che ha scartato praticamente mezza formazione tedesca, viene atterrato in area di rigore.
È il gol più veloce del mondiale: il rigore è tirato da Neeskens e, dopo appena due minuti, l’Olanda è già avanti.
Forse questo gol è arrivato troppo presto; gli Olandesi, nella sicurezza di poter controllare la partita, perdono il propulsore dei motori e, alla fine, perdono 2 a 1.
Mai sottovalutare la Germania!
Sia nel ’54 che nel ’74, le squadre più forti, che hanno entrambe caratterizzato le loro epoche e portato innovazioni fondamentali (l’Ungheria di Puskas introdusse, ricordiamolo, il centravanti di manovra), hanno perso in finale, entrambe contro la Germania … ed anche questo non penso sia un caso.
Lineker, il centravanti dell’Inghilterra della seconda metà degli anni ’80, nel ’90, disse: “cos’è il calcio? 22 uomini corrono dietro ad un pallone e poi … vince la Germania”.
Penso che questo sia stato il pensiero di Cruijff dopo la finale, vedendo il suo sogno, quello della Coppa del Mondo, svanire.
Nonostante la vittoria della Coppa dei Campioni e del Mondiale, Beckenbauer non si aggiudicò quell’anno il pallone d’oro, che fu dato ancora Cruijff, soprattutto per essere stato l’uomo del mondiale (i canoni di assegnazione del premio, ahimè, sono totalmente cambiai).
Entrambi hanno continuato brillantemente la loro carriera da allenatori e tutt’ora sono presidenti onorari uno del Bayern, l’altro di Ajax e Barcellona.
La loro influenza sul calcio mondiale non si esaurirà mai e rimarranno sempre due icone immortali, non solo per le loro doti tecniche, ma anche per la loro capacità di trascinare le proprie squadre, qualità che non deve mai mancare in un vero Campione.
Li ricorderemo sempre: Franz col braccio fasciato che cerca di arginare “Rombo di Tuono” all’Azteca il 17 giugno 1970; Johan col braccio alzato ad indicare dove arriverà il pallone che sta per lanciare!
Tommaso Frangini
La lunga settimana della Giustizia italiana
La scorsa settimana è stata densa di eventi per la Giustizia italiana: sembra che il peggior vizio del 2015 sia di metterci di fronte agli avvenimenti più significativi e traumatici subito dopo le feste. Una bella vigliaccata, considerando che siamo ancora in poltrona con la pancia piena quando, bum!, accade qualcosa che ci costringe a distogliere preziose energie dalla faticosa digestione dei pranzi di famiglia per concentrarci invece su catastrofi nazionali ed internazionali. Grossomodo, è quello che è successo con la vicenda Charlie Hebdo, che ci ha fatto andare di traverso sia il panettone natalizio sia il pandoro di Capodanno. Altra festa comandata, altro dolce, stesso brusco risveglio; dopo la Pasqua ed il suo strascico di colombe, ovetti e pastiere, ecco che un’attesissima sentenza Corte europea dei diritti dell’uomo ci ricorda che Cristo, risorto da appena due giorni, si è fermato molto prima di Eboli. Grossomodo, a Strasburgo; precisamente davanti ad Allée des Droits de l’Homme.
Questo è un sentiero che l’Italia non ha mai imboccato, come testimonia la lacunosa legislazione nostrana: le leggi del Paese che fu la culla del diritto non prevedono il reato di tortura. Di questo baratro giuridico hanno approfittato individui come De Gennaro, oggi presidente di Finmeccanica. Cosa c’entra un poliziotto violento con il gruppo industriale italiano leader nelle alte tecnologie? Mistero. Si sa solo che Renzi lo difende a spada tratta e sembra non accorgersi di aver messo Rambo alla Nasa. Il Nixon di Futurama non avrebbe saputo fare di meglio. Le istituzioni europee però non sembrano aver voglia di scherzare: la causa intentata contro l’Italia da Arnaldo Cestaro, pensionato 62enne coinvolto nei fatti di Genova del 2001, ha prodotto un risarcimento di 45.000 euro a favore del ricorrente e una netta presa di posizione della Corte sulle violenze della polizia durante il G8. Non solo è stata rilevata l’assenza di un nesso di causalità tra la condotta di Cestaro e l‘uso della forza da parte degli agenti al momento dell’intervento, ma si è evidenziato il dovere dei nostri legislatori di mettere in atto un quadro giuridico appropriato, anche attraverso disposizioni penali efficaci. Questo significa che le istituzioni non sono colpevoli solo per ciò che è successo nella scuola Diaz nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, ma anche prima e dopo quella data per l’indifferenza omertosa con cui la vicenda è stata trattata nel complesso.
“Si ritiene necessario che l’ordinamento giuridico italiano si fornisca degli strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti trattamento ai sensi dell’articolo 3 e impedendo loro di beneficiare di misure in contraddizione con la giurisprudenza della Corte”, si legge nella sentenza.
Nei confronti dei suoi cittadini, l’Italia è colpevole da 14 anni. Che sia ora di rescindere il contratto sociale?
Il fatto è che noi Italiani ormai abbiamo paura della polizia, una tendenza nata proprio nel 2001 e rafforzata da numerosi fatti di cronaca, tra cui non si possono passare sotto silenzio i casi Cucchi e Aldrovandi. Un famoso film di Stefano Sollima, A.C.A.B., ci dà un immagine realistica non tanto di quello che è la polizia ma piuttosto di come viene percepita dalla maggioranza di noi, me compreso. La polizia è pericolosa. Lo so benissimo che la maggior parte degli agenti sono funzionari coscienziosi, ligi al dovere e all’uniforme che vestono; ciò tuttavia non mi impedisce di lanciare uno sguardo preoccupato alla fondina quando passo vicino ad uno di loro. Il che è paradossale. Un poliziotto è un “uomo della polis”; in un certo senso, filologico se non civico, siamo tutti poliziotti. Ma gli agenti di P.S. sono armati; basta questo per attribuir loro un responsabilità infinitamente maggiore rispetto ad un civile. L’eccesso nell’uso della forza pubblica non può mai essere considerato un errore di valutazione o un difetto nella conduzione di un’operazione di polizia; si tratta invece di una violazione gravissima della fiducia che ognuno di noi ha il diritto/dovere di riporre nelle istituzioni.
E’ uno scorcio di barbarie. Questo punto avrebbe dovuto essere chiaro ben da prima che iniziasse l’attuale millennio. Due secoli prima della sentenza “Cestaro c.Italia”, sempre dalla Francia arriva una lezione importante: è il 1804 quando viene promulgato il Codice civile, o Codice napoleonico, che all’articolo 6 recita:
Le leggi che interessano l’ordine pubblico o il buon costume non possono essere derogate dalle convenzioni particolari.
Non ci sono scuse né giustificazioni, quindi; il funzionamento stesso dell’ingranaggio sociale dipende dal mantenimento e dalla tutela dello svolgimento della vita comunitaria, adeguatamente normata e soggetta a restrizioni di ordine giuridico. Sulla necessità di simili limitazioni dovrà concordare anche l’anarchico più convinto. Se non avessimo bisogno di leggi il mondo sarebbe l’Eden: condivideremmo la proprietà, Livio Paladin sarebbe stato un figlio dei fiori invece che un giurista barboso e geniale e noi tutti andremmo in giro nudi e felici coprendoci di foglie di fico. Purtroppo non è così. Come per ribadirlo, ecco che a pochi giorni di distanza da questi pensieri, dopo che finalmente mi ero faticosamente alzato dalla poltrona del sonnellino post-agnello pasquale, mi fulmina quest’altra notizia: strage al tribunale di Milano. C’è poco da dire in proposito. Umanamente, tre morti sono una tragedia indipendentemente dalla professione che svolgevano. Ma se un avvocato ed un giudice vengono uccisi in un’aula di giustizia nell’esercizio delle loro funzioni, la tragedia è collettiva.
Lo spazio del giudizio è da sempre un luogo particolarmente pregno di significato: nell’antica Grecia i tribunali erano posti nell’acropoli, la parte della città consacrata agli dei. Il tribunale di Atene deputato ai fatti di sangue, l’Areopago, venne inaugurato da una causa eccellentissima, nientemeno che il giudizio di Ares per l’uccisione di Alirrotio figlio di Poseidone; quegli spalti occupati per secoli da arconti e uomini bennati udirono S. Paolo pronunciare il Discorso all’Areopago (Atti degli Apostoli, 17, 22-31) con cui Dio fu annunciato agli ateniesi. In moltissime culture i tribunali furono luoghi mitici, in cui il divino si accostava all’umano e ispirava la sua giustizia; per secoli rimasero tali, come testimonia ancora oggi lo stesso edificio in cui venerdì si è consumata la strage. Sulla facciata sinistra del Palazzo di Giustizia di Milano si legge infatti:
Iurisprudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia iusti atque iniusti scientia. La Giurisprudenza è la scienza degli affari divini e umani, dei fatti giusti e ingiusti.
Il killer ha dichiarato “il tribunale è stata la mia fine, mi ha rovinato la vita”. Com’è possibile che un tempio sacro alla comunità si trasformi in un incubo, persino in un luogo di morte? Sul lato destro dell’edificio, un altro brocardo (massima giuridica di tradizione latina) ci ricorda invece che siamo chiamati alla giustizia fin da quando siamo nati. Sulla natura si fonda il diritto, non sull’opinione. Una sana costituzione morale porta alla giustizia? Forse – un po’ di ottimismo non può che farci bene. Ma dove la nostra morale non arriva, deve arrivare l’organizzazione della giustizia: il potere giudiziario, il sistema penale, le forze di pubblica sicurezza. Organismi al servizio dei cittadini, che ogni cittadino deve difendere. In cui, con un po’ di sforzo, bisogna tornare a credere.
Giulio Bellotto
venerdì tribunale

Una bella iniziativa del Corriere: L’Album Di Milano
Nonostante in passato fossimo stati critici nei confronti de Il Corriere Della Sera, la più grande testata giornalistica italiana, oggi voglio spendere qualche buona parola per una bella iniziativa che proprio il Corriere Della Sera e Banca Popolare Di Milano hanno cominciato.
Se infatti all’inizio del 2015 avevamo criticato il (fin troppo) disinvolto trattamento delle opere di numerosi vignettisti che dopo la strage del 7 gennaio si erano espressi sulla libertà di espressione, adesso rivolgiamo nuovamente la nostra attenzione al Corriere proprio per merito di un’operazione di recupero della memoria storica che parte dal fumetto.
Infatti ogni venerdì, a partire dall’ultimo venerdì di marzo, escono, allegate all’inserto della giornata, due pacchetti di figurine contenenti stickers da attaccarsi su un apposito album chiamato “l’Album di Milano”. Questa raccolta conterrà, una volta completato, ben 150 figurine raffiguranti 150 personaggi che hanno fatto la storia di questa città, dalla metà del 1800 ad oggi. Verdi, Manzoni, Turati, Aulenti, Montanelli e Toscanini per dirne alcuni. Un vero e proprio album dei calciatori in versione meneghina (c’è anche Giuseppe Meazza tra l’altro). Le figurine poi sono ideate e disegnate niente meno che da Giannelli, storico vignettista del Corriere.
Insomma si tratta di una iniziativa che ogni milanese, attaccato alla propria città, dovrebbe seguire appassionatamente. Infatti, nel raccogliere queste 150 figurine, si viene a conoscenza sia di dettagli e di particolari della città sia dei personaggi che hanno aiutato questa a diventare la capitale economica, finanziaria e non solo di questo paese.
Si tratta di un’iniziativa dal gusto antico, simile nel concept alle strisce di fumetto che si trovavano allegate ai giornali negli anni ’30; e proprio del Corriere ci ricordiamo la famosa Domenica del Corriere che con i suoi fumetti ha accompagnato l’infanzia di molti italiani. Non spesso accade di trovare certe raccolte; a differenza infatti dei soliti volumi che finiscono in libreria senza nemmeno essere visionati, questa raccolta quasi fa venir voglia di correre all’edicola il Venerdi mattino. Or dunque, anche per manifestare il nostro apprezzamento a questa iniziativa, abbiamo deciso di utilizzare una copertina de La Domenica Del Corriere per la nostra pagina Facebook.
Domani è Venerdi. Andate in edicola e date un’occhiata. Se amate questa città, apprezzerete molto.
Sebastiano Totta