Sapete in quale aspetto i Big Star possono davvero considerarsi imbattibili?
Come vi ho raccontato nel mio reportage su di loro, l’unicità di questa band è il culto che ben presto ne nacque.
E’ come se i Big Star rappresentassero un patrimonio personale di pochi, quasi come se #1 Record fosse il rifugio segreto di ciascuno di noi, il luogo dove andiamo a rifugiarci se ci sentiamo giù di morale o se dobbiamo riflettere o se dobbiamo esultare per una buona notizia.
Il merito di questo alone mitico che circonda questa band è in gran parte del loro album d’esordio, #1 Record che, oltre ad essere uno dei dieci, massimo quindici dischi pop/rock (lasciamo perdere la definizione di power pop per il momento) migliori degli anni ’70, è altresì uno dei lavori più incompresi, sottovalutati e decaduti di tutto il decennio. Rimasto sugli scaffali dei negozi di dischi di Memphis, invenduto, per oltre dieci anni e oscurato dall’avvento dell’hard rock, guadagnò la notorietà che avrebbe meritato (e comunque non abbastanza!) soltanto a partire da metà anni ’80 quando note band quali i REM, Teenage Fanclub e Weezer cominciarono a citare Chilton/Bell tra le loro massime influenze.
Com’è possibile che un album tanto meraviglioso quanto innovativo abbia girato per dieci anni soltanto su qualche misero centinaio di giradischi? Eppure la critica musicale lo accolse con entusiasmo! Billboard scrisse: “ogni canzone potrebbe essere un singolo”; Rolling Stone, invece, lo valutò “incredibilmente bello”; Record World annunciò: “ci troviamo in presenza di quello che, senza alcun dubbio, è l’album dell’anno”. Bud Scoppa, famoso critico musicale, fece un’ analisi interessante: “anche le melodie più dolci sono circondate da una particolare tensione e da una sottile energia, dovute al suono di chitarra tagliente, potente e pieno”. Anche Cashbox evidenziò difficoltà a esprimere ciò che sentiva: “Questo album segna una di quelle date memorabili dove assistiamo alla fusione di ogni elemento all’interno di un unico grande sound”.
Per me i Big Star sono una lettera spedita nel 1971 e arrivata nel 1983 – Robyn Hitchcock
#1 Record, dal punto di vista musicale, per quanto mi riguarda, è tra le massime espressioni d’ogni epoca di Power Pop, genere nato appunto a cavallo tra i 60’s e i 70’s la cui caratteristica principale è quella di fondere gli elementi “power” del più genuino rock & roll britannico e le melodie più “pop” dei Beatles o dei Byrds (rieccoli spuntare).
In particolar modo, all’interno di #1 Record, le influenze sono tanto precise quanto svariate: Led Zeppelin, The Byrds, The Who e The Beatles in primis. Il lato A di #1 Record è devastante!
Basta appoggiare la puntina sul disco per essere pervasi, dopo appena qualche secondo di “chitarristica tensione” introduttiva, da pura energia “Led Zeppeliana” che va dritta a colpire il petto di chiunque si trovi nel raggio d’azione delle onde sonore. Feel, la traccia d’apertura, è questo e altro: l’instabilità su cui poggia tale energia è resa evidente dal brusco passaggio al ritornello, fatto di armonie vocali soffici e leggere, che può essere paragonato, al primo ascolto, a un gancio destro in pieno volto.
Lo zampino di Bell nel brano si sente ovunque, sia dal punto di vista compositivo sia dal punto di vista dello scientifico arrangiamento avvenuto in studio di registrazione. Anche il testo è partorito dalla mente contorta di Bell e si incastra perfettamente con la struttura instabile del pezzo; si passa così dal primo cantato della strofa molto intenso, dove Bell sfoggia una prestazione canora degna dei migliori Steve Marriot e Robert Plant – “girlfriend what are you doing? You’re driving me to ruin” – al ritornello molto pop, dolce e struggente – “I feel like I’m dying, I’m never gonna live again, you just ain’t been trying, is getting very near the end”. Il pezzo termina con l’ultimo power chord sfumato e il respiro accelerato: non ci si può più stupire di niente.
Sbagliato: The Ballad Of El Godo non solo stupisce, sciocca! I dolci arpeggi di chitarra introduttivi riportano alla mente buona parte della discografia dei Byrds e il folk rock dell’immaginario americano di cui sopra. Entrambe composizione e cantato, questa volta, sono ad opera di Chilton, ma ciò non vieta a Bell di intervenire pesantemente in studio di registrazione, aggiungendo quelle armonie vocali che rendono il ritornello qualcosa di indescrivibile, commovente: “And there ain’t no one going to turn me ‘round”. Si passa a un’altra perla firmata Chilton (ma cantata da Bell stavolta), In The Street. Il brano si apre con un riff di chitarra potente al quale si aggiungono l’incalzante batteria di Stephens e la straordinaria linea di basso di Hummels. Il tipo di struttura è simile a quella di Feel ma tanto è meno complesso l’arrangiamento armonico, tanto sono più complessi gli intrecci di chitarra (sempre più in stile Byrds) a far da congiunzione tra ritornello e special.
Chiudono il lato A Thirteen, Don’t Lie To Me e The India Song. La prima, composta e cantata da Chilton, è forse la ballad principale di #1 Record eprende il titolo dall’età che il suo autore aveva nel giorno in cui egli vide dal vivo i Beatles per la prima volta, in un live a Memphis, appunto tredici; il testo, tuttavia, non fa cenno a questo evento e, anzi, decolla più verso cieli romantico-adolescenziali: “Would you let me walk you home from school?” oppure “maybe friday I can get tickets for the dance and take you”. La seconda invece è un puro ed energico rock & roll duettato da Chilton e Bell, dove la sezione ritmica fa da sovrana quasi tutto il tempo e la chitarra selvaggia di Bell riempie gli spazi vuoti con tanto grezzi quanto efficaci assoli.
La terza, The India Song, è la prima e unica traccia dell’album composta da Andy Hummel. Cantata da Chilton, è forse il brano meno omogeneo tra tutti, complici anche le tastiere di Terry Manning che conferiscono un’atmosfera a tratti quasi esoterica. Il lato B è sicuramente calante dal punto di vista musicale, ma non affatto da sottovalutare per ciò che concerne il campo emozionale: la malinconia della musica e dei testi creano un connubio ad alta emotività dove l’ascoltatore è libero di sentirci ciò che sente. La traccia d’apertura, When My Baby’s Beside Me, ad ogni modo, è comunque sulla linea dei pezzi precedenti, ossia un Power Pop ritmicamente incalzante ma melodicamente soave. In My Life Is Right e Give Me Another Chance, Chris Bell da il meglio di sé sugli arrangiamenti: chitarre acustiche arpeggiate che si intrecciano con la potenza della componente elettrica, armonie vocali complesse a condire i ritornelli e strutture sempre più instabili, con repentini passaggi da strofe più aggressive a ritornelli più morbidi e bridge strumentali (My Life Is Right).
Try Again è un gioiellino firmato sempre Bell che anticipa di qualche anno, a livello musicale, il suo album solista I Am The Cosmos, con un testo al sapore di rimpianto, composto da una frase in loop: “Lord I’ve been trying to be what I should, Lord I’ve been trying to do what I could, but each time it gets a little harder I feel the pain, but I’ll try again”.Watch The Sunrise è l’ultima vera canzone del disco, firmata Alex Chilton, con forti spunti folk e influenze americane – forse uno dei pezzi che scrisse pensando a un’eventuale carriera da duo Chilton & Bell? – con un arrangiamento semplice e azzeccato e le armonie vocali sempre impeccabili.
La traccia conclusiva del lavoro è, più che una canzone, un inno di speranza o di sogni infranti, lunga pochi secondi, ma comunque sufficienti a lasciare l’ascoltatore con l’amaro in bocca e con il tempo di deglutire l’ultimo sorso prima di alzarsi e sollevare la puntina dal disco. #1 Record è così, un album di appena 35 minuti durante i quali l’ascoltatore viene accompagnato da un’orgia di suoni, quasi religiosi, in un viaggio interiore lungo ore e ore. E’ come se al suo interno i Big Star avessero predetto il proprio fallimentare futuro commerciale, con annesse le sofferenze e le difficoltà che ciò comportò, e ne avessero descritto il percorso interiore per filo e per segno.
Un disco fantastico, eppure un fallimento clamoroso: questo fu #1 Record. Resta però da dire una cosa, un pensiero in grado di dare senso a questo bizzarro scherzo del mercato discografico.
Resta il significato che una band come i Big Star ha assunto nella storia della musica, un dato di fatto che vale più di qualunque disco venduto.
Love me again, be my friend, I need you now, I’ll show you somehow – da St 100/6
Edoardo Grimaldi