Il teatro in casa è sempre un’esperienza emozionante grazie al contesto intimo e raccolto di quattro mura private che trasformandosi in improvvisato palcoscenico accolgono per qualche ora attori, spettatori e tutto l’incanto del fenomeno teatro. Tuttavia, nell’accogliente cornice messa a disposizione dall’organizzazione delle Farolfiadi Teatrali, un’iniziativa di vero mecenatismo promossa dal critico Renzo Francabandera attorno a cui si riunisce un nutrito club di estimatori del buon teatro, si assiste spesso a spettacoli in grado di entusiasmare anche senza questo favorevole e benevolo ambiente.
E’ il caso di Anton, scherzo in un atto di Vanessa Korn, un ritratto ponderato e profondamente umano con Stefano Cordella nei panni stazzonati del tormentato scrittore, drammaturgo e uomo di lettere russo autore dei Taccuini. E’ un uomo al termine della sua vita quello che ci viene presentato, non ancora vecchio ma stanco e acciaccato, gravemente malato di tisi – malattia che lo porterà alla morte nel gennaio 1904. Tuttavia la sua scrittura è ancor vitale e in quest’ultimo alito d’arte il drammaturgo si rifugia, omaggiando ancora una volta la musa che lo salvò anni prima dalla natia Tangarog, città “sporca, insignificante, pigra, ignorante e noiosa” nella descrizione che ne fece per lettera alla sorella Marija.
Cechov sta cercando di scrivere un racconto satirico, che faccia ridere e che parli di un funerale, di un medico e di un comico equivoco. La sua ispirazione non è la grandiosa e imponente Mosca, che gli fece una così grande impressione in gioventù ma che si rivelò poi malevola e poco incline alla sua opera; non è Jalta, la città romantica in cui nacque l’amore per la moglie Olga, ora lontana e impegnata a calcare gli sfavillanti palchi di San Pietroburgo; lo scrittore, malinconico e bisognoso di un curativo affetto, si è invece rifugiato in campagna, le scrive assiduamente e nella ritmata vita di contadini e medici condotti trova il sollievo che cercava.
La scena si avvale di pochi elementi, essenziali e quotidiani: due appendiabiti, un catino e una scrivania sopra cui giacciono delle carte nere di scrittura, un lapis e una bottiglia di vino. Eppure l’ispirazione ancora non arriva e tra le pagine già vergate si affacciano numerosi fogli inesorabilmente bianchi.
A questo punto l’energica interpretazione di Cordella muta: da misurato e caustico commento sull’ordine del mondo che si spiega intorno a lui e al suo pubblico, lo spettacolo trascina ora lo spettatore in un vortice di entusiasmo e spensieratezza. Basta che l’attore si vesta da viaggio, salga sulla scrivania ed ecco aprirsi davanti agli occhi paesaggi nuovi, la Francia e Parigi, l’Italia con Roma, infine Berlino. Qui, a 44 anni, si interrompe la vita del grande scrittore russo.
Resto qua: la voce di Capossela, unico cantato nella colonna sonora della piéce, accompagna il commiato. Un’ultimo cambio d’abito: è col frac indosso, vestito di tutto punto come non l’abbiamo mai visto negli anni trascorsi insieme che Cechov ci saluta e torna alla sua Russia, terra di cui non fu mai soddisfatto ma che amò con tutto il cuore pur con tutte le sue contraddizioni: un padre collerico ed autoritario, una madre mite e silenziosa, una moglie appassionata, un pubblico di gente da poco ma anche di poeti, patrioti e uomini d’affari.
Il 9 luglio alla stazione Nikolaj di Mosca, arriva un treno. Trasporto di ostriche recita la scritta sul fianco del vagone; lì dentro c’è il feretro di Cechov, ma ingannati dal cartello i convenuti non se ne accorgono e seguono un altro corteo funebre. Sulla banchina solo un medico si ferma, depenna da un elenco nero di scrittura il nome dell’autore ormai defunto.
Il racconto, pretesto di questo bell’omaggio all’arte delle lettere, è finalmente concluso.
Giulio Bellotto