Month: gennaio 2015

Breve storia (polemica) del copyright

Qualche giorno fa vi abbiamo presentato un inedito bootleg dei Nirvana, ed eravamo davvero contenti che dopo 25 anni fosse disponibile per tutti su YouTube un concerto svoltosi quando ancora noi non eravamo nati, quello del Portland’s Satyricon del 25 gennaio 1990 in cui Kurt Cobain conobbe Courtney Love.
Ma per godersi questo pezzo di storia dell’alternative rock nel tipico sound casereccio di una vecchia registrazione, era necessario fare presto. Già il giorno dopo infatti, chiunque provasse a riprodurre ilo video si sarebbe trovato a leggere questo avviso:

"Questo video non è più disponibile a causa di un reclamo di violazione del copyright da parte di Kobalt Music Publishing"

“Questo video non è più disponibile a causa di un reclamo di violazione del copyright da parte di Kobalt Music Publishing”

Per quanto si senta dire spesso che il web è impossibile da controllare e che la rete rappresenta l’inarrestabile forza superiore dei nostri tempi, in poche ore YouTube aveva già censurato il video e ristabilito l’esclusivo diritto della Kobalt – casa discografica che rappresenta tra gli altri Kelly Clarkson, Dr. Luke, Nick Cave and the Bad Seeds, Gwen Stefani e Ryan Tedder – di usufruire del prodotto intellettuale di un’icona degli anni ’90 come Kurt Cobain.
L’influenza che la sua opera ha avuto sul mondo attuale è innegabile: tra fan, detrattori, simpatizzanti, il frontman dei Nirvana ha aiutato a definire l’identità dei post-baby boomers, la cosiddetta Generazione X degli anni ’60-’80, e ha lasciato una forte impronta sull’immaginario collettivo tanto da rideclinare la figura dell’artista maledetto e da entrare nel tristemente famoso Club 27 (espressione giornalistica per indicare quei musicisti morti in circostanze poco chiare all’età di 27 anni, a cui più recentemente si è aggiunta anche Amy Winehouse).

Ma allora per qual motivo io non dovrei poter disporre liberamente di ciò che crea ed è parte fondante della mia identità culturale e identifica me o i miei gusti artistici ed estetici? Perché non posso riprodurre, citare, plagiare, ispirarmi, riferirmi a ciò che mi piace e che trovo interessante?
La ragione sta tutta in questo simbolo, ©, e nelle sue implicazioni legali e culturali.
Vediamo allora qual’è l’origine del famigerato copyright, la cui violazione rappresenta in Italia la quinta ragione di condanna più frequente.

La prima regolamentazione sul diritto di copia risale a Enrico VIII d’Inghilterra, intenzionato a limitare la libera circolazione di idee potenzialmente sovversive diffuse dalla nuova tecnologia di stampa a caratteri mobili: si istituiva così una corporazione privata di censori, la London Company of Stationers i cui profitti sarebbero dipesi da quanto fosse stato efficace il loro lavoro di censura filo-governativa. Già alla nascita del copyright quindi alla volontà censoria che imponeva ad ogni editore di bruciare i volumi considerati sediziosi si affiancava l’interesse economico e politico, in quanto la corporazione degli editori esercitava a tutti gli effetti funzioni di una polizia privata.
Questo istituto legale sancì ben presto un monopolio da cui in origine l’autore non ricavava alcun guadagno – tentativi di ricreare questa condizione si sono visti anche in tempi moderni, come ricorda il caso della class action del 2008 contro le major discografiche.

In seguito, con le nuove idee liberali del Secolo dei Lumi, nel 1710 venne emanata la prima norma moderna sul copyright, lo Statuto della Regina Anna, che riconosceva agli autori che detenessero i diritti su di un’opera di bloccarne la diffusione e come contropartita permetteva agli editori di trasferire questi diritti da una all’altra persona fisica.
La sempre maggiore importanza che queste norme assunsero sulla fruizione culturale determinò poi la fine di altre forme di sostentamento intellettuale come il patronato privato o la sovvenzione pubblica. In pratica, il guadagno dell’autore dipendeva ora esclusivamente dal profitto dell’editore.
Nel corso dei successivi due secoli il modello inglese si estese anche agli altri paesi europei finché il 9 settembre 1886 fu costituita l’Unione internazionale di Berna, ancora oggi operante con il preciso scopo di uniformare le legislazioni in proposito.
Infine terminiamo questo breve excursus con l’avvento dell’era digitale, che ha abbattuto i costi per la riproduzione e la diffusione delle opere e ha costretto ad un ripensamento del concetto di copyright, ora inteso sopratutto come protezione della proprietà intellettuale; un principio di difficile applicazione, tanto da essere o salvaguardato con un’intransigenza puntigliosa ed eccessiva oppure violato nei modi più marchiani.
La complessità dello status quo è ben rappresentata in questo video realizzato dai ragazzi di LILiK, collettivo della facoltà di ingeneria dell’Università di Firenze:

Tuttavia è vero che si sono aperti molti spazi di autonomia nella pubblicazione di contenuti liberi da copyright: un caso con eco internazionale è stato Napster, il primo sistema di condivisione gratuita di file musicali, la cui chiusura nel 2002 non ha scoraggiato la nascita di nuovi programmi per il file sharing gratuito e dell’ancora poco regolamentato peer-to-peer.
Da questo fenomeno, ormai comune anche per quanto riguarda l’editoria libraria che ha trovato un temibile concorrete nei pdf ed ebook scaricabili in rete, deriva una costante diminuzione delle vendite di supporti tradizionali, libri o cd. La questione ancora controversa è piuttosto se a questa fruizione apparentemente più democratica dei contenuti corrisponda una de-professionalizzazione del settore e quindi una minore qualità del prodotto. Se si guarda però al mondo dei software open source, questo timore appare infondato: la partecipazione del pubblico al processo editoriale sembra funzionare alla grande, esattamente come aveva teorizzato Richard Stallman nel 1984 coniando lo spiritoso neologismo polemico copyleft, ideale antitesi del copyright.
Personalmente credo che sia più che altro una questione di equilibrio e che con una maggiore flessibilità da parte delle majors le due forme di editoria, professionale da una parte e partecipata dall’altra, possano convivere.

Un esempio di questa benevola flessibilità che tutti ci auguriamo è  il concetto di fair use previsto dalle normative di common law, secondo il quale di qualsiasi opera è permessa la riproduzione a scopo didattico o scientifico: in Italia quest’eventualità è ancora preclusa dalla scoraggiante istituzione nostrana della Siae, anche se l’argomento è stato oggetto di alcuni dibattiti in Parlamento.

Ma, sarete contenti di saperlo, anche in questo incerto e mutevole panorama c’è una nota positiva, che noi del Bloggo vogliamo assolutamente condividere con voi: dal primo gennaio di quest’anno il lavoro di undici celebri artisti, letterati e scienziati non è più soggetto a copyright – evviva!
Le loro opere sono diventate di pubblico dominio nei Paesi in cui la durata del copyright è fissata a 50 anni, come in Canada e Nuova Zelanda; invece laddove il limite del copyright è fissato per legge a 70, cioè qui in Europa (e in Brasile, Israele, Nigeria, Russia e Turchia), è possibile riprodurre, copiare e citare liberamente solo otto tra loro.
Per festeggiarli degnamente il Bloggo vi proporrà periodicamente alcuni loro pensieri, disegni, formule o teorie. Preparatevi dunque a fare la conoscenza di questi grandi esseri umani:

– Ian Fleming, giornalista, militare e scrittore inglese, autore di James Bond, nome in codice 007

– Antoine de Saint-Exupéry, scrittore e aviatore francese, autore de Il piccolo principe, Volo di notte, Terra degli uomini e L’aviatore.

– Glenn Miller, trombonista, jazzista, direttore d’orchestra e compositore statunitense, autore di Moonlight Serenade

– Filippo Tommaso Marinetti, poeta, scrittore e drammaturgo italiano, fondatore del movimento futurista

– Rachel Louise Carson, biologa e zoologa statunitense, autrice di Primavera silenziosa e fondatrice del movimento ambientalista.

– Vasilij Vasil’evi Kandinskij, pittore russo, creatore della pittura astratta

– Edvard Munch, pittore e incisore norvegese, precursore dell’arte espressionista

– Edith Sitwell, poetessa e saggista inglese, autrice di La madre e altre poesie e direttrice della rivista simbolista Wheels

– Piet Mondrian, pittore olandese esponente del movimento neoplastico De Stijl

– Felix Nussbaum, pittore surrealista tedesco di origine ebraica (morto nel 1944 ad Auschwitz), autore di Autoritratto con la carta di identità ebraica e Trionfo della morte

– Flannery O’Connor, Scrittrice e saggista statunitense autrice di La saggezza nel sangue e Il cielo è dei violenti

Giulio Bellotto

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I verdi cancelli di Auschwitz

Conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, affinché simili eventi non possano mai più accadere.
Dalla legge n. 211/2000 che istituisce le celebrazioni del Giorno della Memoria.

A settant’anni dall’abbattimento del famigerato, temuto, odioso cancello “Arbeit macht frei” del campo di concentramento di Auschwitz, il più tristemente famoso tra quelli che riportano il crudele motto nazista, lo stupore e l’orrore per quello che degli esseri umani sono stati capaci di fare ad altri umani non è ancora svanito. E penso che non potrà passare mai.
Uomini come noi, né più né meno, si sono scagliati contro ebrei, rom, sinti, socialisti, dissidenti, comunisti, omosessuali, slavi, malati di mente con sistematica furia omicida; il conformato contro il diverso, la violenza contro la libertà.

“Il lavoro vi farà liberi”; ma era una menzogna di cui vittime e carnefici si sono ritrovate ugualmente schiavi.
Solo la verità vi farà liberi, dice Giovanni 8:32. Per quanto difficile da comprendere e accettare c’è stato un tempo in cui i campi sono stati veri, reali e funzionanti. La Memoria che ne dobbiamo rispettosamente serbare sia lo scotto per gli errori della nostra stanca ma fiera umanità; l’umiltà di riconoscerli e la volontà di non ripeterli ci sono ben presenti.
Durante questa giornata più che in altre molti andranno con la mente a un’epoca che neppure hanno vissuto per riflettere su cosa significhi essere uomini, per ascoltare lontani echi di un passato in cui tante cose sbagliate e vigliacche si mescolavano, esattamente come oggi, con tante buone e coraggiose. Per pregare, forse.
Alcuni torneranno a quei giorni di vita terribile e preziosa vissuti sulla loro pelle, e piangeranno come ogni uomo giusto dovrebbe fare pensando ad un dolore così grande.

Di fronte a tutto questo non c’è nulla che si possa dire. E non un momento in cui ritenersi soddisfatti di quello che è già stato detto.

Ma le pianure battute dal vento laggiù in Polonia sono di nuovo verdi e sotto quel famigerato, temuto, odioso cancello, persino lì è ricresciuta l’erba. Anche questo voglio ricordare nel giorno della Memoria.

Il Bloggo

La Grecia e la lotta di classe europea

Thanos Anastopoulos ce ne aveva parlato anni fa, raccontandoci con poetica e indignata rassegnazione le impossibili condizioni di vita della popolazione greca.
Regista colto e raffinato, nel 2013 ha infatti presentato al Berlin International Film Festival la commovente storia di Myrto, una ragazzina di 14 anni pronta a rapire il figlio di un locale banchiere in un disperato ed ingenuo tentativo di salvare la falegnameria paterna strozzata dai debiti; una trama che per soggetto e intensità drammatica si pone come termine medio tra il realistico ma scanzonato La gang della spider rossa e l’esagerazione grottesca di Io non ho paura, ma che sopratutto leva un alto grido di dolore sull’attualità greca con l’acutezza che solo l’arte engagé può dimostrare.
H ΚόρηLa figlia, questo il titolo del lungometraggio che abbandona lo stile astratto e sognante del primo Anastopoulos in favore di quello che è stato giustamente affiancato al realismo sociale della British New Wave cinematografica degli anni ’50 e che negli intenti mi spingerei a paragonare perfino alla potenza figurativa di artisti come Käthe Kollwitz, George Grosz o Otto Dix.
Anche loro infatti, pur nel diverso contesto della Germania degli anni ’20, intendevano denunciare uno stato di cose, piegarsi al quale sarebbe stato moralmente inaccettabile: un’oppressione a cui rispondere, sulle macerie della Grande Guerra, con l’ennesimo conflitto. Non più una lotta tra Stati, ma di classe.

A ben guardare possiamo trovare più d’una somiglianza tra quella realtà storica e il panorama attuale. Infatti, sebbene abbia cause economiche del tutto differenti, ciò che oggi succede in Grecia ha gli stessi effetti sociali descritti dai testi di storia in riferimento alla Repubblica di Weimar. Siamo di fronte all’inasprimento di una “guerra tra poveri” che vede contrapporsi disperati ad altri disperati nel vano tentativo di restare a galla senza annegare nei debiti, esattamente quello che succede nella verosimile finzione cinematografica immaginata da Anastopoulos. Se allora i colpevoli del clima di tensione erano gli industriali arricchiti dalle commesse di guerra, oggi la responsabilità della difficile situazione greca va addossata in toto al governo Samaras, che dal 2012 ha portato avanti un piano di austerity intransigente e cieca utile all’esigua élite di censo a discapito della maggioranza della popolazione. Il che, nella culla della democrazia occidentale, è molto triste a maggior ragione perché avallato dai piani economici europei promossi in primo luogo dalla Germania, totalmente dimentica del suo stesso passato.

Eppure qualcosa sta cambiando: la vittoria di Tsipras alle elezioni anticipate di ieri, netta anche se non ha ottenuto la maggioranza assoluta, dimostra la volontà del popolo ellenico di modificare la rotta in senso egualitario. Il che, inevitabilmente, collide con le posizioni della Troika; quella greca è dunque una scelta anti-europea?

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Le cose non vanno esattamente così

A costo di utilizzare un linguaggio politico antiquato, risponderò così: “Non diciamo corbellerie“.
E mi sento anche di aggiungere: “Non c’è alcuna guerra tra Stati ricchi e Stati poveri all’interno dell’Unione. L’unico elemento disgregante è semmai la differenza di classe, che ha raggiunto anche in Europa livelli preoccupanti”. Un’evidenza che purtroppo possiamo verificare semplicemente uscendo di casa.
Ma per i più scettici c’è un’ulteriore conferma di questo punto, chiarito efficacemente dal quantitative easing della BCE, meglio conosciuto come “il bazooka di Mario Draghi”. Una chiara dichiarazione di intenti che a prescindere dall’efficacia della manovra riconosce come il più grande problema dell’Eurozona sia l’assenza di una diffusa crescita economica; da qui deriva la pericolosa concentrazione della poca ricchezza prodotta ad oggi e lo sproporzionato aumento della forbice sociale, problemi a cui è assolutamente necessario porre rimedio, come sta avvenendo sia in Grecia sia nei caveau della Banca centrale.

E in Italia? Per come la vedo io non possiamo che imboccare la strada indicata dalla Grecia, ancora una volta culla di democrazia, evitando i pericolosi tranelli dei populismi e degli estremismi fascisti. Loro con Pasok e Alba Dorata ci sono riusciti, noi ce la faremo con Renzi e Salveeenee?

Giulio Bellotto

Andreotti e Berlinguer secondo Giorgio Gaber

Oggi cade un anniversario molto importante per me e per chi come me apprezza la buona musica della tradizione cantautorale nostrana: se non  ci avesse lasciato il primo gennaio del 2003, oggi sarebbe il 76esimo compleanno di Giorgio Gaberscik!
Chi è? Ma è il signor G. ovviamente!

Gaber

Attore e regista teatrale, primo interprete del rock’n’roll italiano, iniziatore del Teatro Canzone, il nome di Gaber – così Gaberscik si fece chiamare quando niziò a suonare con Enzo Iannacci ne I due corsari – non ha bisogno di presentazioni.
La sua carriera nel panorama della musica leggera italiana parla da sé: capace di interpretare gli umori e i malumori del popolo della Prima Repubblica, senza esimersi dal difficile compito di svelarne le ipocrisie e le piccolezze, più che parlare ad un periodo storico, il signor G. si appella al nostro lato più umano e quotidiano, più vero e mistificato.
Nel suo stare in equilibrio tra canzone popolare ed espressione artistica, non si può negare che Giorgio Gaber – o meglio il personaggio che lui interpretava, l’uomo comune dalla spiccata coscienza politica, un outsider così simile e così diverso dal villagiano Fantozzi Rag. Ugo – abbia rappresentato appieno la vera essenza dell’Italia nei suoi travagliati anni di piroette e repentini voltafaccia, dal dopoguerra agli ’90 del primo berlusconismo.

Tempi, dunque, di perbenismo diffuso in cui l’arma per vincere quella che significativamente (e con un delizioso lessico antiquato) era definita l’ipocrisia borghese era una sola: l’ironia – quella vera e sana, che probabilmente oggi in molti dovrebbero studiare e prendere ad esempio.
E si trattava davvero di uno strumento che nelle mani del Nostro diventava pura poesia: per darvene un’esempio, a tema con l’ultimo articolo del Bloggo, ecco un video che speriamo possa allietare la vostra domenica e portarvi un po’ del vento che spirava verso “il sol dell’Avvenir”. Ovviamente visto sorgere con il caustico, scanzonato, enigmatico sorriso degno del solo Signor G.
Buon ascolto a tutti!

Giulio Bellotto

Allontanatevi per guardarci meglio

Dopo il bel messaggio di felicità e speranza che abbiamo lanciato a Natale, proclamando che solo la fede, la poesia e l’amore possono scoprire la bellezza del mondo, eccoci scivolati nel 2015. Mentre ancora sbagliamo a scrivere l’anno nella data, si aggiunge un giorno da ricordare: il 7 gennaio.
Dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo abbiamo preferito osservare un rispettoso silenzio e non soffermarci sul fatto di cronaca, anche perché un commento ponderato necessita di una distanza e di una riflessione più approfondita.
Non abbiamo neanche trattato l’importante argomento della libertà d’espressione, perché in fondo cos’altro ci sarebbe d’aggiungere?

E’ interessante, d’altro canto, vedere lo sviluppo delle mobilitazioni di questi giorni: slogan e immagini si sono sprecati e si rincorrono nella rete. Le matite nei cannoni, “io sono”, “io non sono”. Da che parte dobbiamo schierarci?  Laddove l’incontro tra concittadini di cultura e religione diversa già da tempo è diventato diventato guerra, il dialogo ha perso in partenza. Non c’è la fazione dei vincitori, i buoni contro i cattivi, perché come diceva mia nonna “a litigare si è sempre in due” e le ragioni degli uni si confondono nei torti degli altri.

Nonostante queste considerazioni, come essere umano non posso rimanere insensibile davanti a questo bombardamento di vignette e manifestazioni di solidarietà. In particolare una mi ha colpito per le sue implicazioni.

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Il disegno è stato realizzato dall’artista Bansky come simbolo di sostegno a Charlie Hebdo. La matita non è una coda di lucertola che rigenera se stessa, ma dalla stessa nascono due matite diverse, due pensieri diversi. Il senso dell’immagine probabilmente è che quando un pensiero viene attaccato si rafforza invece che indebolirsi, ma a me piace pensare che quella seconda mattina temperata dalle macerie della prima conservi un po’ dell’eredità di sua madre e allo stesso tempo porti in sé un tratto di innovazione e cambiamento, uno stile e una comunicazione diversa.

Così noi non ci vogliamo identificare in slogan, in pensieri preconfezionati e conformati, ci piace un pensiero che sia malleabile, gli interventi articolati e i confronti da cui nascono idee nuove diverse dalle premesse.
Sebbene nessuno più creda nei buoni propositi dai tempi dei fioretti alle elementari, il Bloggo spera sinceramente che il suo pensiero sia in continua evoluzione, di riuscire quando serve a criticare se stesso e che se la sua matita si spezzerà, ne possano nascere sempre di nuove.

Stay tuned

il Bloggo

Le tessere di partito ai tempi dell’Internazionale

Verso le dieci del 21 gennaio 1921 – esattamente 94 anni fa – Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti e altri dei leader socialisti più in vista (tra cui Egidio Gennari, Bruno Fortichiari e Francesco Misiano) uscirono dal Teatro Goldoni di Livorno, dove si stava tenendo il XVII congresso del PSI e, intonando a voce spiegata le note dell’Internazionale, si diressero con passo deciso al più elegante e raccolto teatro S. Marco, dove nacque ufficialmente il primo partito comunista italiano.

Motivo della scissione, avvenuta dopo sei giorni di accesa discussione, era l’accusa rivolta alla gestione del presidente socialista Giovanni Bacci di essersi posto al di fuori del Comintern. Così il neonato partito si dichiarò “costola italiana della III Internazionale” ed elaborò il manifesto Ai compagni e alle sezioni del PSI, diffuso attraverso un nuovo giornale, Il Comunista. Su queste pagine, però, trovarono spazio anche illustrazioni e opere di propaganda elettorale davvero notevoli, godibili anche oggi per la loro estrema cura e il loro indubbio valore artistico.

Per darvene un esempio abbiamo raccolto i frontespizi delle tessere del partito, disegnate tra il 1921 ed il 1926 quando, in seguito alle leggi fascistissime emanate da Mussolini, il PCd’I venne messo al bando.

1926

1921

1922

1923

1924

1925

Dopo il 1926, il PCd’I operò sia clandestinamente sia all’estero, sopratutto a Londra, Parigi e Mosca (dove trovò rifugio l’ex-segretario Togliatti). Con la Liberazione, il Partito Comunista d’Italia riprese l’attività legale come Partito Comunista Italiano; ma questa è un’altra storia. E le tessere non furono mai più così belle.

Giulio Bellotto

COACHELLA 2015

Per chi non lo sapesse Coachella è uno dei festival musicali più importanti dell’anno, richiama tutti i musicisti più famosi della scena musicale per due weekend, il 10-12 e 17-19 Aprile ad Indio, California. La line-up di quest’anno è appena uscita e tra i nomi più famosi spiccano gli AC/DC, Alt-J, Kasabian, The War On Drugs (il cui ultimo disco –Lost In The Dream- è stato messo nella classifica dei migliori del 2014 dall’Internazionale), Tame Impala e tanti altri.

DRAKE

Quindi nel caso vinceste la lotteria o vi lasciassero una cospicua eredità, adesso avete un’idea su come spendere i vostri soldi. E non dimenticate di invitarci!

Valentina Villa

Games of Thrones

Quante volte vi hanno suggerito di immaginare il vostro professore in mutande per combattere l’ansia da interrogazione? L’artista Cristina Guggeri si è spinta ben oltre. Probabilmente si sentiva così in ansia per la situazione politica mondiale che col suo nuovo progetto satirico Games of Thrones ha deciso di creare questi arguti fotomontaggi dei più famosi ed influenti politici in momenti molto intimi.

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E’ interessante sopratutto come i ben noti volti di queste persone siano rivisti sotto una luce nuova: Putin sembra molto più mite di quanto siamo abituati a vederlo; il Dalai Lama sfoggia una smorfia decisamente arcigna; a un preoccupato Berlusconi fanno da contrappunto i lineamenti molto depressi di Angela Merkel e di Mario Draghi (che tra l’altro indossa improponibili mutande geopardate, avete notato?)
Il nostro preferito però rimane senza dubbio Obama, che non toglie mai la posa da campagna elettorale, che gran comunicatore!

Giulio Bellotto e Valentina Villa

Noi non siamo il Corriere della Sera

La famigerata febbre di Charlie Hebdo, di cui vi abbiamo parlato ieri, colpisce ancora.
E stavolta non affligge solo caotiche folle indistinte e indistinguibili di lettori ben decisi a difendere la libertà di stampa e il loro diritto di esprimersi liberamente.
Il contagio stavolta serpeggia per Milano, s’insinua fino in via S. Marco, entra al numero 21 per il portone principale e infine si spande per tutta la redazione del Corriere della Sera. Lì infatti il 14 gennaio, a sette giorni esatti dalla strage di Charlie Hebdo, Paolo Rastelli, evidentemente colpito in forma grave dal nuovo terribile virus, firmava un articolo in cui si annunciava che il “gesto concreto” del Corriere in favore della rivista satirica sarebbe stata la pubblicazione di molte delle vignette prodotte dagli illustratori europei – le cosiddette libere matite – in un volume il cui ricavato sarebbe andato alla decimata redazione francese.
Nessun dettaglio su come sarebbero state selezionate le opere che avrebbero dovuto riempire le oltre 300 pagine della speciale edizione benefica; veniva solo specificato che sarebbero state scelte tra quelle circolate in rete negli ultimi giorni.
Bene, bravi! E’ bello sapere che una delle maggiori testate italiane non si limita a osservare e riportare passivamente le notizie ma si fa anche veicolo di approfondimento e contestualizzazione culturale, oltre che strumento benefico. Bisogna essere felici che il Fatto non sia lasciato solo nella difficile operazione di far comprendere al pubblico cisalpino quale sia la concezione, l’importanza, e il gusto della satira in Francia. Dopo la proposta indecente (e per di più totalmente improvvisata sul momento, direi quasi campata su Twitter) di Daniela Santanchè, chiunque si proponga di contribuire alla causa sia il benvenuto!

E invece purtroppo no.
L’articolo infatti taceva due informazioni piuttosto rilevanti: innanzitutto la bassa risoluzione delle stampe, di scarsa quando non scarsissima qualità – ma in fondo, siccome quello che conta di questa iniziativa sono in primo luogo i contenuti, l’appagamento coloristico dei pixel può essere messo in secondo piano, sopratutto con poco tempo a disposizione per la stampa e la raccolta dei materiali.. Già, la raccolta dei materiali.
Il secondo argomento taciuto da Rastelli era proprio questo. Nessuno aveva avvertito i lettori che le vignette sarebbero state utilizzate senza il consenso degli autori; a farlo presente con le loro lettere aperte al giornale milanese sono stati gli stessi artisti, tra cui Giacomo Bevilacqua e Roberto Recchioni.
Se potevamo ben aspettarci una simile mancanza di rispetto da parte di Visibilia, la casa editrice della Santanchè, è sconcertante constatare che anche un’azienda “seria” e quotata come RCS MediaGroup, la holding del Corriere, manifesti apertamente lo stesso pressappochista disinteresse per la dignità del lavoro artistico e per i diritti di chi lo crea. In un’occasione che, per di più, aveva tutte le premesse per essere un interessante momento di confronto tra web e editoria sul tema così sensibile della libertà d’espressione.

A quanto pare però l’unica cosa che interessa è ancora una volta il guadagno e la visibilità, per la quale non si esita a sfruttare in maniera strumentale e orrendamente cinica una tragedia come la strage di Charlie Hebdo.
Ma d’altronde che il Corriere fosse sordo alla voce della rete e completamente assorbito dal suo anacronistico mondo di carta stampata, lo si era già capito quando Severgnini operava su quelle pagine la pretestuosa distinzione tra libertà maiuscole e libertà minuscole, nel puerile tentativo di giustificare l’odiosa scelta di censurare i commenti sul proprio sito web. Dov’era allora la libertà d’espressione di cui adesso questi signori si fanno paladini e si sciacquano ben bene la bocca? D’altronde, armati delle vignette altrui siamo buoni tutti.

Ma sperando ancora ingenuamente che dietro a questa bieca operazione di marketing camuffato da solidarietà e senso civico ci sia qualche residuo di moralità superstite, faccio una breve ricerca su internet.
Ora, in calce all’articolo di Rastelli, si legge:

Post Scriptum (dopo le polemiche): Il ricavato di questa operazione, è bene ribadirlo, sarà devoluto interamente a favore delle vittime della strage e del giornale Charlie Hebdo. Aspettare di avere l’assenso formale di tutti gli autori, a nostro giudizio, avrebbe rallentato in maniera sensibile l’operazione. Comunque sul libro, in quarta pagina, c’è scritto con chiarezza che «l’editore dichiara la propria disponibilità verso gli aventi diritto che non fosse riuscito a reperire»

E ancora sotto:
© RIPRODUZIONE RISERVATA

E’ proprio il caso di dirlo, forte e chiaro:

NonSonoIlCorSera

disegno di Leo Ortolani

Giulio Bellotto